Libri > Red/Blue/Green
Ricorda la storia  |       
Autore: Mary_la scrivistorie    18/08/2016    2 recensioni
Falk/Grace – Mini-long – 1980.
Grace Montrose, per Falk De Villiers, è un criptico enigma. Sin dal momento in cui l’incontra per la prima volta, è una figura annebbiata dalla magia di un misterioso gioco. Per riuscire a conquistarla, Falk deve collezionare un poker d’assi – picche, fiori, quadri e cuori. Ogni asso gli viene assegnato quando riesce ad avanzare mosse in quell’offuscata scacchiera – il cuore della ragazza.
«Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ l’amavo.»

[Prima classificata al contest “Tante canzoni, una storia” indetto da Mokochan sul forum di EFP.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falk de Villiers, Grace Shepherd, Lord Lucas Montrose
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
s  s  o    d  i    c  u  o  r  i  
                       
  
   *
 
 
Nome autore: MaryScrivistorie [forum], Mary_la scrivistorie [EFP];
Titolo storia: Asso di cuori;
Fandom:  Red/Blue/Green – La Trilogia delle Gemme;
Personaggi: Falk  De Villiers, Grace Montrose, Lucas Montrose, Glenda Montrose;
Pairing: Falk/Grace;
Canzoni scelte:
  1. Atlas – Coldplay;
  2. New Divide – Linkin Park;
  3. Beautiful Crime – Tamer;
Introduzione:
Falk/Grace – 1980 – Mini-long.
Grace Montrose, per Falk De Villiers, è un criptico enigma. Sin dal momento in cui l’incontra per la prima volta, è una figura annebbiata dalla magia di un misterioso gioco. Per riuscire a conquistarla, Falk deve collezionare un poker d’assi – picche, fiori, quadri e cuori. Ogni asso gli viene assegnato quando riesce ad avanzare mosse in quell’offuscata scacchiera – il cuore della ragazza.
La sua impresa richiederà molto più tempo di quanto pensa, tuttavia – è un gioco per la vita, dopotutto.
Dal testo: «Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ lamavo
[Questa storia partecipa al contest “Tante canzoni, una storia” indetto da Mokochan sul forum di EFP.]

 
Note dell’autore:
Eccoci arrivati, di nuovo, al capolinea. Scade un nuovo contest, comincia un’altra storia: è un’inevitabile catena di eventi che non potrà mai essere spezzata – o, almeno, lo spero con tutta la mia anima. Questo contest, incentrato sulla musica, è stato decisamente d’ispirazione: bramavo da tempo soffermarmi su quel mio adorato Falk De Villiers. Il finale della saga, per quanto riguarda i piccioncini Falk e Grace, ci ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Non vi nego che anche la mia fan fiction lo farà – dev’essere nel sangue di scrittrice, essere così sadica, specialmente nei confronti dei propri lettori. Era da tanto, troppo tempo che non scrivevo brani su questo fandom e, chi mi riconoscerà, vorrà senz’altro picchiarmi. Vi ricordate di quella Mary che aveva cominciato una storia, due anni fa, dal titolo Amethyst Over Time, su una possibile Nuova Generazione di Viaggiatori?  Ebbene sì, proprio lei – avete tutto il diritto di suonarmele a dovere! Sappiate però che non potete ammazzarmi, perché sto terminando il terzo capitolo dopo che avevo perso scaletta e testo dei capitoli – il mio PC s’era rotto. Abbiate fede!
Intanto, vi lascio quest’oscenità – non so neanche come abbia potuto concepire una cosa simile. Rasento l’OOC, ho inserito allegorie banali e squallide, avrò fatto un pasticcio in grammatica: insomma, di tutto e di più. Sarò più che contenta di accettare critiche o commenti crudi, me li merito. Ero di fretta in questi giorni e non sono riuscita neanche a controllare l’efficacia di questa Mini-long. A proposito, sono tre capitoli e presto pubblicherò i seguenti. Bando alle ciance, almeno mi sono degnata di consultare la mappa di Londra per i quartieri da me menzionati e per l’ambientazione degli anni Ottanta. A proposito, dal libro possiamo appurare che Grace è del 1966 (aveva ventott’anni quando Lucy, che ne aveva diciotto ed era nata nel 1976, era fuggita); ho quindi ipotizzato che Falk fosse nato nel 1964 e che fosse coetaneo di Glenda. La storia del padre di Falk – il vero nonno di Gwendolyn – è puramente mia invenzione e presto ho intenzione di scriverci su qualcosa e svelare il segreto di sua moglie – provate a indovinarlo! Il testo cerca di essere quanto più inerente possibile al significato delle varie canzoni: ce l’ho messa tutta, stavolta. Ringrazio chi deciderà di dare un’opportunità a questa storia e pure chi lascerà una recensione. Ringrazio anche la giudiciA per il bel contest che ha indetto. Un vivido saluto dalla vostra folle, malata Mary. ♥

Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
*
 
 
      Capitolo I Asso di picche
 
         
{Sulle note di Atlas,
singolo dei Coldplay
e colonna sonora del film
Hunger Games ‒ Catching Fire}
 
 
1980.
 
 [1] Dal testo della canzone.
 
 
Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ lamavo.
Era la culla che calzava a pennello le mie tiepide e fragili illusioni fanciullesche e i miei desideri più reconditi. Perfino la più tenue delle luci ‒ che provenisse dall’orizzonte o dai lampadari delle sontuose ville dei più altolocati era tutt’altro affare ‒ era eclissata da quella buia coltre d’ombre che invadeva indiscriminatamente ogni cosa sino ad appropriarsene con avidità. La città stessa era il suggello di un giuramento infernale che sanciva che ogni cosa sarebbe dovuta appartenere di diritto all’oscurità maligna che bramava di possedere i cuori e le loro ceneri.
Per quando riguardava me, ero una giovane anima alla ricerca della luce. Si trattava del mio svago preferito: gironzolavo nei meandri di quel labirinto, vagando per quelle strade maledette, e cercavo smanioso un minimo chiarore in quei velati sentieri.
Stavo appunto contemplando in quel momento gli sfavillanti bagliori dell’alba stagliarsi sulle silenti acque del Tamigi ‒ finalmente rassicurato dall’avvento della luce ‒ con i gomiti saldamente piantati sui parapetti in ferro arrugginito e pietra e lo sguardo smarrito nel vivido colore del cielo, e pensai che il fiume non era null’altro che uno specchio in cui si riflettevano gli squarci di vita che effondeva quell’afosa giornata d’agosto.
Ero partito presto da casa in modo da non emettere rumori molesti e sgraditi in casa e da non destare né la mia famiglia né l’ossessivo maggiordomo che c’era capitato.
Mi ero recato là di soppiatto, sfuggendo ai pedanti controlli di Mr Taylor, con la mia affidabile bicicletta e con le illusioni di una libertà che allora non sapevo che non sarebbe mai arrivata. Una fitta lancinante mi carpì il cuore, mentre la mia mente eluse il mio controllo e si concesse delle meditazioni agghiaccianti.
Era Paul il fenomeno da baraccone di famiglia, era Paul quello che poteva ambire al supremo infinito, era sempre Paul che avrebbe in futuro scorrazzato nei meandri del tempo ed esplorato la Storia ‒ durante la sua trascendentale metamorfosi ‒ attraverso i suoi stessi occhi. La cosa buffa era che veniva già idolatrato come se fosse un dio redentore dalle sembianze umane piuttosto che un poppante di appena sei anni ‒ aveva da poco iniziato a frequentare le lezioni di un celebre precettore da poco stanziatosi in centro.
Nel mio profondo, percepivo un oscuro sentimento ‒ l’avrei solo in seguito identificato come “invidia” ‒ che m’attanagliava lo stomaco e non mi concedeva scampo con la sua mera crudezza. Feriva, per quanto era intenso.
Probabilmente m’infastidiva il fatto che mio fratello avrebbe ricevuto la possibilità di rifugiarsi in un altro universo, sfuggendo a quella complicata realtà che s’offriva invece a me in tutte le sue controverse sfaccettature.
Sbuffai, iracondo contro quel cielo che m’aveva appena sbeffeggiato con i suoi criptici segreti, e mi sistemai i capelli bruni scompigliati dalla brezza. Come mi ripeteva mio padre sino allo sfinimento, ero il rampollo primogenito dei De Villiers e dovevo mantenere un certo ritegno in qualsiasi situazione.
La morte di mia madre l’aveva lentamente trasformato in una creatura innaturalmente algida e inquieta: assuefatto di un odio cruento ed avvelenato che lo trascinava negli abissi più foschi e che gli deturpava perfino l’aspetto esteriore, aveva cominciato a dedicarsi agli effimeri privilegi dell’ebrezza e ai più eccentrici lussi del ceto nobile. Sebbene fosse quasi perennemente assente ‒ probabilmente a vagare instancabilmente fra osterie e bordelli ‒ e noi fossimo più che altro seguiti dal nonno Kenneth, ci picchiava con maggior frequenza ed esigeva che fossimo perfettamente degni della reputazione che avevamo l’obbligo di difendere, così come della maschera d’argilla che custodiva le menzogne che celavamo al mondo ‒ e, diamine, se ce n’erano!
Ogni frase pronunciata dalle sue labbra ormai straordinariamente tirate era costellata da almeno una fandonia. Quei loschi tranelli facevano ormai parte della mia vita: ero un De Villiers e, secondo l’originaria tradizione del mio lignaggio, avrei ben presto iniziato gli studi da adepto per la Loggia del Conte di Saint Germain ‒ in pratica, ero nato per svanire sotto il fardello di tutti quei inganni che avrebbero soffocato prima o poi ogni pilastro della mia esistenza.
Non era la vita che ‒ se ne avessi avuto la possibilità, certo ‒ avrei scelto, ma quella che mi sarebbe fatalmente toccata: era scritto negli Annali, così come nei presagi nelle stelle. Avrei ben presto giurato di servire al meglio delle mie capacità ogni viaggiatore del tempo e di rispettare indiscutibilmente i preziosi dettami del Conte.
Afferrai un sasso piatto e lo lanciai in acqua con rabbia. Assorto, mi concessi un sorriso sarcastico e ribelle: e così, era quello il mio oracolo. Sarebbe stato mio compito diventare un suddito del Tempo, senza che qualcuno avesse valutato il livello delle mie facoltà a tal proposito.
Quanto a Paul, lui si sarebbe divertito alle mie spalle ‒ letteralmente, indietro negli anni e nei secoli ‒ insieme alla sua graziosa e venerabile gemella temporale, Lucy. Aveva quattro anni, lei.
Un’altra risatina ironica fiorì sulle mie labbra, dove morì in fretta e furia quando realizzai quanto quella mia sentenza fosse crudele e lapidaria. Non m’allietava ridere di fatti così sconcertanti e patetici, non se rimuginavo su mio padre e sulle “lezioni di vita” che s’ostinava a impartirmi ‒ con le buone o con le cattive maniere.
I miei denti stridettero rumorosamente quando li digrignai in una smorfia di disappunto: le cicatrici sulla schiena, purtroppo, non erano i pegni delle avventure vissute nel nome del mio ardito onore. Bruciavano lungo la spina dorsale, accendendosi l’una dopo l’altra come una sfilza di candele nella notte, e rilucevano di porpora per il sangue ormai essiccato versato in una pira di pene e di rancore. Potevo percepirne il richiamo farsi strada tra i miei neuroni e reclamare vendetta: c’era di più, oltre al risentimento, in quegli indelebili marchi di strazio. C’era l’esigenza di porre fine a quell’atroce supplizio e di ritrovare quei brandelli di famiglia che si erano progressivamente dissolti con il trascorrere degli eventi, c’era la bruciante necessità di trovare conferme anziché un mare di barriere schive e distruttive; c’era il cocente bisogno di ritrovare e distinguere la mia aura in quella tetra esistenza terrena.
Non ero solito commiserarmi nelle mie afflizioni: ero più il tipo che soffriva in solitudine e si rintanava sotto una nube di menzogne piuttosto che dimostrare agli altri la propria vulnerabilità emotiva. Strinsi fra le dita una scheggia di granito appena raccolta dal suolo e ne ispezionai la consistenza sotto gli spiragli dei raggi mattutini che s’innalzavano con solerzia al di sopra delle forme corporee e degli irrazionali cuori dormienti in tutta Londra.
Stavo là, con il viso rivolto al cielo sereno e ai dolci spettacoli che mi proponeva, in attesa di percepire i benefici di quell’abbagliante manifesto di luce che si protraeva nell’arco di ore intere fino al momento del mezzodì. Uno stormo di rondini si librò in volo da una quercia vicina, svanendo poi nell’oblio dell’orizzonte.
Avrei voluto assaporare quel panorama con un sorriso intriso di gioia da regalare al mondo, ma lo stendardo della mia maledizione mi perseguitava come una plumbea tempesta in agguato ‒ ero un De Villiers, dopotutto.
Nonostante avessi da poco oltrepassato la fase iniziale della pubertà, ero destinato a diventare membro di una setta segreta di cui non mi ero mai interessato in vita mia. Ero un condannato.
Le impronte della mia ribellione scintillarono sulla mia pelle: mi era stato concesso un ultimatum e dovevo effettuare una scelta il prima possibile.
La via più semplice era lì, appesa come un velo dinnanzi ai miei occhi ormai vitrei: non mi restava che agguantarla e sperare che non mi recidesse anch’essa.
Un altro sospiro, così intimo e fioco che lo mantenni per tutta la vita come un altro dei miei innumerevoli segreti. Combattuto, m’eressi sulle punte dei piedi e improvvisai il cipiglio superiore che mio padre mi suggeriva spesso di sfoggiare fuori casa, in pubblico. Quella mattina non c’era nessuno e non avevo paura di canzonare i modi aristocratici e ampollosi di mio padre con smorfie di repulsione o disprezzo. Nonostante i miei propositi derisori e poco opportuni, la farsa risultò più credibile del previsto.
Forse era il prospetto affilato dei miei occhi eccezionalmente ambrati oppure la piega ricurva e stretta delle mie labbra, tuttavia sembravo esser nato per fingermi superbo come un qualsiasi altro De Villiers ‒ avevo la stoffa dello snob altezzoso, non c’è che dire. O, per meglio dire, ce l’avevo nel sangue.
Un silenzio insopportabile piombò sull’aria leggera e mi scalfì la pelle con la sua gravezza.
Riecheggiò soltanto il sussulto di un altro ciottolo scagliato in quelle meste acque fluviali che mi suscitavano pensieri tanto infausti. Dovevo infrangere la micidiale catena che m’imbrigliava saldamente alle radici di quegli abissi cupi e maligni per rompere quello squilibrio morale.
La strada per raggiungere quell’ambiziosa meta sembrava, d’altra parte, una mera allucinazione che si delineava nel profilo sfuggente delle nubi ‒ quell’alba era l’unica oasi dalla quale potevo abbeverarmi.
Era principalmente per quelle ambigue ragioni che mi trovavo lì, prigioniero di sentimenti fra loro contrastanti e affacciato sulle trepidanti acque del Tamigi che fluivano ignare sotto il mio sguardo distante.
Fu, infine, un flebile rumore a riscattarmi da quelle tristi riflessioni: si trattava del suono flautato di passi leggiadri celati dall’ombra. Senza indugiare, mi voltai verso la direzione da cui proveniva l’eco dei dolci picchiettii sul suolo e riconobbi soltanto una figura minuta dai capelli rossi prima che questa scomparisse dietro la vecchia biblioteca che rappresentava il confine con la carreggiata del ponte. Accattivato da quel piccolo gioco che in ambiente familiare mi sarebbe stato senz’altro negato, m’accinsi a osservarmi intorno, nel tentativo di distinguere fra i colori caldi di quella mattinata il vermiglio della chioma della ragazza. Se solo mio padre si fosse sognato che suo figlio scorrazzava allegramente dietro a un’estranea provvista di una capigliatura così ramata e fiammeggiante ‒ il simbolo delle streghe, il simbolo di quelle pazze Montrose ‒ mi avrebbe volentieri fustigato davanti al resto della famiglia. Un brivido mi risalì repentino la spina dorsale mentre rimuginavo su quell’eventualità ‒ la frusta che scivolava inevitabilmente sulla mia pelle ormai coriacea per straziarla, ancora e ancora ‒ e mi strinsi le spalle con fare protettivo verso quelle terrificanti memorie che il mio cuore non faticava certamente a decifrare.
Un fruscio più caotico degli altri emerse fuori dalla melodia che producevano le scarpe della ragazza sui sampietrini come una nota stonata al violino: un riso d’illuminazione mi comparve sulle labbra mentre mi dirigevo con passo sicuro verso destra.
Altri fiochi brusii in agguato non fecero altro che accreditare la mia ipotesi riguardo la localizzazione di quella strana fanciulla. Ti ho trovato.
Quando mi sporsi oltre le mura cieche del vano fra la biblioteca e un’angusta bottega di musica, riuscii a distinguere fra il mite grigiore della foschia e del cemento il porpora della chioma della ragazza. Era piccola di statura, esile e aggraziata come un fuscello, con una vaporosa cascata di riccioli luminosi e i lineamenti tanto malandrini quanto fatati. Sfoderava un sorrisetto angelico che, lo sapevo per esperienza, non prometteva niente di buono. Contraeva sollecitamente i muscoli delle gambe in rapida successione, creando minuscole spirali di vento che sollevavano i fiori di ciliegio sparsi per terra, preannunciando un’armoniosa danza d’estate.
Piuttosto che denigrarla per l’assurdità dei suoi gesti, fui rapito dalla bellezza di un tale scenario: si trattava di un breve frammento idilliaco estratto dalla storia di un sogno. Nessuna delle sue mosse era eccessiva o straripava dall’equilibrio che riusciva a effondere nell’aria: il suo eterno ballo era delicato, opportuno per accompagnare la sua sagoma minuta e per suscitare un misticismo spirituale negli animi del suo pubblico ‒ in quel caso me medesimo. Sembrava che danzasse esclusivamente per il gusto di farlo: probabilmente era la sua occasione per sfogare le proprie tensioni e ritrovare quei barlumi di libertà perduta nella monotonia della quotidianità.
La sua pelle nivea tremolava sotto lo scintillio degli spiragli di sole durante i suoi movimenti leggiadri che facevano arcuare soavemente i suoi arti flessuosi. Smarrito nell’ondeggiare lieve delle sue ciocche infuocate, non potei far altro che ritrovarmi a decretare che lei poteva permettersi ogni genere di stravaganza, talmente era bella.
Alla fine, quando terminò il rituale della sua vellutata malia, scivolò con grazia sull’ultimo passo da lei mimato e articolò con le braccia una graziosa posa finale, provvista di un sorriso serafico a fior di labbra.
Fu allora che mi sporsi oltre il consentito e lei s’accorse della mia silenziosa presenza. Dapprima parve incollerita, a giudicare dall’accesa sfumatura delle sue iridi e dall’innaturale piega obliqua che avevano assunto le sue sopracciglia; in un secondo momento, invece, mi sondò dubbiosa con i suoi occhi color lapislazzuli e optò infine per coprirsi quel poco di carne lattea che sbucava dalla sua camicia a quadri. Non che ci fosse molto da poter vedere: in caso contrario, me ne sarei senz’altro avveduto. Era magari giusto quella scollatura creata dai bottoni slacciati che dondolavano a caso ad attirare l’attenzione: una vista acuta poteva arrivare a distinguere il delizioso e pallido incavo tra i seni e perfino scorci di pizzo del suo reggiseno bianco. Stavo appunto rimuginando sulle sue forme non poco generose, quando iniziò a urlare con foga.
«Che cosa diavolo ci fai qui?», domandò, saltando su furiosa e allacciandosi malamente i bottoni sfuggiti dalla camicetta. Probabilmente s’era accorta che ero perlopiù concentrato sulle sue candide grazie che sulle sue parole ‒ e la cosa non le andava molto a genio, intuii. La sua voce era fragile, flautata, come se fosse soltanto la soffusa eco di una vibrante melodia classica. Aveva sì o no quattordici anni.
Mi soppesò, furibonda, come se le avessi fatto chissà quale torto e mi detestasse incondizionatamente. Neanche la conoscevo. Non potei evitare di riconoscere stupidamente che era bella anche da arrabbiata, quella bizzarra fanciulla. I suoi occhi azzurri ‒ che tuttavia sembravano sfavillare di luce rossastra ‒ scandagliarono il mio corpo alla ricerca di tratti sospetti o di qualche difetto che potesse giustificare il suo innato disprezzo nei miei confronti.
Mi limitai a perdermi ‒ proprio come un fesso ‒ negli scorci più nitidi del suo volto che possedeva uno splendore frastornante. Il suo naso era leggermente all’insù ‒ mi rammentava le fattezze elfiche secondo il folklore britannico ‒ e cosparso da una spruzzata di minuscole lentiggini. Aveva gli zigomi alti e sporgenti e il viso spigoloso.
«Sono stato incuriosito dal suono dei tuoi passi e sono venuto a controllare cosa stessi facendo ma, ti prego, non interrompere la tua danza per me.», la supplicai, con un tono concitato che non avrebbe senz’altro fatto onore alla mia natura De Villiers.
Lei rimase allibita dalle mie parole e avanzò di qualche passo per ispezionarmi meglio. Era davvero magra, constatai: le sue braccia eburnee erano scheletriche e le clavicole molto evidenti al di sotto della gola. Deglutì, come se all’improvviso non riuscisse più a tollerare quello scambio seppur esiguo di parole, e mi scoccò un’occhiata torva.
«Tu e io ci odiamo.», sibilò, come se quella frase bastasse a spiegare tutta la diffidenza che nutriva nei miei confronti e lo dicesse per rimarcare il concetto. Il suo tono s’incrinò a circa fine frase ma riuscì a camuffarlo simulando un piccolo colpo di tosse. I suoi capelli parvero illuminarsi di bronzo e con orrore mi ritrovai a pensare che forse avevo beccato proprio una Montrose: esaminai con perizia il suo incarnato di porcellana, i suoi occhi di zaffiro e i suoi lunghi capelli ondulati che le sfioravano il fondoschiena. Confrontai mentalmente quella ragazza con l’unica Montrose che conoscevo bene. Lei e Glenda erano tuttavia del tutto diverse: quest’ultima portava i capelli rossi lisci e scalati, aveva un collo da giraffa e gli occhi a mandorla scuri e penetranti. Inoltre, rammentavo che mio nonno mi avesse detto che nessuna di quelle pel-di-carota era capace di ballare o di dilettarsi in qualsiasi strumento musicale: erano soltanto rigide e ciniche, con un’inquietante propensione al cameratismo e alle frivolezze. Mi aveva ammonito a dovere in merito a quel tipo di donna, così cercavo di evitarle per quanto mi era possibile. No, quella lì non poteva essere una Montrose: troppo leggiadra, troppo alla mano, troppo affascinante.
«Io non ti conosco e di certo non ti odio», proferii con una dolcezza che nauseò perfino me stesso. Cosa mi stava succedendo? Ero sempre stato un maschio restio ai sentimentalismi e a qualsiasi altra dimostrazione d’affetto, incitato dai nobili precetti impartiti dalla mia casata: distacco e regalità, sempre e comunque. Eravamo plasmati per incarnare i ritratti viventi del nostro avo Robert Leopold, il celeberrimo Conte di Saint Germain, e non per imitare dei pupazzi.
Anche lei storse il naso, come se provasse ribrezzo, dopodiché dichiarò con tono amaro: «Io conosco te, però.»
Senza accorgermene, m’ero avvicinato alla sua sagoma e con uno scatto mi bloccai a meno di mezzo metro dal suo volto. In tutta risposta, lei incurvò le spalle e piegò il capo come se cercasse di evitare i miei occhi a ogni costo. «Guardami.», le mormorai dolcemente, sfiorandole la mano d’alabastro e incastrando le sue dita affusolate fra le mie. Da dove proveniva tutta quella spavalderia? Potevo contare giusto un paio di ragazze nella mia collezione di relazioni, e nessuna di loro aveva potuto vantare il privilegio di avermi catturato il cuore ed essere riuscita ad abbattere le mie rigorose barriere morali. Un gesto impedito da quegli ostacoli del cuore ‒ un gesto che a loro avevo negato ‒ era appunto l’atto di intrecciare le mani. E, diamine, quella non era nient’altro che una sconosciuta! Quelle ragionevoli considerazioni furono annullate dalla trepidazione che m’assaliva i polmoni e mi smorzava il respiro con il suo inconfutabile vigore. Il cuore incastonato nel mio petto palpitava così ferocemente che temevo che potesse prima o poi arrestarsi di colpo ‒ ma così non avvenne. Continuò la sua interminabile lotta contro il tempo, rendendomi preda di quell’anima ingenua che sfuggiva alla mia custodia e si librava fra le nubi di perla che sormontavano i nostri corpi. Sempre incapace di metabolizzare i miei preoccupanti istinti, l’afferrai per le spalle ‒ esili e scarne come quelle di nessun’altra ‒ e provai ad appigliarmi alla sua, di anima, scavando fra gli aloni della sua aura alla ricerca di un rifugio, di una catena che mi ancorasse a terra e non mi lasciasse precipitare in quel tremendo nulla. Il contatto con la sua pelle d’avorio si fece sempre più vivido, non era più una fantasia offuscata dalla nebbia dei desideri bensì una visione nitida della solida realtà. Percepii il peso di quel presente negli angoli del mio cuore mentre allentavo la mia presa e mi riducevo a sfiorarle delicatamente la carnagione lattea, che si costellò di leggeri brividi al mio passaggio. La sua resistenza cominciò a vacillare quando il soffice calore della sua epidermide si fuse con il mio tocco.
Esalai un sospiro di soddisfazione mentre con la punta dei polpastrelli percorrevo il solco della sua gola invitante e lei abbandonava la sua iniziale rigidità e s’arrendeva alle mie carezze. Il suo collo di cigno si tese all’indietro, ormai illanguidito all’idea di quel leggero massaggio, e riuscii a distinguere il suo fascio di vene contrarsi ancora e infine desistere. Ogni suo diniego crollò e compresi che aspettava soltanto una reazione baldanzosa da parte mia. Ormai lavevo in mio pugno.
«Guardami e dimmi cosa vedi.», riuscii a boccheggiare, in cerca di un ossigeno che non ostruisse le mie vie respiratorie.
La ragazza, che era rimasta pietrificata sotto la mia stretta ma non s’era sottratta affatto ‒ una piccola fitta di compiacimento ‒, emise un fioco rantolo e, con lentezza, si girò a fissarmi. Ammutolì impercettibilmente quando incrociò il mio sguardo ma non mollò la sfida che le avevo lanciato. Piantò le sue iridi screziate di blu sulle mie, che erano di tutt’altro colore ‒ d’oro, il loro colore complementare secondo la tavolozza dei colori. Quella tacita riflessione mi sconcertò e mi fece barcollare, tuttavia sostenni il peso della sua occhiata solenne e ignorai la tentazione di afferrarla per i fianchi e spingerla prepotentemente contro il mio corpo ‒ quella distanza era insopportabile. Se volevo conquistarla, dovevo procedere con calma. Avevo ancora la mano serrata intorno alla sua e mi ero perfino guadagnato la sua attenzione: era in quel momento che avrei dovuto giocarmela come meglio potevo. Deglutii ed esternai pacatamente parole insensate che la mia mente aveva abbinato a caso, senza che ci fosse neppure l’ombra di un barlume di buonsenso. Avvertii l’odore acre e frizzante del mio alito che sapeva di limone ‒ la caramella che avevo da poco divorato ‒ mentre iniziavo, attingendo a ogni briciolo del coraggio che segregavo nel foro che rimpiazzava il mio petto, un discorso che sperai caldamente non suonasse ridicolo o banale.
«Aldilà di quello che siamo, aldilà di ciò che ci attornia, aldilà delle emozioni che ci sopraffanno ogni secondo, noi siamo qua, vivi e splendenti di moti d’animo, di pensieri segreti e parole mai pronunciate. Siamo vivi sotto il fardello dei nostri demoni e delle maledizioni che il Destino ci ha scagliato tanto tempo fa, quando non eravamo null’altro che la promessa di una giovane vita in procinto d’esser definita. Quel processo è cominciato all’alba dei tempi e continuerà fino all’ora in cui non saremo totalmente in balia delle brutali scelte del Fato che si riverseranno sulle nostre esistenze terrene. Tutto sarà di nuovo regolato dall’ordine e nessun oblio potrà più farci affievolire dal pianeta. Appunto per questo motivo, ti chiedo di continuare a danzare, senza meditarci tanto su. Devi dimenticare la catena d’eventi che ci attendono alla deriva e persino chi appartiene al tuo affezionato pubblico, devi ballare per goderti quel poco di caos ‒ quel poco di umanità ‒ che ci è concessa prima dello scoccare dell’ora del giudizio. Sii, per una volta, l’eroina mortale che sceglie il difetto alle virtù, il mondo al paradiso, nonostante il resto. Sii l’innocente peccatrice millenaria che ci ha regalato la vita e giace ora nei nostri cuori, aspettando di essere riscattata. Sii umana
Perfetto, Falk, adesso crederà che sei completamente impazzito. In effetti, la ragazza dai capelli rossi non parve affatto scalfita dalle oscure verità che avevo appena enunciato. Pensai che con le mie predizioni avevo forse profanato il candore che circondava la sua aura costellata di bagliori stupefacenti e minuscole tracce di magia. Pensai che l’avevo già persa, conducendola al vero sapore della vita. Dopotutto, aveva solo quattordici anni ed era ancora una ragazzina appena sbocciata: non era ancora pronta per svelare gli enigmi di quel mondo criptico.
Lei sbatté le palpebre, disorientata dall’improvvisa luce che era calata su di noi, e m’elargì un gran sorriso che condannò il mio cuore a un nuovo zampillo di frenesia. Solo un istante più tardi realizzai che quel ghigno era puramente derisorio: m’osservava sempre con quella sua assurda e languida dolcezza intanto che mi sbeffeggiava dentro di sé ‒ e anche fuori, a quanto pareva. Rise finché le fu possibile, poi si ricompose con eleganza e mi fulminò con un’altra delle sue efficaci occhiatacce.  «Complimenti, De Villiers. Non avevo mai ascoltato un monologo così brillante e pretenzioso da un tizio che vuole solo rimorchiare. Ce l’hai messa tutta, devo rendertene atto.», mi schernì, divincolandosi dalle mie braccia.
De Villiers?, pensai sconvolto un secondo dopo. Come faceva a conoscere il mio cognome? Volevo porle a raffica un’infinità di interrogativi ma sapevo che il tempo ancora a nostra disposizione era contato. Articolai sulle labbra un “Chi sei?”, avido di sapere, bramoso di conoscere ogni sua sfaccettatura. Venni impulsivamente dissuaso dalle mie intenzioni nell’istante in cui incrociai il suo sguardo: gli occhi le scintillarono di divertimento prima che li distogliesse dai miei. Senza più indugiare, s’affrettò ‒ fu fin troppo rapida, a dire il vero ‒ a raccogliere la borsa che aveva gettato a terra per dedicarsi al suo svago e a montare sulla sella della bicicletta. Con il marchio del rifiuto che mi bruciava sulla fronte e un’illusione appena e crudelmente strappata dal petto, la guardai andarsene via oltre la nebbia londinese. Una fitta di rammarico mi colse quando realizzai che su un punto aveva avuto ragione: ce lavevo davvero messa tutta. Avevo sconfinato oltre i miei limiti e i miei consueti valori pur di renderla più che un’effimera eco sopraggiunta nella mia storia a trasformare il mio essere e a svanire repentinamente com’era arrivata. Non accettavo un cambiamento senza che la sua fonte rimanesse nella mia vita. Non potevo permetterlo: per una volta nella vita, il mio cuore si era schierato da una fazione ed era mio compito guidarlo verso la sua meta. Quel viaggio era appena al preludio.
Ero ancora incantato sulla sua sagoma ormai opaca dall’orizzonte quando mi risvegliai bruscamente da quello stato catatonico di rimpianto e lo scacciai definitivamente. Non mi sarei arreso così facilmente.
Dei momenti successivi ho ricordi vaghi e confusi: rammento che raggiunsi in fretta e furia il mio veicolo e cominciai a rincorrerla. Era più avanti di me di circa un chilometro ma la stavo pedinando pazientemente e instancabilmente: non avevo fretta alcuna. Dopotutto, erano soltanto le sette del mattino e, prima che a casa fosse occorso il mio aiuto, sarebbe trascorso un altro paio d’ore.
La Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco si stava addentrando verso i quartieri più rinomati del centro: interessante.
La sua folta chioma svolazzava irruentemente verso direzioni contrapposte a quelle per cui svoltava: una volta a destra e l’altra a sinistra, come a intermittenza. Riuscii a distinguere la sagoma ben proporzionata della sua schiena elegante, delimitata da spalle dritte e ben arcuate. Aveva anche un discreto sedere, per essere una ragazza in miniatura.
Il vento sferzava sugli alberi e sul mio corpo e m’accompagnava durante quell’arduo inseguimento, violando la mia pelle e lasciando invisibili segni del suo inesorabile passaggio. Le piante arboree del Green Park erano lambite dal suo burrascoso passaggio così come le mura degli edifici, che tuttavia opponevano una solida resistenza alla sua energia. La città cominciava a popolarsi: qualche operaio sfoggiava un bel corredo di sbadigli sulla soglia di casa mentre usciva per rimediare un giornale; qualcun altro s’avviava cupamente verso il pub per consumare una colazione dignitosa prima di ritornare alla pratica lavorativa; altri anziani, invece, ormai rassicurati nelle proprie bolle di cristallo, uscivano per passeggiare e oziare nei quartieri più durante il mattino, quand’erano placidi e spogli di bancarelle.
La brezza m’invitava a procedere, a seguirla come se io raffigurassi l’ombra del vento, sebbene lei si fosse ridotta ormai a una sagoma scolorita che si dilatava all’orizzonte. Pedalavo senza mai fermarmi, una spinta dietro l’altra, con il singolo obiettivo di cancellare quella distanza che cominciava in effetti a darmi sui nervi. Avevamo da poco superato il parco e la via del Piccadilly, quando abbandonammo Dover Street e svoltammo a sinistra verso il Berkeley Square Gardens. Avevo da sempre odiato le squallide rotonde della zona di Mayfair: ritenevo che facessero soltanto perdere tempo prezioso alla gente e che scombinassero l’ordine quasi completamente assente in strada.
Tuttavia, non mi diedi per vinto e proseguii il mio tallonamento, sbuffando d’impazienza ogni cento metri. A pensarci bene, ero uno stalker se pedinavo una ragazza di cui non conoscevo neanche l’identità? Lo ero se cercavo solamente di esplorare angoli di lei e portare alla luce la novella dischiusa dalla sua anima? Lo ero se perseguitavo le impronte lasciate dalla sua storia, avido più che mai di teorizzarle negli anfratti della mia mente?
Probabilmente sì. Di nuovo, ignorai tale fastidiosa insinuazione e continuai il mio percorso.
Avevamo imboccato Bourdon Street, quando realizzai che il nome di quella via aveva qualcosa di tremendamente familiare. Rimuginai a lungo, scavando negli abissi delle mie memorie alla ricerca della chiave che mi avrebbe permesso di risolvere quell’ambiguo dilemma. Non riuscivo a definire qualche particolare utile di quei ricordi fuggiaschi, però. Imprecai sottovoce.
La ragazza accostò la bici vicino a una casa che somigliava più che altro a un castello edificato in mezzo a tante piccole ville a schiera. Era maestoso, imponente, enorme: insomma, lasciava presagire che fosse il patrimonio di valore di una famiglia che viveva negli agi e nel vizio.
Tenendo una mano sul manubrio, afferrò il laccio rosso che aveva al polso e se lo portò sotto la nuca per avvolgere i suoi esuberanti capelli in una morbida acconciatura che li tenesse ordinati. Contemplai i movimenti con cui le sue dita si giostravano fra quelle ciocche rigogliose che scampavano il più delle volte la sua presa ferrea. Con un po’ di pazienza, ne uscì fuori uno chignon elegante da cui sfuggivano alcuni ciuffi ribelli e che offriva una bella mostra del suo collo esile e invitante.
La Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco si voltò verso di me, con un’espressione lieta e pacifica e per nulla sconvolta dalla mia presenza. Sfoderò un sorriso appagato che per poco non fece collassare il mio cuore, che mi stava rimbombando in gola. Deglutii, intorpidito da quella distante carezza che mi raggiungeva velatamente le membra, e continuai a osservarla cautamente mentre scendeva dal suo mezzo con leggiadria.
Lei ampliò il suo sorriso e si fermò sulla soglia del cancello del castello, indicandomi il numero civico con un cenno del capo. Bourdon Place, numero ottantuno.
Fu in quel preciso istante che ogni cosa acquisì un proprio significato compiuto. Quei capelli di fuoco ‒ che secondo i miei parenti contraddistinguevano le fattucchiere più temibili e urlanti ‒ le erano stati regalati per una valida ragione. Non era né una falsa veggente né una sociopatica da manicomio: era una Montrose ‒ era entrambe le cose. Montrose: il peggiore dei miei incubi notturni sotto le umane sembianze di una creatura così desiderabile. Montrose. Soffocai un singulto e riflettei su quella scoperta così scontata che non avevo avuto il fegato di valutare. Ecco perché mi conosceva; ecco perché mi detestava; ecco perché capelli rossi, occhi azzurri, fascino etereo... Perfino nei momenti in cui m’ingannavo d’esser normale, ero perseguitato dall’ombra del mio fardello, delle mie responsabilità. Quel dovere non poteva avere altro che un solo nome: loggia segreta del Conte di Saint Germain. Mi reclamava sin da quando ero un infante e il suo vibrante corno proveniva fin da Temple: avevo per tempo immemore declinato la loro richiesta, semplicemente perché ero ancora un bambino inesperto e sarei stato più un fastidio che altro. Invece ora avevo sedici anni e il mondo intero era destinato a evolversi ‒ a partire dal mio mestiere.
Il mondo mi crollò addosso mentre ogni mio proposito veniva gradualmente polverizzato ‒ “porterò io il tuo mondo[1] ‒ sotto la sordida realtà dei fatti che lei mi aveva gentilmente esposto ‒ “il tuo è già abbastanza pesante”.
Seppi, in quell’istante intriso della dannazione dell’Inferno, che ero fottuto ‒ così come il mio cuore e la mia razionalità. La mia aria interdetta parve rallegrarla, dato che i suoi occhi già sfolgoranti di loro s’accesero di un sadico compiacimento. Con una mano afferrò qualche assurdo aggeggio dei suoi e lo mollò a terra, sempre con gli occhi immobili sui miei.
Non diedi adito al moto di vorace curiosità che mi sopraffece e non staccai lo sguardo dal suo ‒ ciano contro giallo. I suoi occhi riflettevano del colore dei miei, creando un adorabile contrasto fra pagliuzze ambrate e quelle azzurre. La nostra breve fusione mi disorientò e mi portò a serrare le palpebre per trovare un rifugio, una tregua; quando li riaprii, la Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco stava armeggiando con il campanello di casa e non mi guardava più.
Non appena percepii le isteriche urla della mia coetanea Glenda da una delle finestre socchiuse ‒ “Muoviti, carogna, sei in ritardo ed è il tuo turno in cucina!” ‒ riconobbi che era il momento giusto per squagliarmela.
In fretta e furia, raccolsi il pegno che m’aveva offerto quella giovane Montrose e svanii insieme al vento.
 
 
 
 
2012.
 
Un asso di picche.
Erano ormai anni che mi rigiravo quella carta fra le dita, avido di carpirne i segreti e di tradurre il suo significato in qualche sentenza umanamente comprensibile ‒ era tipico di Grace, celarsi nella criptica nebbia della magia.
Avevo scoperto dopo breve tempo dall’acquisizione del mio nuovo asso che quella ragazza non era mai stata una sconosciuta: l’avevo già intravista tante di quelle volte, negli anni precedenti, che non riuscii a capacitarmene di come non l’avessi identificata da subito. All’epoca era solo una bambina, che scorrazzava nei corridoi per mano a Lord Montrose e che squadrava con gran curiosità ogni angolo della Loggia. Rossa di capelli, con gli occhi blu e quell’aria deliziosamente irrisoria: Grace Montrose non era per nulla cambiata, con il trascorrere del tempo.
Da anni a quella parte, solevo sedermi sulla mia scrivania di Gran Maestro ‒ una postazione cambiata spesso nel corso degli anni e stabilizzatasi soltanto dopo la morte del mio predecessore ‒ e ascoltare i sussurri che effondeva nell’aria il rilievo color ebano della picca.
Quella non era altro che la prima delle carte che avevo man mano collezionato durante la mia travagliata relazione con Grace Montrose. Come avevo già profetizzato in quel primo incontro, si trattava di una donna ossessionata dal misticismo filosofico e dall’alchimia. Una fattucchiera. Non si era rivelata una sorpresa per la mia esperienza sociale, dunque: l’avevo già ampiamente catalogata.
Sorrisi al pensiero ‒ avevo avuto ragione fin da subito ‒ e gettai la carta fra le altre: avevo raccolto oltre a essa un asso di fiori e un asso di quadri, sempre della stessa fabbrica. Ironia del destino: l’unico che mi mancava era quello di cuori.
Almeno non è un due di picche.” Queste erano state le tiepide parole di mio nonno Kenneth ‒ che sia benedetto in cielo ‒ quando m’aveva visto arrivare a casa con un’espressione inorridita e una carta da gioco in mano,tanti anni prima. All’epoca avevo interpretato quella carta come un ammonimento negativo, come il simbolo della disillusione e della rottura dei miei sogni. Grace Montrose mi aveva suggerito di finirla lì e di non continuare a vederla, neppure di nascosto, e fine.
Riconobbi soltanto l’anno seguente ‒ dopo una serie di indizi da parte sua ‒ che avevo frainteso le sue intenzioni: quello non era un categorico rifiuto bensì un invito alla sfida di conquistarla. Il primo degli assi: un’esortazione a procedere con il gioco. Un moto d’ira mi sfigurò i lineamenti quando rimuginai su quel tira e molla che si era protratto per anni e sulla disonorevole fede al suo indice quando aveva scelto Nicolas a me.
Grace Montrose non era stata altro che una truffatrice, in special modo nelle sue stesse sfide: aveva imbrogliato i partecipanti approfittandosi dei loro momenti di debolezza e ferendo più intensamente di qualsiasi lama ‒ spezzando un cuore innocente che le era da sempre appartenuto.
Rammentai la cieca rabbia, il sordido rancore, l’odio avvelenato che avevo serbato verso l’unico amico che mi era sempre stato accanto e che mi aveva fregato la ragazza anni prima.
La realtà era che la colpa era stata sempre e solo sua, che s’era rannicchiata in disparte e aveva permesso che due amici per la vita s’accanissero per il suo amore. Avevo perso tutto, in quei brevi frammenti di vita: amicizia, amore, gloria e speranze ‒ tutto infranto, tutto sepolto al di sotto di un cumulo di cenere. Mio padre aveva avuto ragione, a redarguirmi sull’amore di una donna.
La verità era che ero stato ammazzato dalle stoccate inferte da Grace a suo tempo e che ostentavo risolutezza nella speranza che qualcosa stavolta mutasse. La verità era che quella benedizione ancora mi regalava la speranza. La verità era che mi mancava soltanto l’asso di cuori.
Mi alzai dalla sedia e sbatacchiai la porta alle mie spalle con rabbia.
Forse adesso è lora di vincerlo, questo gioco.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Red/Blue/Green / Vai alla pagina dell'autore: Mary_la scrivistorie