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Autore: arsea    09/08/2016    3 recensioni
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo: "Cosa vuoi fare?" domandò spaventato "Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace" "Cosa stai dicendo?" gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua "Fidati di me" disse "Ti troverò" lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Emma Frost, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NA: Questa fanfic è un gigantesco esperimento. Credo che dovrò ringraziare le mitiche Dreamsie (se non avete letto le sue storie andate a farlo) e Mayth (come sopra, peccatori!) per avermi fatto scoprire un nuovo stile, con le loro storie ma anche suggerendomene un sacco di altre. Non so quanto io sia riuscita ad adottarlo, ma questo è il meglio che ho partorito! XD
Infine devo ringraziare la mia meravigliosa Fra (in arte Winchester_D_Fra), conosciuta in "Rimettere insieme i pezzi" e che anche qui per me è stata fondamentale con il suo lavoro di beta-reader (ti amo tesora <3 ).
Fatti i ringraziamenti di rito vi auguro buona lettura e spero che vogliate lasciarmi le vostre impressioni e critiche, che sono sempre ben accette!

 
Capitolo Primo
 
<< Non può andare da lui >> chiarì il medico senza mezzi termini, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fermo, ma lui era altrettanto convinto che sarebbe entrato in quella maledettissima stanza, anche a costo di farsi strada trai corpi.
Lasciò che i suoi occhi dicessero quel che la sua bocca trattenne, tutto il suo corpo parlò, travolgendo il povero dottore con una forza psicologica che non poteva sconfiggere in alcun modo << È debole. Instabile. Ha bisogno di riposo >> protestò ancora, più debolmente, come se volesse farlo ragionare, ma questa volta non si diede la pena nemmeno di ascoltarlo, limitandosi a superarlo senza dire nulla.
Era seduto contro la testata del letto, il corpo pallido collegato a macchine che non voleva comprendere e lo sguardo fisso sulla parete di fronte.
Le lacrime gli bagnavano il volto in una scia continua, gocciolando dal mento senza che si desse la pena di asciugarle, e per quanto miserevole e straziante fosse quello spettacolo non riuscì a non amare il modo in cui i suoi occhi brillassero come pietre preziose << Charles >> ansimò, macinando i pochi passi che li dividevano in una corsa per riuscire infine a stringerlo a sé.
Lo baciò perché niente di lui riuscì a trattenersi dal farlo, delicato, assetato, sentiva la debolezza nelle sue mani e nella sua bocca ma non riuscì comunque ad allontanarsi da lui << Hanno detto… hanno detto... >> singhiozzò quando gli permise di riprendere fiato, quel suono sofferente lo pugnalò al petto come una lama vera e propria, così lo zittì, un altro bacio, una supplica << Lo so, lo so… Andrà tutto bene. Ti giuro che andrà tutto bene, Charles >> << Cosa farò adesso? Erik… cosa sono adesso? >> gemette, con quelle lacrime salate e amare insieme che gli solcavano il viso.
Imprecò, lo baciò ancora e imprecò di nuovo, prendendo il suo volto tra le mani << Posso aggiustare tutto >> gli disse, guardando negli occhi quella speranza dolorosa << Come? >> estrasse la lama dalla fondina che teneva dietro la schiena, posandogliela in grembo.
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo << Cosa vuoi fare? >> domandò spaventato << Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace >> << Cosa stai dicendo? >> gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua << Fidati di me >> disse << Ti troverò >> lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore.
Charles riuscì a malapena ad emettere un lamento contro le sue labbra, si dibatté un poco con il residuo di forza che gli era rimasta in quel corpo spezzato, ma alla fine esalò e giacque immobile, gli occhi spalancati per il terrore, le dita ancora strette alla sua camicia.
Si liberò con gentilezza mentre tutti gli allarmi cominciavano a suonare, sentì gli scalpiccii dei passi affrettati di infermieri e dottori che correvano nella loro direzione, baciò quelle dita mangiucchiate << Ti amo >> sussurrò chiudendo le sue palpebre sottili << Cosa hai fatto?! >> urlò una voce alle sue spalle, ma prima che potessero fare qualunque cosa, con un gesto Erik estrasse il pugnale dal corpo dell'amato e con il seguente si squarciò la gola.
 
*
Si svegliò senza sapere nemmeno lui cosa farne del batticuore che gli scoppiava in mezzo al petto.
Non era la prima volta. Non era nemmeno la decima o la centesima.
Faceva quel sogno da che ricordasse.
A volte c'erano dei lunghi intervalli, riusciva quasi a dimenticarsene, ma sembrava che si prendesse gioco di lui, nascondendosi chissà dove per tornare a tormentarlo quando meno se lo aspettava.
Al sogno non importava proprio nulla che lui avesse tre anni e che la sensazione di morire può essere uno dei peggiori traumi infantili. Non gli importava che una gola squarciata e la certezza matematica di essere un assassino potesse distruggerlo.
Doveva solo NON. DIMENTICARE.
Erik aveva saputo sin da bambino che aspetto avrebbe avuto una volta adulto.
Non si era mai preoccupato della sua statura, né dei muscoli che non collaboravano quando era un adolescente, non si era curato proprio di niente, perché il sogno gli aveva già trasmesso tutte le certezze di cui aveva bisogno.
Lui era Erik.
Erik Lenhsherr in questa vita, ma il cognome non importava, era solo il sigillo di un involucro, niente più.
Lui era Erik. Solo questo.
E di Erik sapeva più o meno tutto.
Non ogni cosa e non subito, ma con il tempo aveva scoperto abbastanza per far combaciare Erik con se stesso.
Ad esempio, aveva saputo sin dalle elementari che sarebbe stato un ingegnere.
E sapeva anche che non gli sarebbe piaciuto il vino rosso, anche se ovviamente sua madre non gli aveva mai permesso di assaggiarlo. Non era più intelligente degli altri bambini, ma ricordava, ricordava molto, e persino il peggiore degli stupidi può diventare eccellente quando frequenta la scuola per la seconda volta.
O la terza. O la decima.
Ma soprattutto, quel che sapeva sopra ogni altra cosa al mondo, quel che era impresso dentro di lui a fuoco e sangue, che lo teneva insonne e che da piccolo lo aveva fatto piangere senza alcun motivo, era che era disperatamente innamorato di Charles.
Charles.
Occhiazzurri-pellechiara-lentiggini-labbrarosse.
Questo sapeva di lui, nient'altro.
A volte aveva dei flash, una risata o una frase, l'immagine di un raggio di sole attraverso una ciocca castana o la consistenza di una mano nella propria, me per il resto… c'era il buio.
Si sollevò a sedere dal suo letto nella periferia di Brooklyn, si passò una mano sul volto e diede in un grosso respiro profondo, uno di quelli che gli servivano per farsi forza, costringendosi a mettersi in piedi.
Accolse la fitta al petto che seguiva ogni sogno, il ricordo insistente del fatto che Charles non era al suo fianco, la paura di non trovarlo, il terrore delirante di averlo ucciso e perso per sempre.
Era successo in passato. Quella paura nasceva da quei ricordi del resto.
Morire senza Charles era peggio che morire per mano propria nella speranza di rincontrarlo.
Andò in bagno e si infilò sotto la doccia per scacciare il sudore ghiacciato dalla propria pelle, attivando con un cenno il notiziario del mattino per attenuare un poco il silenzio dell'appartamento, e cercò di ricordarsi che aveva solo ventisette anni, che aveva ancora una vita per trovarlo, e anche altrettanto per riempirsi di lui.
Ma come?
Quel quesito lo tormentava come una lama infilata nel fianco, era lui stesso a rigirarsela nella carne, ripetendo a se stesso che non aveva diritto di smettere la sua ricerca o arrendersi, glielo aveva promesso, e lo doveva anche a se stesso.
La sua vita scorreva su rotaie di monotona tranquillità.
Si preparò un po' di uova e pancetta e bevve del succo direttamente dal cartone mentre finiva di legarsi la cravatta, quindi si fermò al chiosco sotto casa per prendersi un caffè, nonostante la colazione, prese il giornale e si mosse verso la metro, scandagliando le notizie con occhio attento.
Ricordava di lui delle dita macchiate d'inchiostro.
Poteva essere stato uno scriba, un contabile, un insegnante, uno stampatore, lo scrivano di qualche soldato o generale… le combinazioni erano infinite.
Certo chi citava Aristotele e Platone doveva essere una persona colta, quindi aveva fatto cominciare la sua ricerca dagli appartenenti ai circoli letterari più illustri, aveva frequentato convegni e seminari, aveva bussato ad ogni università degna di nota del Paese per passare in rassegna annuari e archivi, ma non aveva trovato niente.
Non tornavano mai lontani da dove erano morti.
Sarebbe stato fantastico se fosse stato in qualche isola sperduta nel nulla, ma no, Erik era nato nella dannatissima New York, otto milioni e quattrocentosei mila abitanti, metà bianchi e maschi, di cui gran parte con gli occhi azzurri e i capelli castani.
Aveva cercato trai registri d'anagrafe del quarto anno successivo alla sua nascita, ma c’erano migliaia di Charles.
Aveva cercato trai soldati, trai medici, gli avvocati, i maledetti bibliotecari persino!
Se c’era un elenco di persone in quella città, lui l’aveva consultato.
Negli anni aveva fatto ricerche che solo una folle ossessione può giustificare, l'avvento della tecnologia lo aveva facilitato ma aveva anche centuplicato la confusione, giacché spesso inseguire un’ombra nei vari social network lo portava solo ad una delusione cocente e divorante.
Ovviamente poteva essersi trasferito.
C’era quell’opportunità, ma non voleva prenderla in considerazione.
Lui era nato da immigranti tedeschi del resto, suo nonno era scampato alla seconda guerra mondiale, e non aveva la più pallida idea di come Erik-superstite-del-Vietnam fosse finito dentro il ventre di un’ebrea di Brooklyn, quindi come avrebbe potuto rintracciare Charles se tutto ciò che sapeva di lui erano le sue caratteristiche fisiche?
Scese alla sua fermata e gettò il bicchiere vuoto del caffè nel cestino in cui lo buttava tutte le mattine, finì di leggere le notizie di cronaca davanti al grande edificio di cristallo che ospitava il suo ufficio ed entrò per lasciare il giornale a Fred, il portiere, dopo averlo salutato.
Ovviamente c’era anche l’extra.
Aveva studiato molto delle teorie sulla reincarnazione naturalmente, aveva comprato riviste specializzate e incontrato persino un ipnotista, ma a livello conscio non riusciva a ricordare molto delle sue vite passate, tranne il fatto che le aveva effettivamente vissute e poche altre esperienze che si erano come fossilizzate dentro di lui.
La sfiducia nel prossimo, ad esempio. Non ricordava nemmeno un singolo episodio della sua vita che potesse giustificarla, eppure era radicata così in profondità dentro di lui che tutto ciò che lo circondava poteva semplicemente bruciare lasciandolo del tutto indifferente.
Se ricordava queste futilità dunque avrebbe dovuto ricordare anche qualcosa sul controllo che sapeva esercitare sui metalli e sul magnetismo, invece non era così, ergo erano una novità della sua vita attuale.
Che anche per Charles fosse lo stesso? Non ne aveva la più pallida idea.
Ma se era intelligente almeno la metà di quanto credeva che fosse, avrebbe nascosto qualsiasi capacità come il peccato << Buongiorno, signor Lehnsherr >> ricambiò il saluto della segretaria dello studio e proseguì verso il suo ufficio.
Progettava acquedotti e dighe, o almeno erano i suoi incarichi più frequenti, e questo lavoro giustificava gli anni di studio per due giganteschi motivi: prima di tutto lavorava da solo, lontano da chiunque altro, e secondariamente gli concedeva abbastanza tempo libero per occuparsi della sua ricerca.
Diede in un respiro profondo quando sedette sulla sua poltrona ergonomica, il secondo quella mattina, e si massaggio gli occhi con aria stanca mentre la segretaria bussava sulla porta di vetri per attirare la sua attenzione << Volevo solo ricordarle dell’incontro per la consulenza a mezzogiorno, signor Lehnsherr >> << Naturalmente, Margaret. Grazie >> le persone dicevano di lui che era cortese ed efficiente.
Non era proprio sicuro che “efficiente” fosse un aggettivo adatto ad una persona, le macchine sono efficienti, ma finché creava quest'aura di reverenziale timore intorno a lui non aveva di che lamentarsi visto che rendeva minimo il suo bisogno di interagire con gli altri.
Aprì il suo laptop, diede un'occhiata all'orologio anche se era appena entrato, e si preparò ad otto ore di efficiente e cortese lavoro d'ufficio.

 
*
Stava covando un'influenza.
Era abbastanza sicuro di questo, se la sentiva ronzare da qualche parte sulla nuca, lì dove partì il brivido di freddo che lo scosse non appena mise piede fuori dall'aereo e che lo costrinse a stringersi di più nella sciarpa di lana rossa.
Lui e l'influenza avevano stretto un patto a metà del semestre se non ricordava male, quando praticamente tutto il dipartimento si era ritrovato a letto, promettendole anima e corpo che se gli avesse permesso di studiare per gli esami del dottorato si sarebbe potuta divorare anche tutte le sue vacanze.
Sembrava averlo preso in parola.
Dio, come faceva ad avere pensieri del genere?
Si chiuse il cappotto e afferrò il piccolo trolley in cui aveva stipato più o meno tutta la sua stanza del dormitorio, cercando di non inciampare nei propri piedi nello scendere i minuscoli scalini resi scivolosi dalla pioggia, e trovò un nuovo motivo per maledire le scarpe di cuoio.
Adorava i mocassini con le suole di gomma, personalmente li reputava il più grande passo nell'evoluzione umana dopo la carta igienica, ma non la pensava alla stessa maniera sua madre, perciò, come per tutto nella sua vita del resto, aveva stretto un patto anche con loro, portandoli con sé come una specie di talismano con la ripromessa di indossarli non appena Sharon Xavier non fosse stata nelle vicinanze.
Il compromesso è la via del successo, giusto?
La fila degli arrivi era oscenamente lunga, un mastodontico girone infernale rigurgitante pendolari annoiati e turisti che fotografavano anche le mura di cemento, e trovò un altro motivo per odiare la donna che l'aveva messo al mondo.
La sua voce calda e suadente, incredibilmente irritante a suo parere, continuava a rimbombargli nella testa, ricordandogli i motivi per cui sarebbe stato molto meglio utilizzare il jet di famiglia.
Il jet.
Quella donna era pazza. Pazza.
Avrebbe potuto saltare la fila. Ogni sua più piccola e insignificante cellula lo supplicava di farlo, di farsi spazio in quella folla informe e claustrofobica come Mosè tra le acque, e invece rimase pazientemente al suo posto, conquistando un quarto di passo alla volta, ripetendosi come una litania gli inviti di Socrate alla sopportazione.
Stava purificando la sua anima. Migliorando la sua resistenza. Fortificando il suo… << Charles! >> la voce di Raven lo fece saltare sull'attenti quasi fosse quella di una SS in un campo di sterminio, quasi sentì distintamente il suo cuore tamponare il suo pomo d'Adamo, ma non riuscì comunque a trattenere un sorriso quando le braccia di sua sorella lo circondarono con trasporto ed entusiasmo. Che poi erano le due cose che fondamentalmente componevano Raven.
Gli era mancata da impazzire.
La strinse ignorando completamente chiunque altro li circondasse, ignorò gli spintoni dei turisti, le occhiatacce degli impiegati per l'ostruzione della fila, riempiendosi solo di lei, del suo calore e del profumo di shampoo e sole << Si può sapere come fai a saltare su così tutte le volte? >> fece allontanandolo, ma solo per illuminarlo del suo sorriso più pieno, un lampo bianco che lottava coi voluminosi riccioli biondi e gli splendenti occhi azzurri per la supremazia del volto << Ero distratto >> << Come sempre! >> afferrò con facilità il trolley, lasciando a lui solo la borsa del pc e il cappotto che nel frattempo si era tolto per non soccombere al caldo soffocante dell'aeroporto, quindi afferrò la mano di lui rimasta libera e lo trascinò con fermezza verso l'uscita << Aspetta, Raven... >> cercò di protestare, ma lei era inamovibile, un treno inarrestabile che travolgeva con il suo entusiasmo adamantino tutto ciò che incontrava, finché non raggiunse una seconda figura altrettanto incontrastabile, dritta e rigida come un fuso.
Sharon Xavier vestiva sempre in modo impeccabile, in vita sua Charles non le aveva mai visto nemmeno un singolo capello fuori posto, non una sbavatura di trucco, non un'unghia ammaccata, e più di una volta si era chiesto se non si svegliasse già così, perfetta, appena uscita dalla scatola, coi capelli biondi acconciati all'ultima moda, il tubino blu scuro che sottolineava la sua figura perfetta, i tacchi lucidati a nuovo e la giacca appoggiata elegantemente sulle spalle.
Forse non dormiva affatto.
Non se ne sarebbe stupito << Ben arrivato, caro >> disse, contenuta come sempre mentre si avvicinava per i saluti di rito, un bacio all'aria vicino alla sua guancia, un'occhiata a labbra strette al suo colletto senza cravatta e alle gote arrossate dall'arrancare dietro a Raven << Ciao, mamma. E salve anche a te, Iron >> il suo assistente/guardia del corpo/ombra era una copia esatta di lei, sempre se Sharon Xavier fosse stata afroamericana, calva e alta un metro e novanta, anche il suo completo era quasi dell'esatta tonalità del vestito di lei, e possedeva la stessa espressività ed emotività del suo nome << Mamma ha un appuntamento tra mezz'ora, Charles. Per questo siamo venute a prenderti >> disse Raven prima che lui potesse chiederlo, l'eterna mediatrice di Casa Xavier, e visto quanto gli era mancata decise di esserle grato e basta << Certo, grazie. Possiamo andare >> Iron si appropriò del trolley con l'impassibilità con cui faceva tutto, sollevandolo invece di trascinarlo, così Raven si sentì libera di circondargli il braccio con i suoi continuando a sorridere e guardarlo, senza parlare, felice di vederlo quanto lui lo era di vedere lei.
A volte era certo che l'espansività di sua sorella fosse una diretta conseguenza del gelo che permeava il resto della loro famiglia, una giusta compensazione che in tutti quegli anni era stata una vera e propria manna dal cielo << Come è stato il viaggio? >> Sharon camminava come se l'aeroporto le appartenesse.
Non degnò di uno sguardo i doganieri, fece lo stesso per tutto il resto dopotutto, l'intero edificio doveva essere grato di ospitarla, compreso il pavimento su cui ticchettavano i suoi tacchi, e anche i poveri diavoli in attesa agli arrivi dovevano esserle grati.
L'aria doveva esserle grata << Tranquillo. Ho dormito un po' >> raggiunsero l'esterno, un altro brivido per il freddo improvviso, e seguì sua madre fino alla berlina nera che attendeva ostentatamente in doppia fila, quindi entrò nell'abitacolo riscaldato e trattenne un sospiro trai denti.
Sua madre sedette davanti a lui, affiancata da Iron, mentre Raven ovviamente non lasciava il suo fianco << Per questa sera ho preferito lasciarti riposare, tesoro. Pensavo di festeggiare il tuo ritorno domani sera, ho prenotato all'Hilton >> << È perfetto >> la sua lingua si era già impostata sullo Sharonese.
Assentire, annuire, sorridere cortese << Tua sorella ha pensato che sarebbe stato più adatto restare in città, quindi vi accompagnerò al loft. Io purtroppo, come già anticipato, devo assentarmi questo pomeriggio. Spero che potremo vederci a cena >> “tua sorella”. Raven era sempre sua sorella, mai “mia figlia”.
Sentì la rabbia stiracchiarsi come un gatto nel suo stomaco, quella era l'unica persona sulla faccia della Terra che riuscisse a smuovere quella pigra creatura acciambellata nel suo corpo, ma si limitò ad un cenno del capo, senza dire niente, blandendo la sua ira con qualche respiro profondo.
Il silenzio rimase compatto per tutto il tragitto, perciò arrivare al palazzo di dieci piani che ospitava l'appartamento di Raven fu una vera e propria benedizione.
Salutò sua madre con il trasporto usato in aeroporto, attese che si allontanasse con la macchina e rilasciò tutta l'aria trattenuta nei suoi polmoni << Ehi... >> fece Raven preoccupata, ma si affrettò a tranquillizzarla con un sorriso << Mancanza di abitudine >> si giustificò << Dopo tre anni è difficile tornare a sopportarla >> lei assentì con un sospiro << Ti capisco fin troppo bene. Per mia fortuna non sono l'erede di famiglia, quindi non sono dovuta scappare nella dannata Oxford per sfuggirle >> aggiunse scimmiottando il suo accento << Oh, ti prego, Raven… sono troppo stanco per questa discussione >> lei alzò gli occhi al cielo, accettò la supplica e prese le chiavi del portone.
Aprì e fece strada fino all'ascensore, premette per l'attico e infine lo accolse nell'immenso appartamento/studio che era il loro rifugio << Preferisci prima mangiare o la doccia? >> domandò pratica, lasciando cadere le chiavi in una ciotola d'ebano vicino alla porta, ma Charles rispose crollando semplicemente a peso morto sull'enorme divano marrone del salotto, facendola scoppiare a ridere << Stasera faccio venire i ragazzi o fingo che non sei ancora arrivato? >> chiese, togliendosi la giacca prima di allungarsi a togliere la sciarpa a lui, seppur trai mugugni di protesta, quindi si accoccolò al suo fianco, metà sdraiata sul suo petto e metà allungata sul tappeto di lana del Perù che aveva regalato loro un'amica << Posso davvero fingere di essere ancora in Inghilterra? >> volle sapere lui, chiedendosi se l'influenza non si sarebbe arrabbiata troppo se avesse deciso di prendere un'aspirina << Solo se mangiamo messicano per cena >> << Possiamo mangiare anche insetti fritti per quanto mi riguarda. Sono il suo schiavo assoluto, mia signora e padrona >> lei ridacchiò ancora, gli diede una pacca sullo sterno e si allungò per un bacio sulla guancia << Bentornato, Charles >> mormorò.
Casa finalmente.
*
Sulla sua agenda vi era scritto “consulenza”, quindi si era aspettato l’ennesimo imprenditore senza la benché minima idea di cosa fosse un ingegnere, la maggior parte dei facoltosi clienti del suo ufficio erano così, che poi era anche il motivo principale per cui un altro settore della compagnia si occupava della loro gestione dall’inizio dell’anno, invece la donna che si era seduta sulla sedia davanti alla sua scrivania dava l’impressione di sapere tutto. Quel che non sapeva era sopperito egregiamente dall’energumeno al suo fianco, una sorta di guardia del corpo intelligente, sempre che una cosa del genere fosse possibile, perciò si era ritrovato più che a rispondere a qualche domanda a far fronte ad un vero e proprio dibattito, con scontro di opinioni più o meno su ogni cosa e un dispendio di energie non indifferente.
Quella donna sembrava fatta d’acciaio. No, se lo fosse stata l’avrebbe piegata con il suo potere.
Più cemento, ecco. O marmo.
Aveva una proprietà a Westchester, lui lo avrebbe chiamato castello ma lei insisteva con “villa”, e sembrava del tutto intenzionata a trasformarlo in qualcosa di simile ad un laboratorio di ricerca di qualche tipo.
Ovviamente no, non poteva chiedere di che tipo di ricerche si trattasse.
No, non le importava la scelta dei materiali, per questo lo pagava.
No, la stazione radio non poteva essere demolita, anche se obsoleta.
Che diamine ci faceva una stazione radio in un posto simile?
Chiuse il suo fascicolo trattenendo un’imprecazione a labbra strette, spingendosi via dalla scrivania stizzito per l’enormità del tempo speso con quella donna.
Non si era separata da lui nemmeno per il pranzo, aveva semplicemente mandato il suo robot da compagnia a “provvedere”, continuando poco dopo a parlare imperterrita mentre infilzava elegantemente carpaccio di pesce spada preso chissà dove in una forchetta di plastica.
Avrebbe considerato la sua pausa pranzo uno straordinario, su questo non c’erano dubbi.
Era esausto e di malumore quando uscì dal suo ufficio, aveva esaurito ufficialmente la sua dose di cortesia giornaliera, quindi non salutò né Margaret né Fred, limitandosi a stringersi nel cappotto contro il dannato inverno newyorkese.
Marciò per qualche minuto come se avesse la piena intenzione di frantumare l’asfalto sotto i suoi piedi, ma arrivato all’imboccatura della metro si disse che era assolutamente inutile covare una rabbia simile.
La cosa positiva era che non avrebbe rivisto quella donna impossibile almeno per qualche settimana, mai se fosse stato fortunato, e arrabbiarsi così per un cliente era stupido anche per uno come lui.
Si appoggiò alla grata che portava in basso e alzò gli occhi chiusi al cielo, prendendo qualche respiro profondo e focalizzandosi su l’immagine più tranquillizzante che aveva: un volto che amava, un sorriso timido, illuminato a malapena da un paio d’occhi azzurri grandi come l’infinito, e poi un gesto della mano per togliersi i capelli dalla fronte.
Era uno dei suoi ricordi preferiti, caldo e piacevole, così intenso e vicino che quasi si stupì di non averlo davanti quando riaprì gli occhi.
Un sospiro lungo spezzò le sue labbra.
Una vibrazione familiare nella tasca destra lo risvegliò dal suo torpore nostalgico, e si rimise dritto prima di rispondere al cellulare << Pronto? >> << Hai sempre quel tono sorpreso quando rispondi al telefono. Non hai salvato il mio numero? >> suo malgrado, Erik non riuscì a trattenere un sorriso al suo tono seccato << Sì, mamma. Ho salvato il tuo numero. Ero solo distratto >> il sospiro di scariche elettrostatiche si sentì forte e chiaro, e quasi poté vederla alzare gli occhi al cielo << Hai già mangiato? >> non per la prima volta, si chiese se sua madre fosse interessata più al suo stomaco che alla sua vita quale essere senziente e attivo all’interno della società << Non ancora. Sono uscito adesso da lavoro >> scese le scale della metro e puntellò il cellulare contro la spalla per prendere la tessera dell’abbonamento e posarla sul lettore << Non passare da quei chioschi di gente di cui non riesci a determinare il paese di provenienza >> << Mamma, sei conscia del fatto che tuo padre è un immigrato tedesco ed ebreo, vero? >> anche senza vederla, seppe che aveva fatto quel gesto della mano che significava più o meno tutto, da “sciocchezze” a “stai zitto”.
Ci fu una pausa in cui lei si ricordò di essere al telefono, quindi tradusse per lui il gesto: << Oh, stai zitto, Erik. Dammi ascolto, piuttosto. Verrai sabato? >> << Credo che nemmeno una pioggia di meteoriti potrebbe impedirmi di festeggiare il tuo compleanno >> la sentì scoppiare a ridere, un suono che amava naturalmente, e si scusò distrattamente con un passante per averlo urtato mentre raggiungeva il binario << Ho prenotato al tuo ristorante preferito, quello sulla quattordicesima. Ho intenzione di vestirmi elegante e fingere per tutta la serata di essere il tuo orgoglioso fidanzato, fissandoti adorante e guardando male chiunque osi voltarsi verso la mia giovanissima donna >> di nuovo rise << Oh Erik! >> sua madre era la persona più preziosa del mondo per lui.
Lo aveva cresciuto praticamente da sola dopo che suo padre era morto in un incidente di fabbrica, e aveva usato tutti i soldi dell’assicurazione per la sua istruzione, permettendo così ad un ragazzino di Brooklyn di frequentare la Columbia e diventare quello che era << Sai essere così sciocco a volte... Ma grazie. Ti voglio bene, tesoro >> << Anche io ti voglio bene. A domani >> ripose lo smartphone sentendosi ristorato dopo quella breve conversazione, e alzò lo sguardo verso l’orologio del tabellone appeso sopra la sua testa.
Fu in quel momento che lo vide.
Occhiazzurri-pellechiara-lentiggini-labbrarosse.
Il suo cuore si fermò. Lo sentì fermarsi.
Erano lontani, lui binario est e l’altro ovest, ma anche così vedeva distintamente il suo sorriso, riconobbe il suo sorriso, quel volto arrossato dal freddo per metà nascosto da una sciarpa rossa e i capelli castani disordinati come sempre intorno al suo volto.
Gli occhi, oh mio Dio i suoi occhi, quel turchese cangiante che raccoglieva ogni sfumatura e la rendeva brillante, quello sguardo che era incubo e sogno insieme.
Sul suo corpo lo stupore aveva fatto scendere un veleno gelido, era come paralizzato, non riusciva nemmeno a respirare.
Era lì. Vivo. Davanti a lui.
Non era pazzo, non era mai stato pazzo, non era innamorato di un’ombra o un fantasma, era reale, REALE!
Poi un lampo luminoso, il familiare suono del vagone in avvicinamento, niente più che uno stridore ovattato, ma fu peggio di una pugnalata al petto << Charles! >> urlò con quanto fiato aveva in gola, un attimo prima che la metro delle otto e cinque glielo strappasse via.
   
 
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