Risuona nell’aria, potente, costante,
interminabile.
Risuona come un immenso grido senza inizio
né fine e cresce. Cresce di attimo in attimo. Sempre più forte, incontenibile.
Da dove viene questo suono? Si chiede. E per un attimo non capisce dove sia. Nè
dove si trovi. E perché mai, in fondo, fra tutti i luoghi, è proprio in quello
che ella ritorni ora, vacuamente, come anima errante alla ricerca della propria
origine.
Arriverà qualcuno. Ricorda. Ma non chi desidero. Si dispiace.
Così in un attimo ella si volta, il cuore
pesante, gonfio di un sentimento che ancora non comprende ma già teme, già
sente di dover fuggire. E scappa. Vesti a frusciare in quel suono roboante
coprendo i suoi passi affrettati, smaniosi, esasperati.
Di qui? Si chiede. No, di
là. Di là.
Forse così facendo, si dice, sarà in grado
di evitare quel momento. In grado di impedirsi di incontrare il vago accenno
del destino che, inevitabile, cala su di lei sempre più vicino, intollerabile.
Si ferma. Prende fiato.
E solo allora si rende conto che tutto
intorno a lei sta vorticando così fortemente da far male alla vista. E forse
girerebbe ancora più forte se lei medesima non girasse con lui ad un ritmo
pazzesco.
Ma non può fermarsi. Non può.
“Dove stai andando, Odayn?”
di nuovo la voce la rincorre. Imperturbabile. Calma. Come quella di un
genitore.
Non lo so. Si sorprende a pensare. Non te lo dico.
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Aprì gli occhi poco meno che una frazione
di secondo. Sabbia sulle labbra. Vento lontano. Forte. Fortissimo. E caldo.
Irrespirabile. Un attimo per percepire il ronzio della tempesta nelle orecchie
e ricadde da dove era venuta, nei propri sogni.
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E si chiede chi siano quelle figure in
lontananza. Le sente parlare vivacemente. Decise. Come branco di fiere attorno
alla preda. Ma basta un suo movimento per zittirle. Giusto la percezione che
lei li stia guardando a mutarli, come sorpresi.
E guardarla. Lei, che inerme non sa far
altro che scrutarli da lontano.
Il buio ondeggia attorno alla sua figura
sola, la vaga sensazione di essere per lo più nuda a farla indietreggiare,
timidamente, alla ricerca di un poco più di buio.
Come può essere accaduto? Si chiede.
Ricordava di aver avuto vesti e abiti bellissimi alla Torre del Tempo. Cose da
far arrossire mentre li indossava.
Ed ora è nuda.
“Vieni” le dice qualcuno “Vieni qui”
Lei invece arretra. Non le piace che le
diano ordini. Lei, che li ha eseguiti per tutta la vita. Non le piace ora che
la si apostrofi con quel tono. Ma sa che obbedirà. Lei obbedisce sempre.
Sempre.
“Vieni qui...qui”
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Questa volta il risveglio fu più rude,
brusco, quasi in risposta ad uno scossone che il suo corpo aveva percepito suo
malgrado. Gemette come un bambino, un dolore vago e generalizzato a sgusciarle
fuori dalle labbra in un sospiro ovattato, greve, rasposo.
Di nuovo percepì allora il vento. Ed il
caldo forte ed incombente attorno a lei, respiro rovente contro il viso che le
tolse il fiato costringendola a tossire suo malgrado, debolmente.
Scoprì inoltre di avere sete.
Terribilmente. E di essere senza forze. Nemmeno per alzare un braccio o
spostare il proprio corpo da quella strana posizione in cui - non riuscì
nemmeno a definirla - era messa.
Dormire ancora e di nuovo, per quanto
difficile, fu l’unica soluzione.
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Il freddo torna da lei ancora. Opprimente.
Una stretta sul corpo che pesa tanto, troppo per resisterle. Si divincola,
scalcia, eppure avverte chiaramente che non vi si può liberare in alcun modo.
Così aspetta, incerta nel capire se così facendo morirà o semplicemente rimarrà
immobile tutta la vita. In attesa.
Poi un movimento. Poi una presenza. Poi
quella vaga sensazione a tornare, presente. Vicina.
“Odayn” la
chiamano “Odayn...”
Ma forse no. Forse questa volta non è una
voce. E’ altro. Altro ancora...
Odayn...
E lei scuote il capo. Una volta. Due. Di
nuovo. La meccanicità di quel gesto a guidarla di convinzione, volontà,
sentimento finché, perché no, ella sente che potrebbe anche opporsi questa
volta. Solo questa. Poi basta, poi mai più.
E forse, già che c’è, aprire anche gli
occhi finalmente. E’ tanto che non lo fa. Lo sa. Lo sente.
“Odayn...” la
ammonisce però qualcuno “Odayn...”
Aprire gli occhi fu come destarsi senza in
realtà farlo. Tornare alla propria realtà ed al contempo rimanere avvinti a
quell’altra poco più indietro, poco oltre, ancora nascosta dietro il velo della
vista appannata, dei sensi intorpiditi.
Eppure, sospirò. Eppure con la stessa
incredibile certezza provata nel sogno, la Nihaar’ì
seppe di non trovarsi più nel sottile confine fra Oneiron
e realtà bensì nella più semplice, rozza e banale concretizzazione della vita.
Fu la fame a suggerirglielo. E la sete. E
quei piccoli rumori di fondo, simili in tutto e per tutto ad un costante
crepitio dell’aria che solo il mondo, quello vero, poteva avere.
Aspirò a disagio l’umidità che la
circondava, cogliendo solo allora una vaga fragranza di bruciato e dolcezza
assieme. Espirò. Cannella? Si chiede. Cannella, si. Riconobbe.
Strizzò allora gli occhi, invano, solo per
accorgersi finalmente di avere il Velo calato sulle palpebre e di essere
completamente sola in quella che presto si mostrò ai suoi sensi come una fredda
notte passata - ipotizzò- all’aperto.
Esitò. Incerta.
Dove si trovava l’ultima...la sua mente incespicò...volta?
Seppe ancor prima di provarci, che avrebbe
sbagliato. I suoi ricordi erano confusi, distorti e lontani come se fossero
appartenuti ad altri e non a lei. La sua memoria vagava in sapori che ella era
certa di non aver assaggiato. Parole che non avrebbe potuto affermare di aver
detto. Sensazioni che di certo non erano state affar
suo.
Eppure doveva pur esserci stato qualcosa
prima. Molto prima. Qualcosa che la sua mente avrebbe potuto collocare senza
alcun dubbio in una sfera temporale tale da ricordarle da quando, in effetti,
ella avesse completamente smesso di ricordare...
Oh, si. Qualcosa
c’è.
Nella fitta di dolore che seguì, acuta
come la più vera e mordace delle stilettate, la Nihaar’ì
non potè fare altro che ripiegarsi su se stessa e
gemere lungamente, debolmente.
Asiya.
Annaspò, i cocci -ora ricordò- già
infranti del suo animo a scricchiolare nuovamente dentro di lei mentre ella
tentava suo malgrado di resistervi in un grido vuoto, esangue.
Dormi
Le ordinò nuovamente qualcosa da dentro. Sbattè gli occhi, stordita dal suo medesimo ansimare.
Dormi. Dormi.
Fu il nuovo, crudo, consiglio.
Ancora? Digrignò il suo corpo teso. Ancora
un secondo e si sarebbe spezzato, pensò. Gambe e breccia separate da un busto
duro e secco, arido come roccia al sole. Ma la mente parve suo malgrado
assentire. Si, dire, prima che ella avesse anche solo la possibilità di
replicare.
Se avesse potuto - e la sua mascella non
fosse stata serrata in una morsa d’acciaio - allora avrebbe probabilmente
sbadigliato a lungo, lungamente. E poi teso le orecchie a quei strani rumori
non proprio distanti da lei. Così vicini in realtà, che per un attimo ebbero
quasi la forma e consistenza di voci. Voci vere. Voci umane. Voci - inorridì-
sconosciute.
Poco prima di potersi spaventare o anche
solo formulare la necessità di provare una vera e propria sensazione di paura
la sua mente sprofondò nuovamente nel più greve dei sogni.
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Il vento la ghermisce, trascinandola
avanti. La sospinge come creatura senza forma e peso, avvolgendola in spirali
selvagge per poi risputarla fuori più oltre, in un nugolo di suoni e spifferi
senza fine. Lei indietreggia, sopraffatta, inutilmente cercando di resistervi e
tuttavia mancando di riuscirsi una, due, tre volte.
Alla quarta smette del tutto di provarci e
si accascia a terra, esangue, esausta. Tutto il corpo le duole di mille e più
aghi di sabbia conficcati nella pelle. Ogni membra accusa il frustare delle
correnti d’aria.
E di nuovo, sente la sete. Sente la fame.
Sente che tutto di lei in quell’attimo si sta esaurendo assieme al vento e al
turbinio feroce degli elementi.
Boccheggia. Poi si copre il viso. Poi
sente per davvero di non farcela più ed allora si chiede, in fondo, perché ha
deciso di andare proprio di qui, proprio qua, al di là di ogni sicurezza e
certezza. Al di là del buonsenso e di quella voce che lontana lontana eppure incredibilmente presente le urla senza fiato
“Somma Nihaar’ì”
il risveglio fu poco meno
che un balzo a vuoto da un mondo all’altro, il salto a sottrale
tutta l’aria che aveva in gola per sfibrare in lei in un grido roco e scarno,
terrorizzato.
Sbattè le palpebre, la furia del vento attorno a sé a riempirle immediatamente
gli occhi di sabbia e dolore. Barcollò scoprendosi allora in piedi, immobile,
nel bel mezzo di una tempesta di sabbia.
“Somma Nihaar’ì!”
E di nuovo quella voce nel vuoto a
perdersi fino a lei in quel marasma ocra e bianco, talmente denso da impedirle
quasi di scorgerlo. Annaspò.
Avrebbe dovuto rispondere? No. Si
rispose subito dopo. Nessuna voce a lei conosciuta sarebbe suonata così.
Tuttavia esitò, gli occhi che incerti tentavano di guardare al di là del velo
che ella scoprì esserle volato via chissà dove. La sua assenza la spaventò ed
allarmò al contempo, costringendola per istinto a coprirsi il viso con entrambe
le mani.
“Somma Nihaar’ì!”
Più vicino, il richiamo la raggiunse nei
pochi passi che ad esso seguirono tramutandosi infine in una figura curva,
china nel tentativo di resistere alle intemperie.
“Z-Zaphil?”
mugugnò incerta. Fece come un mezzo passo avanti. Poi si bloccò “Sei...tu?”.
In un turbinio di vento e sabbia, la
figura finalmente emerse in un tramestio di forme giovani e oblunghe, spalle
troppo strette, vesti assai diverse da quelle a lei note e no,
affatto, una fisionomia che nulla o niente aveva a che fare con alcuna delle
persone che ella poteva dire di conoscere o riconoscere a memoria.
Fu certa allora di gemere, spaesata, la
consapevolezza di non avere affatto memoria di dove e perché in quell’istante
si trovasse in quel luogo - che luogo, poi? - a precipitarla in uno stato
di panico e confusione assieme. Uno, due passi, si avvertì vacillare
all’indietro, affondare fino al polpaccio in sabbia fredda e pungente, irta
contro le gambe nude.
“Za...” il vento la soffocò. Tossì. Tentò
allora di avanzare ancora” Zaphil...”
Con un balzo il suo inseguitore le fu
improvvisamente addosso agguantandola in un’esplosione di sabbia e vento.
Questa volta fu certa di gridare, la vaga
sensazione di doversi liberare dalla presa a
farle perdere l’equilibrio e farla cadere -inseguitore al seguito- giù lungo il
fianco di una duna di sabbia. Rotolando, la sabbia le entrò in bocca, negli
occhi, nei vestiti, le graffiò la pelle e le strappò i capelli.
“Somma Nihaar’ì!
Vi prego!”
Vi prego?
Boccheggiò senza fiato, incapace di far
altro se non divincolarsi ancora, ma l’altro la trattenne “Vi prego” ripetè “N-non voglio farvi del male!”. Di certo convinta,
la Nihaar’ì decretò che gridare probabilmente non
fosse la cosa migliore da fare in quel momento così tentò in silenzio di
divincolarsi. Invano. A metà del primo tentativo, un violento colpo di tosse la
colpì rubandole istantaneamente qualunque velleità di resistenza. Quando ebbe
fine, ogni suo arto e possibilità di fuga erano sapientemente vincolate alla
formidabile presa del suo aguzzino. Il naso premuto contro un tessuto crudo e
ispido di sabbia, tossì nuovamente, più volte, invano.