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Autore: Nirvana_04    02/08/2016    6 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Il Tredicesimo Re
Agur, primo del suo nome
-Seconda Parte-








 
Le Pietre di Shaev erano quattro lastre di perion conficcate nel terreno e slanciate verso l’alto cielo azzurro. Si diceva che era stato un antico stregone ad erigerle tra i passi dei Monti Silenti, come monito a non avanzare oltre. Agur ammetteva che era curiosa la collocazione di quelle rocce, l’unico giacimento di quel materiale si trovava a miglia più a ovest, nella colonia dell’isola di Serinut; ma probabilmente erano stati i Figli di Cahar stessi a metterle lì, loro soli sapevano a quale scopo. Erano solo rocce, dello stesso materiale di cui era fatta la sua corta cotta di maglia; nulla di più.
La paura dei suoi compagni era stata la corda che gli aveva dato la carica. Se loro non ne avevano il coraggio, egli sarebbe andato da solo; al suo ritorno, si disse, avrebbe fatto un brindisi alla loro codardia.
Cahar era la città più prospera di tutta Venasta, costruita in una valle chiusa tra i burroni a sud, le terre ignote a est, i Monti Silenti a nord e le grandi Barriere a ovest. La macchia di conifere si estendeva per l’intero territorio a nord-ovest, fino ai precipizi a occidente e oltre le montagne, fino alle Terre dei Meticci. La zona ai piedi dei monti era la meno battuta e non era raro imbattersi nella selvaggina più grossa da quelle parti; inoltre, puntualmente, manipoli o gente solitaria proveniente dal Frotsz superava il confine e razziava i villaggi limitrofi. Il Re, suo padre, guidava un manipolo di guerrieri l’anno, per trucidare gli invasori.
Agur non era nuovo a quelli incontri; già una volta gli era capitato di imbattersi nei Meticci di Frotsz ed era andata male, a loro ovviamente. Risalì la mulattiera che serpeggiava sicura tra gli alberi più giovani e risaliva le pendici delle colline boschive. Era partito prima dell’alba, con un bagaglio leggero: l’arco e la faretra, un coltello nascosto nello stivale nero e la sacca con i viveri per tre giorni. Nulla fuori dallo straordinario, una caccia come le altre; se non fosse che l’obbiettivo era entrare nella leggenda, insieme alle belve delle ballate. Già sognava i canti intorno al fuoco che avrebbero narrato delle sue avventure, e gli uomini e le donne che innalzavano canti di vittoria in suo onore.
Abbandonò ben presto la stradina per inseguire il tracciato di un vecchio passo di montagna. Le colline si fecero più irte e gli alberi più radi, fin quando non vennero completamente sostituiti dagli alti picchi di roccia. L’astro, color d’avorio, risplendeva a picco sulla sua testa e lo vegliò per tutto il giorno, osservandolo mentre guadava un torrente, scalava una piccola parete di roccia e strisciava lungo una parete in un tratto franato. Giunse alle Pietre di Shaev all’imbrunire, quando l’orizzonte occidentale si tinse d’oro e incendiò i boschi sotto di lui.
Agur ammirò le antiche pietre, sacre al Dio Agabar, la divinità del Fato adorata dai caharrin. Due volte l’anno, fanciulle a lui consacrate salivano fino a lì e celebravano le Agaas, i riti di benedizione dove, seminude e bendate, offrivano doni al Dio per ingraziarsi la buona sorte. Il principe lo considerava uno spreco: tanta verginità devota ad una creatura che la disdegnava dall’alto.
Racimolò della legna secca e accese un basso fuoco, su cui sistemò della carne. Nella semioscurità della sera, le Pietre gettavano ombre minacciose ai suoi piedi, e più di una volta lo costrinsero, suo malgrado, ad alzare lo sguardo nella loro direzione: erano alte più venticinque braccia, nere come il diamante più raro e, alla luce delle braci, riflettevano sulla loro superficie a specchio uno strano scintillio bluastro. Agur li voltò spavaldamente le spalle e si raggomitolò sotto il mantello, attendendo l’alba.
Lo stridio di un rapace lo scosse dal suo sonno. Vide la luce del giorno alzarsi ad oriente e, confuso, si guardò attorno cercando di capire perché le ombre ghermissero ancora le sue membra. Alzò la testa verso le Pietre e si alzò, infastidito. Le ombre si allungavano su di lui e oltre per diversi metri, scacciando la luce e il suo richiamo alla veglia.
Rinfoderò ogni cosa nella sacca e si avvicinò a passo lento alle alte vigilanti, una focaccia leggermente indurita tra i denti. Alle loro spalle, offuscato da una leggera nebbiolina, stava il passo di montagna: la sua terra era nera e morbida, non venendo calpestata da chissà quanto tempo; le piante erano rigogliose ai suoi lati e parevano beneficiare più delle altre del calore del sole. Agur piegò leggermente il capo e cercò di perforare le coltri in lontananza. Alla mente gli tornò la storia che i fedeli del Dio raccontavano da secoli.
Agabar era il Dio con due facce e il suo corpo era ricoperto interamente da nere placche cornee, su cui si riflettevano i mille visi del bene e del male; la faccia sorridente era bianca come l’astro luminoso del giorno, mentre quella fosca si celava dietro ad una nera cute di scaglie di cristallo nero. Quando il diluvio scagliato dal Dio Volor ricoprì la terra, raggiunse anche l’alto dei picchi della sua dimora e bagnò il suo corpo. L’acqua, che scivolava giù dai suoi dirupi, trascinò con sé pezzi della sua pelle che precipitarono tra i valichi delle montagne; da esse vennero generate le belve. Ma il Dio del Fato necessitava di un equilibrio e, per fermare la distruzione delle sue creature, scagliò con forza sulla terra pezzi del suo viso funesto, conficcandole al suolo e arrestando l’avanzata del male. Finché nessuno le avesse oltrepassate, il pericolo avrebbe errato iracondo lontano dai Figli di Cahar.
Agur sbuffò, spazientito dal filo dei suoi pensieri. I Meticci abitavano dall’altra parte dei Monti Silenti, oltre le montagne c’era la loro terra; se essa era calpestata da qualche creature mitica, egli l’avrebbe abbattuta e ne avrebbe offuscato il mito. Ma si rifiutava di credere alle fandonie dei fedeli: per lui esisteva solo un unico Dio, ed era quello che muoveva il suo braccio verso la vittoria.
Con lo sguardo dritto verso la meta, varcò il limite delle Pietre di Shaev. Per un attimo un lampo blu si irradiò nelle sue iridi, per poi sparire per sempre nelle profondità della pietra scura.
Il valico di montagna serpeggiava come un lungo pitone avvolto con le sue spire intorno al Monte Tacut, la vetta che si frapponeva tra lui e il Frotsz. La terra era soffice e i suoi piedi affondavano per alcuni centimetri nel suolo; il profumo di terreno bagnato era denso e investì con prepotenza le sue narici. Le anemoni crescevano ordinatamente sul ciglio del passo, bianchi come la luce accecante a mezzodì. Ben presto, le pareti della montagna si elevarono ai suoi lati, mentre la stradina si snodò attraverso cavità nella roccia, trasformandosi per piccoli tratti in tunnel. L’astro si era celato dietro ad un banco di nubi grigiastre e gettava ombre luminose sul suo cammino, il chiarore che filtrava attraverso le maglie della nebbia.
Agur aveva già da un po’ impugnato l’arco e con le dita ne accarezzava la corda tintinnante, saggiandone la tensione. Il suono baritonale, che si liberava sotto il suo tocco, era una nota monocorde che aveva l’effetto di distendere i suoi muscoli e placare il suo animo.
Gli pareva di camminare da delle ore e infine, ai pressi di una roccia sagomata, decise di sostare per mangiare il suo rancio. Si sedette, l’arco poggiato contro il suo fianco e guardò il cammino che aveva compiuto fino a lì. La foschia umida ammantava ogni cosa in una luce ovattata che sbiadiva le immagini e occludeva la piena visuale del panorama. Mentre sgranocchiava una galletta, i suoi occhi si posarono su un fiore dai petali aguzzi, sul ciglio di fronte. Fece per avvicinarsi e raccoglierlo, quando qualcos’altro catturò la sua attenzione. Il terreno, nonostante la sua spugnosità, aveva assorbito le sue orme e ne aveva nascosto le tracce. Si rese conto che, se avesse voluto tornare indietro, non avrebbe potuto: la nebbia sembrava richiudersi su di lui e il passo, così ben definito, si era seghettato nel candore della foschia e dava l’illusione di essersi diramato in tanti piccoli valichi da cui non riusciva più a distinguere quello percorso. Fece un passo avanti, esitante, e la punta del suo stivale sbatté contro un sasso; abbassò lo sguardo e vide un teschio umano parzialmente dissotterrato.
Il sopravvissuto indietreggiò istintivamente.
Dannazione, imprecò nella sua mente. Aveva sentito parlare dei tentativi di altri cacciatori esperti tentare l’impresa, ma nessuno era mai tornato vivo. Si diceva che il Caimhal si cibasse delle loro paure e infine, molto lentamente, dei loro corpi; egli aveva dedotto che fossero stati uccisi dai Meticci del nord.
Beh, si disse, non avrebbe fatto la loro stessa fine. Scacciò la paura, scuotendo il capo e lasciando che i suoi capelli mossi – che gli arrivavano fin quasi alle spalle – sventolassero disordinatamente intorno al suo volto. Riprese l’arco e tirò fuori due frecce. Pronto per la caccia, fece l’unica cosa che gli pareva sensata: andò avanti.
La nebbia lo ammoniva con la sua costante presenza, ma non lo ostacolava, limitandosi a lasciar vagare nell’aria i suoi inascoltati consigli. Più avanzava, più il cammino si ricomponeva dinanzi a lui: le pareti ai suoi lati restrinsero fino a quando egli avrebbe potuto sfiorarle entrambe, se solo avesse allargato le braccia; la vegetazione scomparve per un lunghissimo tratto, durante il quale strani odori raggiunsero le sue narici – muschio bruciato e un oleoso profumo di flora sconosciuta. Infine le Pietre di Shaev ricomparvero dinanzi a lui ed egli si bloccò, titubante. Strinse i denti, per un attimo convinto di aver girato in tondo, e poi spalancò la bocca, un fischio sommerso che gli sfuggì dalle labbra. Tra i costoni di roccia sotto di lui e le alture innevate a nord, era incastonata una valle; la vegetazione bassa e gli alberi tozzi primeggiavano tra cascate di muschio e acqua e fiumiciattoli argentini che infiocchettavano la terra fiorita, donandola ai suoi occhi a mo’ di benvenuto. I suoi piedi si mossero verso il ciglione roccioso, le frecce nuovamente rinfoderate nella faretra; oltrepassò le Pietre di perion. Un tonfo sordo, come di un grosso tamburo percorso in lontananza e in profondità, risuonò nelle orecchie e vibrò nel suo petto. Si guardò intorno, disorientato. I suoi occhi catturano un baluginio bluastro nella pietra prima che esso venisse inghiottito dalle tenebre. Fece per avvicinarsi, ma un dolore smorzato alla tempia lo accecò e l’oscurità ghermì anche lui.
 
 
La lingua che parlavano gli uomini non era la sua; non somigliava neanche ai suoni gutturali dei Meticci. Sentì l’odore del sangue invadere i suoi sensi e il dolore alla testa gli fece presumere che, molto probabilmente, era il suo. Si era fatto catturare come un principiante; ma non avrebbe reagito come tale. Estese i suoi sensi e capì con una certa ovvietà che l’arco e le frecce gli erano stati strappati via. Registrò anche la mancanza della sua sacca; nessuno però lo aveva privato della maglia di perion e questo, in qualche modo, lo consolò.
Suoni agitati lo costrinsero ad aprire gli occhi; e ciò che vide lo atterrì. Gli richiuse, sperando di non aver attirato l’attenzione di quelle creature, succube di paure e angosce che le antiche storie e i suoi occhi avevano risvegliato in lui. Qualcosa lo ghermì dai capelli e lo obbligò a riaprirli. Strinse i denti, dolorante: la belva aveva abbastanza forza da tirarlo su dai suoi peli, ma temette che questi si potessero staccare dalla cute per lo sforzo della tensione a cui erano sottoposti. Si guardarono, il giovane uomo e la bestia, e i suoi occhi impressero nella sua memoria l’orrore: aveva arti, quella cosa, lunghi e legnosi e neri, con venature vermiglie che percorrevano come scie di lava l’epidermide; erano completamente nudi, ma la loro nudità non era un problema, visto che erano privi di genitali; e i loro volti…Agur boccheggiò sul volto del suo carnefice. Il cacciatore spalancò i suoi occhi color della bruma e li fissò nolente in quelli di sangue del mostro: nessuna iride, nessuna sclera, nessuna pupilla; solo rosso.
La creatura aprì la bocca, un taglio dritto sul tronco lichenoso che era il suo viso, e ripeté quei suoni raschianti, striduli, come se un legno stesse grattando una dura superfice. Qualcuno gli rispose, Agur non seppe chi; di certo non lui. Il principe di Cahar era impegnato nel tentare di toccare il suolo con i piedi, poiché i capelli non avevano intenzione di staccarsi dalla cute, ma la testa minacciava di spezzarsi dal collo; la creatura doveva essere alta più di due metri. Sentì il viso prendere pallore e le punte dei piedi formicolare; prima di perdere completamente il controllo dei suoi arti, diede un colpo di reni e con le dita della mano liberò il pugnale nel suo stivale e recise la sua chioma ramata. Ricadde a terra e rotolò, lontano dall’essere, cozzando contro rocce e terra brulla. Tossì e solo allora si rese conto che era a corto di fiato.
In un impeto di raziocinio, scattò dietro ad un masso e lasciò sbattere la schiena contro di esso. Fece un profondo respiro, riprendendo possesso della sua freddezza. Erano quelli gli esseri che la leggenda di Venasta temeva tanto? Quei giganti dalla dura pelle, nera come il carbone, erano i famosi Caimhal? Di certo non si potevano considerare animali o esseri che la Dea Anojah avrebbe potuto creare e lasciar scorrazzare per il suo giardino. Ma erano comunque il suo obiettivo.
Intanto quei suoni striduli con cui comunicavano avevano ripreso a raggiungere le sue orecchie. Si mosse, rasente la parete di roccia, e discese per un declivio del terreno che lo condusse nelle prossimità di un piccolo agglomerato di case: poco più di mezza dozzina, di legno. Poté vedere delle scrofe poltrire all’interno di un recinto e due Meticci dar loro da mangiare. Agur si accigliò; quindi quelle creature erano al loro servizio e quello doveva essere un loro villaggio. Prono, sgattaiolò dietro ad un tavolo riverso e si nascose alla vista degli uomini. Aveva creduto che le Terre del Frotsz si estendessero più a nord, distanti dai monti.
I Meticci hanno allargato i loro domini e si prestano a invadere a massa i nostri, rimuginò sorpreso. Sollevò il capo, un luccichio duro negli occhi. Venasta deve prepararsi ad accoglierli.
Osservò la disposizione degli edifici e ne individuò uno più grande. Si avvicinò al capanno, l’odore di fieno ed escrementi, e s’infilò cauto al suo interno. Camminò tra i quadrupedi e scelse quello che, secondo lui, lo avrebbe condotto il più velocemente lontano da lì. Un rumore improvviso lo fece voltare, le briglie sciolte e i crini già stretti in una mano, pronto a balzare in groppa: un Meticcio era sbucato da una porta laterale e si stava avvicinando, senza notare la sua presenza. Agur indietreggiò, ma quello scelse il momento sbagliato per sollevare il suo sguardo; l’urlo gli morì in gola, il pugnale che gli aveva perforato la trachea. Il principe lo raggiunse, estrasse la lama e con un colpo tra le costole del fianco sinistro mise fine al suo dolente gorgoglio. Notò, con un solco verticale sulla fronte, che l’uomo del Frotsz portava le catene ai piedi e il suo corpo, coperto con pelli rovinate, era pieno di chiazze e segni di tortura; ad entrambe le mani mancavano i pollici.
Prigioniero, dedusse.
Un tintinnio di catene e ferraglia che sbatteva lo riscosse. Si nascose dietro una bassa palizzata accanto alla mangiatoia e guardò altri due Meticci far capolino nella stalla. Gli uomini si imbatterono nel cadavere del compagno e, sconvolti, indietreggiarono. Il rumore di legna scoppiettante lo fece voltare: dall’ingresso da lui utilizzato entrò una di quelle creature; fiutò l’aria e punto i lapilli oculari su di lui.
Agur scattò e con un abile mossa pugnalò un uomo alle spalle; liberò la lama e la puntò alla gola del secondo. “Lasciami passare, Caimhal, o ucciderò il tuo padrone.”
La creatura si fermò. Parve studiarlo per alcuni istanti, soppesando la sua figura e valutandone le abilità. Ad egli sembrò star ragionando sul da farsi, quasi comprendendo la sua lingua. Per rendere più chiaro il messaggio, premette la lama contro la gola del Meticcio e lasciò che un rivolo di sangue scendesse lungo il suo collo.
L’essere sgranò gli occhi e parlò: “Farlo tu, caharrin. Caimhal non essere. No osso del padrone.”
La mano di Agur ebbe un guizzo: l’essere parlava la sua lingua; o una sua personale variante. “Fammi passare e libererò il tuo padrone.”
L’essere fece un passo avanti. “No osso del padrone” ripeté. Parve interpretare la confusione sul viso del principe, perché aggiunse: “Osso” indicò il Meticcio. Flettè la schiena e sporse il viso verso il caharrin. “Padrone” e puntò il dito con forza al suo petto.
Agur squarciò la gola del Meticcio e, maledicendo il Dio del Fato, balzò in groppa al cavallo. Lo spronò e, afferrato un rastrello sito contro la porta, lo scagliò contro l’essere. Con la coda dell’occhio vide quello rimanere immobile, mentre i denti di ferro rimbalzavano contro il suo petto. Agur aizzò la bestia e la guidò con mani sicure verso i monti, lasciandosi dietro le baracche di schiavi. I loro versi striduli lo raggiunsero, echi tra le pareti di roccia che si prestava a scalare. Non si voltò, la schiena pigiata contro il dorso del cavallo. Per un attimo ebbe voglia di tornare indietro, amareggiato e indispettito. Non aveva capito niente: il Caimhal non era selvaggina da cacciare, i Meticci non erano il nemico così come non erano i padroni. Non aveva capito niente. Venasta non aveva capito niente, ma qualcosa l’aveva intuita più di lui.
Sopra il fianco roccioso si stagliavano le rocce di perion; la sua porta per tornare a casa. Condusse a briglia il cavallo, camminandogli accanto e incoraggiandolo a continuare. L’animale pareva sentire di allontanarsi dal pericolo, poiché lo seguiva fedele; a tratti era lui che aveva bisogno del suo aiuto per arrampicarsi. Continuò ansante, il sudore misto al sangue che colava su tutto il suo corpo. Il fiato raschiava contro le costole e i polmoni faticavano a prendere ossigeno, un dolore lancinante al fianco; la testa gli pulsava per il colpo subito. Ma continuò a scalare il pendio. Il cavallo si bloccò di colpo ed egli lo spronò, cercando di imbrigliare i suoi occhi in quelli terrorizzati dell’equino.
Non vide la creatura fin quando non fu sopra la sua testa; a quel punto fu tardi. L’essere saltò direttamente sul cavallo e affondò i suoi quattro arti affusolati nel manto palomino, dilaniandogli la cresta. Agur brandì il pugnale, ma la creatura saltò lontano dalla sua portata. L’animale, agonizzante, raschiò il terreno più volte con gli zoccli, prima di accasciarsi tra i massi.
Agur tese la mano alle sue spalle e, con un ruggito di rabbia, realizzò che il suo amato arco era rimasto al villaggio. Strinse l’elsa del pugnale e cercò la creatura tra le rocce. Un ruzzolio di pietre alla sua sinistra lo fece voltare. Da lì, con la luce riflessa negli occhi, pareva una donna: lunghi peli radi le pendevano dalla testa e occhi violacei brillavano; la sua figura era un’ombra stagliata contro l’astro, ma egli poté contarne gli otto arti. Rise, e una ventata di gelo secco la sua gola.
La creatura inarcò la schiena all’indietro fin quando gli arti superiori non toccarono il suolo; prese a zampettare rapida, a destra e sinistra, per confonderlo. La danza fastidiosa lo fece indietreggiare e col piede colpì l’addome della bestia. Colto da un’idea, voltò le spalle all’essere e tagliò la gola all’equino, lasciando che il suo dolore spirasse insieme a lui. Liberò il corpo dalle briglie e le ghermì proprio mentre la creatura balzava alle sue spalle. Prima che gli artigli potessero far presa sul suo dorso, egli mosse le cinghie a mo’ di frustra e percosse con violenza il corpo della creatura; quella cadde al suolo e scappò via. Conscio di non poter vincere sul terreno ripido, scattò verso la cima ma, prima che si potesse riparare dietro alle pietre di perion, il mostro che lo aveva preceduto scattò verso il suo petto, oltrepassando la sua guardia. Agur sentì gli artigli cercare la sua carne, ma gli unghioni acuminati trovarono il perion e parvero fondersi contro di esso. Egli lo scacciò via e quello, intimorito, tentò di svicolare lontano. Il principe gli tagliò la strada e, sfidandolo con lo sguardo, lo stuzzicò muovendo le briglia contro il suo fianco. La creatura scattò verso il lato opposto ed egli prontamente ruotò, lanciando la lama che ancora teneva nell’altra mano. Il ferro, anch’esso in perion, penetrò la pelle della creatura che avvizzì, fumante.
Agur si piegò, il fiato mozzo. Alzò lo sguardo e lo puntò sulla valle idilliaca incastrata nella roccia; poi, fiaccato dalla stanchezza e dalle ferite, lo spostò sulle rocce di perion. La pietra era opaca e non brillava più sotto i raggi dell’astro morente, ma le sue ombre lo proteggevano dal calore della luce. Il perion era la chiave.
Vinse la fatica e si alzò, nella mente un solo pensiero. Con movimenti precisi, recise la testa della creatura e l’avvolse nella sua camicia. Poi si aggiustò la maglia di perion addosso e si avviò verso le alte vigilanti. Lanciò uno sguardo laddove sapeva esserci il villaggio; colto da un pensiero egoistico, rimuginò sull’arco e la faretra donatigli dal padre alla sua prima battuta, e ringhiò frustrato. Infine, voltò le spalle a quella giungla di misteri e, lasciando che le Pietre tornassero a vigilare su Venasta, ritornò a casa.
 
   
 
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