Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Mary_la scrivistorie    04/08/2016    3 recensioni
Essere soggetto al mutismo non è una scelta e, oltre a rappresentare una grave mancanza di uno dei sensi più utilizzati dall’essere umano, può essere un grosso impiccio – soprattutto quando t’innamori.
Dopotutto, chiunque può amare – certo, in diversi modi. Lui soleva innamorarsi delle sfuggenti ragazze intraviste alla stazione.
Dal testo: «Spesso indugiavo sulle parole degli scritti ‒ così come facevo con le storie dei Viaggiatori ‒ tentando di imprimerle a mente e di riprodurle nell’eco del suono di una voce che non avevo mai udito in tutta la mia vita ‒ una voce inesistente.
Talvolta mi ritrovavo a farlo sperando che queste riflessioni si riversassero ‒ anche flebilmente ‒ fuori dalle mie labbra. Non accadeva mai.
Con il tempo, avevo smesso di sperarci e mi ero rassegnato al mio fato: era quella la mia vita ‒ la vita di un muto.
I medici avevano ben rimarcato il fatto che la malformazione congenita del mio lobo temporale sinistro ‒ che affliggeva meno del 3% della popolazione ma che aveva abilmente invaso me alla nascita ‒ fosse incurabile: non avrei mai parlato, a meno che non fosse accaduto un miracolo ultraterreno a rinsavirmi.»

[Questa storia partecipa al contest “Non vedo, non sento, non parlo” di rhys89.]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
I l  s e g r e t o   d e l l e   p a r o l e
 
 
*
 
 

 
Una mano d’alabastro in lontananza scintillava di candore mentre danzava svelta su una pergamena stropicciata: sembrava che la ragazza a cui appartenevano quegli arti instancabili stesse buttando giù rabbiosi fiumi di parole, come se fosse sull’orlo di una crisi di nervi e stesse sfogando tutta la sua collera sulla carta spiegazzata. La penna, stretta elegantemente fra il pollice e l’indice della sua mano sinistra ‒ era evidentemente mancina ‒, sfrecciava inferocita sulle righe, lambendole di sigilli d’inchiostro. Il foglio era poggiato su un quaderno disteso amorevolmente sulle sue ginocchia nodose. A dispetto della rudezza con cui la fanciulla inaspriva le sue parole, si notava anche a distanza che era un’amante dei libri e che si lasciava spesso cullare dal tepore delle parole stampate. Lo intuii dalla dolce arrendevolezza con cui s’abbandonava al fruscio della penna in movimento, dischiudendo le palpebre e inarcando soavemente le spalle come si è soliti fare per scorrere meglio le dita sui morbidi tasti di un pianoforte.
Similitudine interessante.
Mi spostai furtivamente dalla colonna per osservarla meglio: come avevo già potuto appurare in precedenza, era un’estranea. Riconobbi a distanza una folta corona di capelli scarmigliati e biondi che ondeggiavano sotto le gelide sferzate del vento. Da quella posizione riuscii anche a intravedere la sua schiena nivea ed elegante, probabilmente costellata di brividi per il freddo. Comprensibile: indossava un abito primaverile eburneo adornato da morbidi ricami in pizzo e stretto in vita da una sobria cinta argentata. Non mi sfuggì il suo buon gusto: al vestito di classe aveva abbinato delle scarpette bianche con il tacco che erano tutto fuorché grossolane o al contrario pretenziose. Quel colore era poco più chiaro della sua pelle lattea.
Ero curioso di poterla guardare in faccia.
Sebbene mi recassi alla sede dei treni ogni giorno ‒ aspettando la mia ex fidanzata che puntualmente non arrivava mai, nonostante le sue promesse ormai polverose per quanto erano vecchie ‒ non l’avevo mai vista lì. Di solito, i “Viaggiatori” che sostavano in quei binari erano tutti abitudinari: c’era il vecchio Bob, oste del posto, che talvolta mi passava in silenzio alcuni dei suoi rancidi panini all’aglio che accettavo mio malgrado; la giovane ventenne Liz ‒ per chi non la conoscesse Elizabeth Stanley ‒, fiduciosa missionaria che talvolta soggiornava a Londra in memoria dell’infanzia trascorsa in quella città fitta di nebbia e di tenebre; Mrs Rockefeller, una giornalista avida di scandali, che infastidiva chiunque le capitasse a tiro con le sue sfrontate chiacchiere e con le sue domande invasive; i gemelli Coulter, che erano gli stravaganti manager di una band in voga in città; e tanti, troppi altri... Li conoscevo tutti, dal primo all’ultimo: avevo assaporato le loro storie, intrise dell’umidità che regnava in stazione e del caffè macchiato di bar sparsi per tutta Europa, ed ero in grado di ripetere ciascuna di esse a memoria. Mi nutrivo di quelle informazioni del tutto irrilevanti perché non ne avevo altre su cui meditare: il mio vecchio precettore era andato in pensione un paio d’anni prima privandomi di quel poco di cultura che mi era stata concessa. Divoravo i libri che avevo a casa, stanco di un diniego morale che sembrava prolungarsi fino allo strenuo, rimanendo sveglio fino a tarda notte accompagnato dal dolce crepitio del fuoco nel camino e dalla soffusa luce d’oro dell’abat-jour. Quelli erano gli unici ‒ e irripetibili ‒ momenti idilliaci della mia giornata: disteso sul divano, con un pesante tomo in mano e l’indice a scorrere instancabilmente sulle pagine che sfogliavo man mano. Spesso indugiavo sulle parole degli scritti ‒ così come facevo con le storie dei Viaggiatori ‒ tentando di imprimerle a mente e di riprodurle nell’eco del suono di una voce che non avevo mai udito in tutta la mia vita ‒ una voce inesistente.
Talvolta mi ritrovavo a farlo sperando che queste riflessioni si riversassero ‒ anche flebilmente ‒ fuori dalle mie labbra. Non accadeva mai.
Con il tempo, avevo smesso di sperarci e mi ero rassegnato al mio fato: era quella la mia vita ‒ la vita di un muto.
I medici avevano ben rimarcato il fatto che la malformazione congenita del mio lobo temporale sinistro ‒ che affliggeva meno del 3% della popolazione [1] ma che aveva abilmente invaso me alla nascita ‒ fosse incurabile: non avrei mai parlato, a meno che non fosse accaduto un miracolo ultraterreno a rinsavirmi. Non che confidassi molto nella religione: mia madre era un’ostinata anglicana; quanto a me e ai miei fratelli, eravamo i suoi figli, che si rassegnavano alla fervida fede della matriarca e deliberavano un ateismo sfumato appena da un leggero coinvolgimento per quanto riguardava il misticismo spirituale. Avevamo perlopiù bisogno di credere in qualcosa; in special modo io.
Era tutta colpa della mia lesione cerebrale se la mia intera vita verteva su una serie interminabile di problemi: non avevo alcun amico, la mia fidanzata era misteriosamente scomparsa con la scusa di dover partecipare a un camping estivo ‒ dal quale non era mai tornata da tre anni a quella parte ‒, mio padre era un ex carcerato in libertà vigilata che aveva abbandonato tutti noi, uno dei miei fratelli aveva contratto un cancro alla tiroide che era ora in metastasi. In sintesi: vivevo nella merda più schifosa.
Per mia madre, la situazione era ancor più invivibile: una donna sola con la bellezza di sei figli maschi tra cui uno ex tossicodipendente in terapia e due malati. In intimità, Mark ‒ il fratello ammalato di tumore ‒ mi diceva che le restavano tre figli integri più uno e mezzo, secondo i suoi calcoli, scherzandoci su.
Secondo mia madre quell’ironia era un tremendo sacrilegio a Dio che pertanto non avrebbe mai provveduto a sistemare le cose. Io credevo che, se il Signore avesse voluto, non avrebbe permesso che accadessero.
Non potevo esporre le mie tesi ‒ disarmato della voce, di una qualsiasi maledetta voce ‒ perciò mi rintanavo nella mia stanza o girovagavo da solo per la stazione, sognando di viaggiare, di confessare le parole che avevo trattenuto in tutti quegli anni, di concedermi lusso e vizi a volontà come un qualsiasi giovane uomo a cavallo fra i venti e i trent’anni. Ero un’anima alla tiepida ricerca della vita che agognavo e che mi era stata negata sin dall’origine. Sospirai, esausto ‒ esausto di non riuscire a dar sfogo alla voce della mia anima ‒, e spostai il peso del corpo sul piede destro. Valutai nel frattempo se avanzare o meno verso la fanciulla sconosciuta per carpire quanti più dettagli possibili anche su di lei. Se ne sarebbe accorta, che l’unica novità che avesse potuto evocarmi era la novella che la sua anima aveva da raccontare? Avrebbe realizzato che quel tizio strambo e malconcio che le si avvicinava senza presentarsi non attendeva altro che una breve fusione intellettuale, anche solo di pochi istanti? Alla fine presi la mia decisione: con passo lento e goffo mi avvicinai alla sua postazione, fingendo di esitare sui cartelli e di studiare gli orari dei treni. In verità li sapevo tutti a memoria: il prossimo treno era quello delle undici e un quarto, destinazione Manchester. Sperai con tutto me stesso che non fosse il suo: mancavano solamente dieci minuti all’arrivo dell’espresso. Troppo pochi per conoscerla.
L’abbagliante luce a neon, che sovrastava la stazione percorrendo con un’ampia traiettoria rettilinea tutta la piattaforma, tremolò e si spense per una manciata di secondi. Eco di lamentele sopraggiunsero dalle banchine sulle quali si erano accomodati i Viaggiatori: era soprattutto Mrs Rockefeller a gracchiare di quanto fosse incompetente il sistema idroelettrico di Londra. Altri Viaggiatori cominciarono a ridacchiare o a sospirare: tra di essi, la missionaria Liz accese una sigaretta in fretta e furia e aspirò il fumo come se non anelasse altro da tutta la vita. Tanto giovane e candida, la ragazza: probabilmente era l’archetipo di ragazza che cercava conforto in un po’ di sana nicotina e che aveva i denti marci e giallognoli. Nauseato eppure al contempo incuriosito dalla mia ipotesi, proseguii la mia tacita ispezione.
Bob l’oste mi fissò con solidarietà, ignorando le mie assurde ‒ e probabilmente maniacali ‒ intenzioni riguardo la nuova ragazza del binario, e mi rivolse un fugace cenno alzando il mento e sorridendo solidale. Era un signore anziano dalla barba incolta e dai riccioli brizzolati, di corporatura massiccia e tarchiata. Non aveva mai indossato una fede da che lo avevo visto per la prima volta: ne dedussi che forse era solo più di me e aveva bisogno soltanto di un po’ di compagnia con cui condividere i suoi orribili pasti al sacco. Purtroppo si è scelto la compagnia sbagliata, pensai amaramente.
Non risposi volutamente al suo saluto: forse era un modo brutale per respingerlo ‒ lo riconoscevo ‒ ma sarebbe stato meglio per tutti. Avanzai verso la folla ‒ bramoso di estorcere altre storie ‒ tentando di distrarmi da quella sensazione infelice che mi attanagliava lo stomaco.
Quel giorno mancavano all’appello i gemelli Coulter, constatai con una certa trepidazione nella voce: avrei tanto voluto conoscere la ragione della loro assenza. Elargii alla mia mente di vagare sulle possibilità e di fantasticare sull’eventuale successo della band dei Words Count Something [2]... magari era il giorno del grande debutto al The Lexington [3]. Mi sarebbe tanto piaciuto vedere un concerto ‒ uno qualsiasi ‒ ma non l’avevo mai riportato negli scritti che destinavo a mia madre le poche volte che mi capitava di raccontarle dei miei desideri più reconditi: lo trovavo un vizio superfluo e poco consono alla situazione di mia madre. I soldi bastavano a malapena per sostentare tutti noi, figuriamoci per pagare il costo di un biglietto per andare a vedere i Beatles [4]. Mi sembrava di essere un bambino viziato a chiederle di esaudire il mio infantile capriccio ‒ e non era il caso.
I medici avevano previsto per Mark un margine massimo di un lustro prima che il cancro lo uccidesse ‒ e con lui lanima di mia madre. La nostra famiglia, stravolta dalla notizia ma incapace di metabolizzare a pieno il concetto, s’era ridotta a seguire Mark come un’ombra, nonostante il suo carattere pedante e abrasivo non ci permettesse un solido affiatamento. Ci toccava accettarlo senza discuterne, se volevamo goderci ogni istante buono al suo fianco.
Ero il fratello preferito di Mark: non perché fossi quello-che-non-poteva-parlare e provasse pietà per me bensì perché ero il suo inseparabile compagno di sventure ‒ il più vicino a lui. Con me si sforzava di essere il più cordiale possibile ed ero diventato con l’avanzare del tempo il suo unico confidente. Soltanto lui aveva intuito che quando uscivo di casa era per recarmi alla stazione e smarrirmi nel dolce oblio delle mie umane fantasie ‒ sogni già infranti prima ancora di affiorare.
Viaggiare era una prospettiva del tutto nuova per me: sebbene avessi più volte trascorso vacanze all’estero con i miei cari, in special modo durante l’infanzia, non avevo mai avuto il diritto di vagare in solitudine per gli sperduti luoghi del mondo. Eppure era tutto ciò che ambivo: esplorare i meandri di quella Terra che si offriva così languidamente alla mia indagine ‒ con o senza la voce che in quel momento mi mancava.
Le mie riflessioni vennero interrotte da uno sbuffo piuttosto vicino a me: quando mi voltai per identificare l’artefice di tale rumore, colsi la ragazza bionda in procinto di riporre nel baule la sua lettera ‒ che doveva esser diventata nel frattempo un saggio di venti pagine ‒ e il quaderno, per poi portarsi la mano d’avorio stretta a pugno sotto il mento, smarrendosi febbrilmente nelle eco dei ricordi. Quando mi sporsi per osservare il suo volto, per poco non inciampai su uno dei gradini che precedeva una delle panchine: era la gemella di Marilyn Monroe [4], provvista della stessa chioma vaporosa e pallida ‒ scompigliata dagli spifferi della brezza ‒ e dello stesso incarnato di porcellana. Tuttavia, non aveva un filo di trucco e i suoi lineamenti erano eterei e fatati come se provenisse da un altro universo e avesse tutt’altre storie da narrare. I suoi occhi ‒ mistici come ogni altra cosa in lei ‒ erano talmente chiari da risultare trasparenti: li stava volgendo al soffitto, soppesando le travi di ferro che sormontavano l’intera struttura, e infine li piantò sulla ferrovia davanti a lei.
Senza accorgermene, m’ero di nuovo smosso per contemplare i suoi occhi e recepire il messaggio che lanciavano.
Malinconia. Non appena lei udì il rumore dei miei passi ‒ quello che sostituiva il suono della mia voce rinnegata ‒ si voltò verso di me e mi rivolse un’occhiata guardinga, sempre offuscata da quell’angosciosa mestizia. Ero tuttavia più concentrato nell’adorazione delle sue iridi ultraterrene: sembravano elargire all’umanità scorci di meteore diurne e di stelle invisibili, sembravano emettere effluvi della sua aura lunare, sembravano invitarmi ad avventurarmi in quell’oltre magnifico che lei aveva già ampiamente assaporato.
Tristezza. Quella stessa profondità ‒ che pareva evocare il suggello di un antico giuramento stretto con la luna ‒ era però intrisa di avvilimento: barlumi di desolazione sembravano aleggiarle attorno, quasi come se il suo sconforto non avesse eguali e la sua sofferenza fosse destinata a protrarsi per un tempo infinito.
Avrei tanto voluto avere la capacità di consolarla: il mio istinto mi suggerì di appressarmi a lei e di tentare di sollevarle il morale come meglio potevo ‒ con le braccia scarne e tremanti, con i battiti del cuore furiosi e traditori, con le parole silenti e inconfessabili.
Stavo appunto seguendo i miei sciocchi impulsi quando mi bloccai a metà strada: no, non posso. Ravvicinarla l’avrebbe solamente condannata: avrei dovuto evitarla, come avevo fatto con Bob giusto qualche minuto prima, e mantenere viva la promessa che la sua vita potesse essere ricca di gioia ‒ la solita gioia che era stata invece negata a me. Almeno sarebbe valsa la pena di quel sacrificio.
La ragazza, che m’aveva fino a quel momento intorpidito i sensi con le segrete rivelazioni ultraterrene celate nel suo animo, spostò lo sguardo verso un invisibile orizzonte e tornò a smarrirsi nelle sue afflizioni.
Mi sforzai di rimanere immobile e di non correrle incontro ‒ gli stupidi istinti maschili dovevano essere frenati sospirando: desideravo con tutto me stesso cancellare l’anatema che mi era stato lanciato e che finiva con il portare alla dannazione anche chi mi stava vicino. Avrei voluto urlare tutte le mie parole contro quell’infernale maledizione.
Continuai a fissarla, stavolta con una punta di rammarico: la sua espressione velata non faceva che assillare il suo viso come uno spettro. Forza: sii felice.
Non ne volle sapere, ad ogni modo, di aggrapparsi ai moti di felicità a cui io avevo rinunciato e che le spiravano attorno: sempre con quelle dita affusolate atte a reggersi il mento, sospirò assorta e socchiuse le palpebre con veemenza, quasi come se non riuscisse neppure lei a tollerare tutto quel tetro umore.
Un’anima pia, tuttavia, s’accorse della demoralizzazione della fanciulla e scelse di mitigare la sua sofferenza. Sia lodato il Cielo. Realizzai con stupore che la donna che la stava affiancando era proprio Mrs Rockefeller, che quel giorno era avvolta da uno scialle a fantasia floreale e sotto da uno sciatto abito color palissandro dotato di un’ampia gonna a strascico. Mi rivolse un’occhiata eloquente ‒ vagamente complice ‒ per poi sedersi accanto alla ragazza con solerzia.
È la prima volta che la vedo qui, signorina. Come si chiama?
Sembrava che le parole pronunciate dalla voce concitata di Mrs Rockefeller riflettessero le eco dei miei pensieri che non avrebbero mai potuto riversarsi fuori dalle mie labbra. Lei, tuttavia, era capace di comunicare: mi sarei limitato ad affidarmi all’udito ‒ com’era sempre stata mia tediosa consuetudine.
La ragazza, dapprima imbarazzata, si scostò una ciocca di miele dietro l’orecchio e proferì evasivamente le risposte agli interrogativi della signora Rockefeller. Aveva l’adorabile abitudine di gesticolare con enfasi mentre discorreva placidamente, rendendo un semplice dialogo un immenso poema traboccante di sfaccettature fiabesche.
Ascoltai rapito tutto ciò che aveva da dire riguardo a se stessa, a partire dal nome e dalla sua provenienza sino alla ragione che l’aveva portata a Londra quel giorno. Ascoltai il suono del vento che le lambiva dolcemente la pelle scoperta; ascoltai le carezze di quella voce morbida e vellutata, tintinnante come campane argentate; ascoltai il calore che diffondevano le sue labbra ad ogni suo sospiro d’esitazione; ascoltai il suo tono accorato spezzato dalla brezza che era più forte di lei; ascoltai la favola dischiusa finalmente dalla sua anima introversa.
Era incantevole: nervosa, s’accingeva a compiere incessantemente piccoli e metodici movimenti per scaricare la tensione che aveva accumulato. La vena malinconica, nonostante il tono disteso delle sue orazioni, non scomparve mai dal suo volto: effusa dalla sue bocca insieme alle parole, si diramava per chilometri, oltre gli oceani, nascondendo al mondo i propri segreti. Quella tristezza, a dire il vero, stava angustiando perfino me e, da quel che potei osservare, perfino Mrs Rockefeller sembrava esserne scalfita.
Le labbra rosse della fanciulla fremettero quando inoltrò gli stessi quesiti alla propria interlocutrice.
Mrs Rockefeller finalmente parve rallegrarsi e ribattere con vivacità, concedendosi talvolta qualche breve risata e sorridendole raggiante. Mi fissò soltanto una volta, appena prima di concludere il suo discorso: il messaggio che parvero scagliare i suoi occhi sfavillanti fu quello di suggerirmi di restare. Ebbi il sospetto che quella vecchia e scaltra ficcanaso stesse architettando quel bizzarro piano per aiutare me. Sconcertato da tale rivelazione ma accattivato dal gioco che mi stava proponendo, mi sedetti su una sporgenza e dedicai i miei occhi e i miei sensi alla fanciulla ‒ mi persi in lei.
È molto bella, lo sa? La vedo però piuttosto abbattuta. Se posso saperlo, perché è così triste?
La signorina avvampò di colore al sentore di un tale complimento e le elargì un sorriso tanto serafico e luminoso che, se avessi potuto parlare, m’avrebbe fatto balbettare idiozie. Di nuovo, cominciò a raccontare: era una scrittrice, come ero già riuscito a intuire. Era una scrittrice che lavorava in una famosa casa editrice di Parigi, dalla quale era stata però licenziata: la motivazione era stata vaga e sospetta. Aveva infatti recentemente scoperto che era stata scartata dal personale perché danneggiava con il suo talento l’ascendenza di altri autori che avevano per genitori figure celebri e rilevanti dell’alta società. La scrittura era l’unica cosa che le rimaneva al mondo ma l’avevano privata anche di quella.
Detto ciò, sospirò frustrata e si portò la mano alla guancia per raccogliere la lacrima di cristallo che le aveva rigato il viso.
Mossi istintivamente la mano, quasi come per cercare il contatto con la sua pelle e con la stilla che le aveva appena inumidito lo zigomo, ma la signora Rockefeller fu più rapida di me: sebbene conoscesse la ragazza da un paio di minuti scarsi, la strinse con delicatezza in un abbraccio cercando di rassicurarla. Da sopra la sua spalla, mi scoccò uno sguardo truce come a dire: “Fatti avanti, coglione!”
Vecchia arpia, pensai distratto constatando che aveva tuttavia ragione. Non potevo certo starmene lì come un fesso a contemplare una giovane donna che neanche conoscevo. Agisci.
La ragazza si sollevò all’improvviso e si asciugò le palpebre con il dorso della mano. Era bella anche quand’era reduce di un pianto: nonostante avesse gli occhi arrossati e le labbra bagnate di lacrime, somigliava ancora a un angelo caduto.
Le va di parlare ancora con me?, chiese Mrs Rockefeller, sempre assurdamente connessa al mio cervello. Come diavolo faceva?  
La ragazza, per la seconda volta in quella giornata, s’illuminò in un sorriso splendente che parve ricondurre il sole sulla Terra: «Onestamente, non vedevo l’ora che me lo chiedesse.»
Il suono della sua voce inconfondibile incrinò ogni mia barriera morale e mi trascinò con sé negli angoli sperduti di Parigi, fra l’acre odore della carta appena stampata e il colore turchese delle acque della Senna. Intanto che ero assorto nel romanzo schiuso dalla sua aura, lei raccontò e raccontò, animata da un nuovo furore ‒ animata di vita.
Con gli occhi spalancati e offuscati dallo scenario che mi donava quella dolce e flautata melodia, non m’accorsi che la fanciulla aveva volto il suo sguardo verso di me. Di nuovo. Un singulto di meraviglia mi s’incastrò in gola.
In un istante, sorrise e sembrò sapere sapere che avevo tante parole ancora sigillate da scagliare, sapere che avevo un cuore ancora intatto da spezzare, sapere che ero lì per lei. Il suo sorriso era costellato da due incredibili fossette ed era lo spettacolo più sconvolgente che c’era al mondo.
Rimasi lì, immobile, immerso nei bagliori della realtà ‒ e non più dei sogni ‒ e incapace di esprimere la sensazione di trovarmi lì, preda di un sentimento che m’avrebbe a breve portato a confrontarmi con le disillusioni e con la perdita dell’innocenza ‒ con lesperienza di vita.
Boccheggiai in cerca d’aria e m’arresi soltanto quando realizzai che in quel momento somigliavo a un pesce lesso ‒ e non era proprio il caso. Mi ricomposi con dignità ‒ o almeno confidavo che fosse così ‒ e mi spolverai perfino la giacca. Che galantuomo! Credo che gli occhi mi stessero brillando d’emozione, a giudicare dal dolce calore che mi saliva alle guance e dai furiosi sussulti del mio cuore: ero ormai una preda dell’amore e, in quanto tale, un uomo ottimista a causa dei dolci presagi che la passione m’obbligava a vedere. Mi concessi allora un profondo sospiro di sollievo.
Era pure l’ora, che la speranza ritornasse, dopo tutti quegli anni d’abbandono e rassegnazione.
Tornerà più a Londra? La voce artefatta di Mrs Rockefeller parve nascondere a stento il delirio della mia anima febbricitante alla quale era, in qualche assurda maniera, collegata. Un angolo del mio cuore ‒ un minimo frammento superstite di quell’avventata corsa contro i dogmi del buonsenso ‒ si permise di provare gratitudine verso la signora che m’aveva nascostamente aiutato.
«Credo proprio di sì: ho ancora da scoprire il segreto delle parole e ritengo che qua troverò la risposta.»
Avrei tanto voluto urlarglielo a squarciagola, quale fosse il segreto delle parole. Stavo per accorrere al suo richiamo, cedendo agli ormoni, quando un suono non così distante distrusse ogni mio proposito.
Era troppo tardi. Il chiassoso frastuono di un espresso in arrivo catturò l’attenzione di lei e la spinse  correre, armata di baule e vita, verso le opportunità che il mondo aveva da offrirle.
Prima di arrivare alla porta scorrevole, la fanciulla ‒ che in tutto m’aveva guardato due volte e sorriso una ‒ si diresse verso la mia figura. Inebetito dal suo passo rapido e leggiadro, rimasi a fissarla quando si sporse e tastò la mia guancia: il contatto mi fece bruciare la pelle più del dovuto mentre m’illanguidivo ad assaporare la consistenza della sua. Mi contemplò con gentilezza mentre le sue dita perlustravano leggere i miei pori: m’abbandonai, disorientato da quella magia paradisiaca, alla sua carezza.
Come tutto in lei, perfino i suoi polpastrelli erano grazia incarnata: soavi, fragili, sfuggenti.
E lei lo fece sul serio: mi sfuggì. Sottrasse la mano troppo presto e il mio ardore si affievolì in breve tempo. Un ultimo sguardo offuscato, e scappò via.
Rimasi a venerare i suoi capelli biondi ondeggiare lievi dietro alla sua nuca nel momento in cui entrò in treno e svanì fra gli scompartimenti con andatura veloce, alla ricerca di un posto per quel viaggio che doveva ancora iniziare. Avrei voluto seguirla e partire con lei, perdermi nei suoi stessi sogni e leggere ogni suo scritto ‒ ogni traccia di lei. Da quel momento in avanti avrei atteso un’altra persona in stazione: non la mia vecchia fidanzata, bensì lei. Lei, lei, solo lei.
Rimasi a guardarla intanto che la signora Rockefeller mi passava accanto e bofonchiava qualcosa,  spacciandosi per irritata per aver fatto sbocciare un nuovo amore ma in realtà felice di aver compiuto una buona azione una volta tanto.
Rimasi a osservare il treno che partiva in fretta e furia, con in mano un opuscolo pubblicitario che non m’ero avveduto di stringere e nel cuore le rimbombanti eco di un’arcaica lettera.
Il segreto delle parole esigeva impazientemente d’essere rivelato.
 
Il segreto delle parole è che esse esistono anche quando non possono essere pronunciate e si nascondono nel cuore,
in attesa di trovare uno scampo alla loro prigionia.

Il segreto delle parole è che provengono dalla sede più criptica dellanima, pompate dal cuore e trasmesse ai pori di tutto il corpo.
Il segreto delle parole è crederci: il miracolo avverrà da sé.
Il segreto delle parole è che sono sempre immortali.



FINE

*

 
 
 
Note dautrice:
Non voglio dilungarmi nelle stesse solite storie.
Una breve parentesi: spero di essere riuscita a rendere decentemente il personaggio che il contest prevedeva: fra cecità, sordità e mutismo ho scelto quest’ultimo.
M’ispirava.
Come molte altre mie Originali, il Romanticismo è la chiave del mio racconto: perfino questo protagonista ‒ di cui il nome scoprirete quando ne riscriverò sopra, giusto per intrigarvi un poco ‒ è trascinato dall’Amore.
Il resto verrà da sé.
Spero che qualcuno apprezzi i miei sforzi e si fermi a recensire!
Alla prossima!
 
[1] La percentuale è del tutto inventata: mi sono basata sulle informazioni che fornisce Wikipedia a proposito della voce “Mutismo”.
[2] Words Count Something: band del tutto inventata. Ho trovato ironico inserire un collegamento con le parole;
[3] The Lexington: questo locale esiste davvero, ed è dedito alle esibizioni di una gran varietà di band.
[4] Il contesto è storico perciò mi sono avveduta di infilarci una band che c’incastrasse con quegli anni e forse volevo celebrare i Beatles, solo un pochino!

 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Mary_la scrivistorie