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Autore: Mavimat    09/08/2016    1 recensioni
Chi ha detto che il calcio é solo per uomini? Ginevra e Celeste non sono d'accordo e decidono di mettersi in campo. In tutti i sensi. Ginevra ha quindici anni. Celeste otto. Entrambe portano delle cicatrici che gli altri non possono vedere. Passano un'estate a parlare, tra calci a pallone e passeggiate prima di tornare a casa alla sera. Poi arriva Settembre. E tutto cambia.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Era successo una domenica pomeriggio di Luglio di cinque anni fa. Mia mamma era arrivata qui sul campo, io non me n’ero nemmeno accorta. Stavo giocando una partita con degli altri bambini, mancava poco alla fine ed eravamo pari. Non mi ero accorta che fosse arrivata perché io stavo sfrecciando dritta verso la porta, con il pallone attaccato ai piedi. Arrivata all’area di rigore tirai forte, il pallone superò il portiere e entrò in porta, proprio nel centro. Feci appena in tempo a vederlo entrare perchè l’attimo dopo averlo calciato, scivolai. Caduta per terra tirai un urlo perchè mi faceva malissimo il piede. Vidi i miei compagni che si accerchiavano attorno a me per aiutarmi a rialzarmi e poi arrivò mia madre che, spostandoli, cominciò ad urlarmi contro. “Ti avevo detto di non giocare!”, mi disse. “Mamma non mi sono fatta niente!”, le risposi mentre mi spendevano i lacrimoni per il male che avevo alla caviglia. Mia madre mi prese per un braccio e mi alzò. Non le interessava se continuavo a piangere, mi strattonò fino alla macchina. Salii e lei chiuse la portiera dietro di me. Dal finestrino potevo vedere le facce degli altri bambini. Alcuni avevano disegnata sul viso un’espressione triste, mentre altri si erano messi a ridere. Rientrata in macchina, mia mamma si avviò, in silenzio sulla strada. Non era la strada di casa, ma non avevo il coraggio di chiedere dove stessimo andando. Lo scoprii poco dopo, dopo che lei si fermò nel parcheggio del pronto soccorso. Parlando con gli infermieri sembrava un’altra: la donna silenziosa della macchina, si trasformò in una persona loquace e carina, che spiegava agli infermieri quello che mi era successo. La mia caduta non aveva fatto altro che slogarmi la caviglia, così mi lasciarono andare poco dopo che delle pomate da mettere ed una fascia. Mia madre non fiatò più fino a quando arrivammo a casa e con un sorriso mi disse : “Vai pure a farti il bagno. Mettiti il piagiama e poi vai a letto”. Quel suo sorriso mi rincuorò. Mentre l’acqua si mischiava con il sapone e mi avvolgeva in quella nuvola di calore, pensai a quel goal che ero riuscita a fare. La pancia mi brontolava perchè in tutto quel trambusto non avevo mangiato, così prima di andare a letto avrei chiesto alla mamma di farmi del tè. Arrivata in soggiorno, vidi la mamma seduta sul divano. Stava leggendo. Poco distante da lei, vicino alla porta, vidi un buco nella fila di scarpe che si trovavano lungo il muro. Era il posto dove di solito mettevo le mie scarpe da calcio, l’unico paio che avevo. Me le aveva date mio zio perchè lui non giocava da anni. Erano un po’ vecchie, ma per me erano bellissime. Blu, con i lacci ed i tacchetti bianchi e la scritta “Diadora” in un giallo fosforescente. Mentre tutte le mie amichette sognavano di fare le principesse con le scarpette con il tacco, io mi sentivo una regina quando calzavo quelle prima di entrare in campo. “Mamma dove sono le mie scarpe da calcio?”, chiesi. “Le ho buttate”. Come un bicchiere che cade e si distrugge in mille pezzi, così mi ero sentita io a quelle parole. “E anche quando la tua caviglia starà meglio, tu non giocherai più a calcio”. Cosa stava succedendo? Cosa? Non avevo più il coraggio di dire una parola. Volevo solo piangere. “Mi dovevi dire qualcosa, Ginevra?”. Abbassai lo sguardo, e risposi con un ” Sì. Buonanotte mamma”, e volai in camera mia. Non andai più a giocare. Non solo perchè avevo paura che mia mamma mi scoprisse, ma anche perchè non mi sentivo completa senza le mie scarpe. Cominciai a diventare silenziosa a scuola e i miei amici non mi chiedevano più di giocare con loro dopo tutti i miei rifiuti delle loro richieste di andare sul campo. Ero andata un paio di volte a guardarli giocare, ma me ne andavo quasi subito perchè mi veniva da piangere. Ero sempre stata dall’altra parte della rete, dove c’era la terra, l’erba, non sul cemento di fuori, dove c’erano le panchine per gli spettatori che venivano a vedere i propri figli, nipoti, amici. Arrivata la prima superiore, ho cambiato compagni di classe, perchè abbiamo tutti preso strade diverse. Tra le mie compagne di classe, legai in particolare con una, Camilla. Parlavamo un sacco e così le raccontai della mia passione per il calcio e quello che era successo con mia madre. Il Natale di quello stesso anno, mi regalò un paio di scarpe da calcio di suo fratello maggiore, che non usava più perchè ormai gli andavano strette. Penso che quello fosse il regalo più bello che qualcuno mi avesse mai fatto. “Quando parli di calcio, ti si illuminano gli occhi. Ricomincia a giocare, ma cerca di non farti scoprire dalla mamma!”, e così, l’estate dopo, cioè l’estate scorsa ho ripreso a giocare. Avevo comprato un pallone che nascondevo negli spogliatoi del campo, dove la porta era sempre aperta. Mi allenavo e giocavo da sola e poi sono arrivati Mattia, Jacopo, Renzo e Christian, ai queli ho fatto promettere di non dire mai e poi mai che gioco qui. Camilla ogni tanto mi tiene il gioco. Se mia mamma scoprisse che gioco ancora, penso si arrabbierebbe un sacco. Ecco, questo il momento più bello e più brutto che ho legati al pallone. Mia madre che mi butta le scarpe da calcio e il mio rientro in campo con le scarpe che mi ha regalato Camilla.”
Ginevra stava seduta con le braccia attorno alle ginocchia sul muretto fuori dalla rete che circondava il campo. Guardava diritto davanti a sè. Il suo sguardo se perdeva sull’erba bagnata del campo.
Vicino a lei, Celeste, seduta in modo composto, con le mani appoggiate al muretto, la stava ascoltando. Loro due, Jacopo e Mattia erano arrivati per giocare, ma avevano trovato gli addetto alla manutenzione che stavano sistemando l’erba, le linee e per ultimo avevano acceso gli innaffiatoi. Gli altri due avevano deciso di andare a casa, ma loro si erano sedute su quel muretto, sperando che il sole avesse asciugato al più presto l’erba. Era ormai da poco più di una settimana che giocavano insieme e ogni volta, Ginevra accompagnava a casa Celeste. Se erano particolarmente stanche, stavano anche in silenzio, ma riuscivano lo stesso a farsi compagnia. Poi si salutavano e si davano appuntamento per il giorno dopo, anche se non sapevano se si sarebbero viste davvero. Sedute su quel muretto, in silenzio, mentre aspettavano che l’erba si asciugasse, Celeste guardava con la coda dell’occhio Ginevra, che aveva lo sguardo fisso sul campo e le venne in mente una domanda. Si girò verso di lei e le domandò : “Raccontami il ricordo più bello e quello più brutto che hai legati al pallone”.
Ginevra si voltò verso di lei e Celeste si rese conto per la prima volta della profondità dei suoi occhi blu. Ginevra cominciò così a raccontare di quel pomeriggio di Luglio di cinque anni prima.
“E tu?”, disse Ginevra.
“Io?”
“Qual è il tuo ricordo più brutto e il tuo ricordo più bello legati al pallone?”
Celeste guardò, in alto, verso il cielo.
Era quasi sera e un sole, che fino a poco prima era stato accecante, sembrava assopirsi dietro le nuvole che adesso riempivano l’immenso azzurro.
Era quasi sera e stava per mettersi a piovere.
  
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