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Autore: Jareth01    18/08/2016    1 recensioni
Il vodnìk è un folletto delle acque (gli inglesi preferiscono chiamarlo "the water goblin"), il cui compito è quello di raccogliere le anime degli annegati nella Moldava e custodirle in piccole ampolle di vetro depositate sul fondo del fiume. Viene spesso dipinto come una creatura bonaria, che ama intrattenersi nelle birrerie praghesi che sorgono vicino la riva. Cosa racconterà, nelle notti in cui esce dall'acqua? Quante e quali incredibili, splendide o tragiche storie avrà visto dalla sua magica dimora?
Genere: Fantasy, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jareth, Nuovo personaggio, Sarah
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il vodnìk è una delle numerose creature fantastiche presenti nel folklore praghese. E’ un folletto delle acque, una creatura dal corpo verde, spesso raffigurato con una marsina verde e rossa. Il suo compito è quello di raccogliere le anime degli annegati nella Moldava (il fiume che attraversa Praga) e custodirle in piccole ampolle di vetro depositate sul fondo del fiume. Può restare fuori dall’acqua solo per brevi periodi; quando il lembo della sua marsina smette di gocciolare, deve tornare dentro al più presto. Alcune leggende lo dipingono come una creatura bonaria, una sorta di vecchio saggio, che ama intrattenersi nelle birrerie praghesi che sorgono in prossimità del fiume. Si narra che il vodnìk Josef, in particolare, viva in prossimità della quarta arcata di Ponte Carlo, una delle principali attrazioni della città.
 
Dopo queste doverose informazioni (grazie Wikipedia), non mi resta che augurarvi buona lettura. Praga è un luogo magico: anche il regno del Labirinto, tra le sue antiche bellezze, si troverebbe a suo agio.
Giusi  
 
 

Il vodnìk di Praga


 
Durante una delle notti del mio folle viaggio alla scoperta di Praga mi ritrovai, confuso e coi sensi intorpiditi, accasciato sull’erba della riva del Moldava, in un piccolo angolo solitario del quartiere di Mala Strana. Credo fossero le quattro di notte: il freddo impietoso mi stringeva nella sua morsa e, nonostante avessi sicuramente bevuto qualche goccio di troppo, cosa di cui ancora non ho memoria, sono certo di esser stato, da quel momento in poi, pienamente lucido.
Avevo già visitato quel preciso posto almeno un paio di volte, ma mai avevo notato, prima di quella notte, una piccola taverna in legno dall’altra parte del fiume. Attraversai il vicino ponte in pietra per giungere fin lì,  deciso a ripararmi dal freddo dentro quel locale. La porta era bassa: dovetti piegarmi per entrare.
Che posto strano, e che aria antica trasudava quell’ambiente! Illuminato solo dalla calda luce di alcune lanterne, vecchi praghesi bevevano abbondanti boccali di birra, insieme ad altri signori dall’aria datata e bizzarra: ebbi l’impressione che altri, poi, non fossero nemmeno umani. Avvertii un fremito di paura, ma la mia mente si convinse facilmente che quello era il loro posto, e che lo straniero fossi io.
Presi una bevanda calda al bancone e andai a sedermi ad un angolo, su di una panca di legno, guardandomi attorno. L’attenzione dei presenti ricadeva interamente su un personaggio più unico che raro, dalla pelle verde come il muschio dei letti dei fiumi e una marsina inzuppata d’acqua, che gocciolava senza sosta dalla sedia: era il vodnìk, che sorseggiava una birra, con l’aria di chi è avvolto da cupi pensieri. Si accorse della mia presenza, lanciandomi un’orribile occhiataccia: poi, con un altro cenno della testa, mi lasciò perdere, facendomi capire che avevo il permesso di rimanere.
«Farete fatica a credere a ciò che ho da raccontarvi: io stesso non vidi uno spettacolo tale da ormai molti lustri» disse il vodnìk, ottenendo un interessato silenzio da parte di tutti i commensali. La mia emozione fu forte, e non mi sentii mai più felice di conoscere il ceco, così da poter comprendere e trascrivere ciò che il folletto ci narrò.
«Due albe fa la nebbia si alzava sopra Ponte Carlo, velando il viso dei suoi protettori di pietra. A quell’ora, sapete, è finalmente sgombro da quei strillanti e patetici greggi di umani, eccezion fatta per qualche fotografo impertinente, o per qualche pover’anima solitaria e  vagante. Ma quella che vidi, miei cari signori, incedere lentamente, non era anima umana, e il vecchio Josef, servo del fiume e custode di anime, certo sa ben riconoscere quella appartenente al re della sua stirpe!»
Gli astanti levarono una sommessa esclamazione di sorpresa, di cui l’orgoglio del folletto si nutrì, manifestandosi in un ghigno storto.
«Ero certo sapesse anch’egli della mia presenza, ma m’ignorò: il vostro vecchio Josef, però, non poteva perdersi un avvenimento tale, voi ben capite! Mi nascosi, quindi, ben benino tra gli anfratti del ponte, tanto da poter vedere il re in viso, e tornare velocemente in acqua quando necessario. Ah, che onore poter ammirare con questi occhi uno dei famosi travestimenti del re dei goblin! Egl’era aggiustato tutto punto, per sembrare un vecchio mendicante: aveva un nero cappello dalla banda larga e affusolata, i suoi capelli d’oro sembravan paglia grigia, del grigio che esce dai caminetti fumosi; indossava abiti scuri e malconci e portava una benda bianca agli occhi –che ironia, proprio lui, che tanto può vedere, fingersi cieco! Si trascinava goffamente lungo il ponte, appoggiato a un bastone, e tutto tremante scuoteva l’altra mano, la quale stringeva una tazza in cerca di monete. Il Moldava sa che mai vidi attore migliore! Senza mai tradirsi di un passo, andò a sedersi sul freddo pavimento, proprio sotto la statua di San Nicola. Certo, mai vidi un cieco mendicante più triste e più bello, oh, il Moldava solo lo sa! Qualche umano, con la sua macchinetta infernale, fece il mio stesso pensiero e lo immortalò, facendolo diventare parte integrante del nebbioso e tenue paesaggio. Non potevo capacitarmi dello strano gioco del re, a cosa mirava così conciato? Mi decisi a non staccargli un attimo gli occhi di dosso.
Il mattino iniziò ad arrivare e il ponte a popolarsi: lui rimase fermo lì, senza fiatare, abbassando di tanto in tanto il capo, per ringraziare qualche passante della moneta che lasciava cadere dentro la tazza. Non si scompose –per mille anguille, proprio lui! neanche quando una bambina cominciò ad importunarlo, giocando col suo cappello. La distrasse con un cristallo, che trasformò in un innocuo fiore di carta, per poi fargliene dono. Dovevate vedere la felicità di quella piccola creatura, mentre la madre la strattonava via!» Esplose in una greve risata, per poi tornare cupo in volto.
«Era iniziata l’ora più calda del giorno quando attraversò il ponte una straniera, la quale doveva aver passato da poco ciò che è metà vita per gli umani, di una grande bellezza sgualcita dal tempo e da un qualche male: le rughe, però, non nascondevano la delicatezza della sua pelle candida, i capelli neri ondeggiavano rigogliosi come quelli di una giovane ninfa, accarezzandone i seni, e gli occhi verdi davano gran forza a quel corpo, che sembrava tanto bello quanto debole e malato! Ella non riusciva a distogliere lo sguardo dal cieco mendicante. Per quanto lo ammirò, vi dico, credetti quasi che riuscisse a scorgere le sue vere fattezze. Non mi crederete, ma quel viso stanco sembrò rinvigorirsi e prender colore a cospetto di tanta triste visione! Si avvicinò al re, infine, esitante, piegandosi sulle ginocchia, e mise piano, nella tazza, una banconota da cinquecento corone. E ditemi, amici miei, quante sono le persone che danno a un mendicante l’equivalente di una buona cena?» I commensali ammutolirono.
«Quella straniera non era una donna qualunque, e quando il re alzò le bende dagli occhi per farsi riconoscere, me ne resi conto. La donna si commosse fortemente, e lui con lei. Raramente vidi sguardi più languidi di innamorati, il Moldava lo sa, oh, se lo sa!»
Un individuo alto e dalla faccia incavata intervenne: «era lei, dunque? La ragazza di cui il re di Goblin si era innamorato?»
«Non avrebbe potuto trattarsi di nessun’altra» tacciò il vodnìk. «Il mio più grande dispiacere è non aver potuto udire le accorate parole che i due si scambiarono. Vidi, però, il re offrirle un cristallo e, squadrandone il viso, son certo che la stesse implorando di accettarlo con tutte le sue forze! La donna lo osservò a lungo, e la mia mente era ben convinta che l’avrebbe preso da un momento all’altro. Invece no, lei rifiutò un simile regalo! Ancora non mi capacito del come e del perché, e non ne verrei a capo nemmeno dopo molte birre. Ci credereste mai? Mi sarà molto difficile dimenticare quell’umana scuotere la testa in segno di diniego. Non ero ancora a conoscenza di cosa potesse aver rifiutato, ma lasciatemelo dire, quand’ella si alzò per andarsene, in qualche modo rassegnata e in pace, il nostro re era tragicamente fuori di sé. Il suo corpo era bianco e immobile come il freddo marmo, e i suoi occhi colmi di terrore. Quando in lacrime si volse, alzandosi, a guardare il mio fiume, il Moldava lo sa, alla vista di tale infelice, quanto temetti di dover preparare la mia ampolla più preziosa!» Il vodnìk parlava del re con un trasporto tale che dovetti ricredermi sulla sua natura burbera.
«Per fortuna si allontanò dal ciglio, trascinandosi col suo bastone, così com’era arrivato, lontano da Ponte Carlo. Tanta era la sofferenza in quell’uomo che la sua falsa infermità divenne in me cagion di dubbio». Fece una pausa. Tutti i presenti erano rapiti dal racconto, ansiosi di conoscerne la fine.
«Ebbene, vi dico, la mia insoddisfazione fu enorme nel non comprendere il fulcro di tali avvenimenti, e divenni ancor più risoluto nel cercare la risposta. Fu quasi impossibile ritrovare i due, una volta che si furono allontanati dal ponte! Come sapete, la mia natura non mi permette di star troppo tempo lontano dall’acqua: non potei, perciò, far altro che saltare di giunco in giunco alla ricerca del re e della donna, percorrendo la nostra magica città da un rivo all’altro, sulla strada di quel gran fiume che tutta l’attraversa.
Al tramonto la sorte fu dalla mia parte, ma non mi diede alcun motivo per rallegrarmene. Trovai una casetta, vicina ad una piccola diramazione del Moldava, due piani, le luci accese ed un’anima che lentamente stava perdendo il suo bagliore. Nel talamo di una stanza giaceva la donna del re, debole più che mai: la malattia che percepii quel mattino la stava divorando a grandi morsi! E lei stessa e suoi cari erano ormai in veglia, segretamente rassegnati al fatal avvento. Da un ramo vicino alla finestra un barbagianni, silenzioso, partecipava da lontano a quella riunione: era il re, senza dubbio, e al cuor mio fu chiara qual era la terribile verità che mosse i precedenti avvenimenti. In tarda notte il momento arrivò: sentii salire al cielo l’ultimo suo respiro, l’ultima scintilla di un fuoco ormai spento. Il barbagianni, atipico sostituto del funesto canto della civetta, era ancora lì, ed ero sicuro che lì sarebbe rimasto la notte intera. Col cuore pesante, tornando alle dolci onde della mia dimora, non potei non notare da quante stelle cadenti il re fece tagliare il cielo, nel suo silenzioso e struggente pianto per quella nobile anima». Il vodnìk, sospirando, sorseggiò dell’altra birra, schiarendo così la sua voce ormai rotta e impastata.
«Il mattino seguente, mi ostinai a partecipare al finale di quella storia ormai a me cara. Seguii l’ultimo addio a quella donna, il cui eco delle imprese di gioventù, dal lontano labirinto, giunsero fin qui. Tra i parenti e gli amici, v’era un’altra figura –quanto l’aspettavo! Alta, bionda, che seguiva il corteo in disparte, nel suo vestito nero, con l’aria lontana di chi ha l’anima in tempesta. Il re, che tanto l’aveva amata, fu l’ultimo a lasciarla alla fredda terra, omaggiandola delle rose più belle, del profumo e del rosso più intenso.
Ah, era ormai quello l’ultimo, unico dono che il re poteva offrirle, quel re che già sapeva, che voleva strappare via la sua amata dal tempo, e impedire alla morte di ghermirla! Ma si sa, noi immortali siamo, alla fin fine, ben poco saggi, e mai comprenderemo le ragioni degli umani, che si piegano di buon grado all’ineluttabile e che sempre hanno la forza di accettare i più misteriosi piani della vita».
 
   
 
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