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Autore: SagaFrirry    20/08/2016    1 recensioni
Hope è una ragazza apparentemente normale. Venuta a sapere del malessere dello zio, decide di tentare l'impossibile: riunire la famiglia. Essa è a dir poco originale, piena di dissapori e soggetti pittoreschi. Riuscirà la Speranza a far trovare un accordo alla "famiglia più importante del Mondo"?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I

 

 

Kilkenny, Irlanda

 

Abbandonando Michael Street, lungo John Street Lower, una giovane soprappensiero si stava avviando verso casa. Era già calata la sera e il consueto vento d’Irlanda soffiava, gelido e costante, raffreddando l’aria. Era inverno inoltrato. Gennaio era volto al termine ed iniziava febbraio, e il Sole era tramontato da qualche ora.

Lei si soffermò su John’s Bridge, guardando l’acqua del fiume Nore ed ascoltandone il rumore. Stringeva il lungo cappotto nero con le mani e sospirava. Era in una di quelle giornate in cui provava nostalgia e sentiva in modo più forte la solitudine. Riprese il suo cammino, accelerando il passo dato il lungo tragitto che doveva ancora intraprendere per giungere a destinazione.

I suoi stivali, con un leggero tacco, producevano un rumore ritmato lungo la strada lastricata.

Si lasciò alle spalle il castello di Kilkenny e giunse all’ingresso di Abbey Street. Lì, come sempre, si ammassava l’unica folla che incontrava ogni sera sul suo cammino. Lungo la via non incrociava quasi mai qualcuno ma lì trovava sempre i clienti dei tre locali più famosi della città. Continuò a camminare tranquilla, nonostante tutti i loro sguardi. Si specchiò in una delle vetrate del Pub all’angolo e si chiese perché tutto questo interesse ad ogni suo passaggio. Non riusciva a capirlo, e nessuno in tutta Kilkenny lo capiva.

Era una ragazza normale, nella media: altezza media, nessun dettaglio particolare come gambe particolarmente lunghe o seno abbondante, vesti sobrie e mai troppo corte e nessuna abitudine degna di nota. Era una persona tranquilla, fin troppo riservata e, a suo dire, con un pessimo carattere. Quella sera, quando passò, tutti gli sguardi furono su di lei nonostante il forte vento, che aveva scompigliato i suoi lunghi capelli rossicci e dritti, e il suo sguardo scocciato. Forse era quello che attirava tutti, uomini e donne. I suoi occhi erano di uno splendido azzurro, che lei si vantava di aver ereditato dal padre. Erano di un colore così splendido da far invidia alla volta del cielo. La giovane cercava sempre di nasconderli, dietro a degli occhiali da Sole o delle lenti, ma erano così luminosi da essere quasi impossibili da celare.

Il ticchettio dei suoi stivali accompagnò il suo cammino, assieme al fruscio dei jeans, fino all’ingresso del condominio dove risiedeva, lungo Abbey Street. Era un edificio anonimo, senza niente che lo distinguesse dagli altri in schiera lì accanto. Tipicamente irlandese come architettura e impostazione aveva, all’ingresso, cinque scalini in pietra che conducevano alla porta in legno scuro, chiusa solo nelle ore notturne. Lasciandosi alle spalle gli sguardi ed i commenti, la ragazza si avviò lungo le scale. Nemmeno guardò all’ingresso se c’era qualcosa per lei nel portalettere: lei non scriveva a nessuno, nessuno scriveva a lei. E le bollette arrivavano tutte all’amministratore.

Contenta solo per il fatto di non aver preso la pioggia, giunse all’ultimo piano dove stavano due piccoli appartamenti. Non accese la luce lungo il corridoio e inserì la chiave nella serratura.

La porta non si aprì. Accadeva piuttosto spesso a causa dell’usura. Era un edificio vecchio e malandato in cui nessuno dei coinquilini aveva disponibilità economiche a sufficienza per mettere a posto qualcosa, salvo l’indispensabile. Sbuffò, spingendo la porta che scricchiolò ma non si aprì, ruotando gli occhi verso il cielo e verso la terra, non sapendo a chi di preciso dar la colpa delle sue disgrazie. Con un ghigno d’ira prese a calci l’uscio di legno, rischiando di farci un buco, finché non avvertì una presenza alle spalle. Si girò di scatto, pronta a reagire, ma si sentì dire di stare tranquilla. Era il suo vicino di pianerottolo, evidentemente uscito sul corridoio sentendo troppo rumore. Era un giovane sui venticinque anni, molto alto e coi capelli scuri.

“Tranquilla. Sono io” ridacchiò il ragazzo. “Serve una mano?” chiese, educatamente.

“No” affermò lei, convinta.

Ma lui diede un deciso strattone alla porta e questa si aprì.

“Capita anche alla mia, a volte” disse sorridendo.

Lei lo fissò, con fastidio, e fece per entrare. Ma lui la guardava, come in attesa di qualche cosa.

La ragazza rimase un attimo senza capire, poi mormorò un “Grazie” poco convinto e iniziò a chiudersi la porta alle spalle.

“Posso sapere come ti chiami? Da tanto vivi qui ma non ho mai saputo nemmeno il tuo nome” azzardò lui, continuando a mantenere sul volto un sorriso ebete.

“Ci conosciamo?” sbottò lei “Ci conosciamo, per caso, che mi dà del Tu?”.

“No…in effetti, no” ridacchiò, imbarazzato, il giovane “Appunto per questo ti chiedo come ti chiami. Così ci conosciamo e posso darti del Tu”.

Lei rimase in silenzio.

“Io sono Andres. Piacere. Tu?”.

Altro silenzio. Lei notò la sciarpa bianca che lui portava nonostante fosse in casa.

“Hope. Mi chiamo Hope” rispose lei, dopo un po’, con un tono piatto e infastidito.

 Era sempre sconcertata davanti alle persone che danno tanta confidenza a perfetti estranei.

“Piacere Hope! Che splendido nome!”.

“Sì, sì” tagliò corto la ragazza “Ora scusatemi ma dovrei mettermi in contatto con mia cugina”. “Cugina? Allora hai dei parenti…”.

“Ovvio! Potete lasciarmi entrare e vivere la mia vita?”.

“È che mai nessuno ti è mai venuto a trovare. Non ti arriva posta, non hai mai ospiti. Nessun amico, nessun fratello o genitore…”.

“Sono forse affari Vostri?”.

Lei stava perdendo la pazienza. Il giovane allora si arrese. Salutò con un poco formale “Ciao”.

“In realtà, mio vicino di pianerottolo, io sono una killer e devo celare la mia vera identità e nessuno sa esattamente dove abito”.

Ci furono parecchi secondi di silenzio assoluto. Poi Hope si mise ridere, mostrando uno splendido sorriso, e rassicurò il suo vicino dicendogli che era uno scherzo. Rientrò in casa lasciando Andres solo, lungo il corridoio, non molto convinto che fosse tutto uno scherzo.

Hope sbatté la porta. Che fastidio quando qualcuno si intrometteva nella sua vita!

Non accese la luce della cucina, che fungeva anche da salotto, sapendo benissimo che non si sarebbe accesa mai, dato che era fulminata da giorni. Spalancò la finestra, salutando educatamente i piccioni, per far entrare un po’ d’aria. Notò quanta polvere ci fosse in quella stanza ma ignorò temporaneamente la cosa. Non era un grande sforzo pulirla tutta. Casa sua era carina ma piccola. Troppo piccola. Insufficiente per la grande quantità di oggetti che possedeva.

Scavalcò una pila di libri e andò in camera. Si stese sul letto e accese il computer portatile.

Sua cugina le aveva inviato un messaggio sul cellulare quella mattina, avvertendola che le avrebbe spedito una e-mail. Hope conosceva bene sua cugina e sapeva che, se la cercava, era solo per chiederle qualche cosa, tipo un favore o un prestito.

Mentre il piccolo portatile si avviava, lei volse lo sguardo al soffitto, dove notò un alone d’umidità in uno degli angoli. Colpa dei lavori, troppo a lungo rimandati, che necessitava il tetto. Lei aveva la sfortuna di abitare all’ultimo piano e tutto il condominio voleva accollare a lei, e al suo compagno di corridoio, tutte le spese. Ma lei non ne aveva nessuna intenzione, anche perché non stava mai troppo tempo nello stesso posto e quindi, probabilmente, presto avrebbe cambiato domicilio lasciando nell’appartamento solo gli oggetti che non poteva portare con sé. Non era un problema pagare l’affitto per quattro o cinque appartamenti in cui tornare, di tanto in tanto, nel caso le servisse qualcosa che si era lasciata indietro. Il suo sogno era comprarsi una bella casa grande ma al momento non aveva trovato il luogo adatto. Rifletté sulla possibilità di lasciare Kilkenny, pur amandola molto, e di spostare un po’ delle sue cose dove si trovava ora. Spostarle dal suo loft in affitto a Londra, città troppo caotica per i suoi gusti, fino a lì. Così facendo si sarebbe liberata dall’affitto mensile più costoso.

Sospirò pensando al fatto che apparteneva ad una della famiglie più importanti del Mondo, se non la più importante, ed era costretta a quel tipo di vita.

Lasciò che il computer si connettesse ed entrò nella sua casella di posta. C’era un messaggio solo, come si era aspettata, di sua cugina. Lo aprì e lo lesse attentamente.

Si alzò e si mise a fare le valige, pur non avendo tante cose indispensabili da portarsi dietro. Sua cugina le aveva dato il pretesto definitivo per lasciare Kilkenny. Un rapido giro su Internet per prenotare il viaggio e poi spense il Pc. Faceva parte delle cose indispensabili.

Era un po’ delusa. Non riceveva mai notizie dai parenti se non in caso di bisogno ed era certa, per comprovata esperienza, che se fosse stata lei quella a necessitare aiuto non ne avrebbe ricevuto.

Pensò di contattare per telefono la mittente del messaggio ma calcolò rapidamente il fuso orario e decise di lasciar perdere. Laggiù era quasi l’alba e di sicuro non le avrebbe risposto. Provò allora a cercare qualche altro consanguineo.

Afferrò il cellulare, piccolino e senza suoneria, al quale giungevano principalmente solo messaggi di pubblicità o d’avviso che da troppo tempo non ricaricava.

Per primo chiamò suo padre. Ma, ovviamente, una vocetta metallica e pre-registrata le comunicò che l’utente da lei richiesto non era al momento disponibile. Inutile lasciare un messaggio in segreteria perché tanto lui non li ascoltava mai. Altrettanto inutile era mandargli un sms perché al padre bastava leggere il suo nome per non rispondere. Probabilmente nemmeno li apriva i suoi messaggi! Probabilmente l’aveva salvata come “rompina” o cose simili. Probabilmente non pensava mai a lei. Probabilmente. Odiava le probabilità!

L’unico modo per parlarci era iscriversi con falso nome a qualche chat ed andarlo a cercare. Ma dopo un po’ capiva il trucco e toglieva la connessione.

Provò allora a chiamare l’altro suo cugino, attualmente in America, che però lasciò squillare il telefono a vuoto. Esasperata, Hope infilò l’apparecchio in tasca e finì di preparare le valigie.

Non provò nemmeno a contattare suo fratello perché attualmente si trovava in Nepal, fra le montagne più alte del Mondo, in cerca di pace ed illuminazione mistica, senza nessun contatto con l’esterno. Da tantissimo non aveva sue notizie e lei aveva la certezza che tutte quelle balle sul fatto che i gemelli fossero in costante contatto non avevano alcun fondamento. Non aveva proprio idea di che combinasse il suo gemello lassù, ai confini con l’India, in mezzo al nulla, e se stesse bene. Trovava divertente che proprio lui, il pupillo e figlio preferito di papà, avesse deciso di vivere in quel modo. Lo trovava ironico. A quanto pare il bambino perfetto che il padre tanto amava non sarebbe mai diventato come il genitore aveva sempre desiderato.

“Chissà cosa direbbe la mamma sapendo tutto questo” si chiese la giovane “Chissà cosa direbbe la mamma sapendo che il suo bambino sta in mezzo al nulla in cerca di se stesso e cresce così diverso dal padre”.

Se effettivamente era “diverso” il termine da usare…

Ma non avrebbe mai potuto sapere i pensieri della madre. Sua madre non c’era più. Era morta. Anche se suo padre non si rassegnava e continuava a cercarla, ritrovandola in qualche volto sconosciuto ed estraneo, che nulla aveva a che fare con la sua consorte, non l’avrebbe più incontrata.

Hope era arrabbiata. Anche lei avrebbe voluto sparire nel nulla come il fratello, ma il suo modo di pensare la spingeva a tentare di mantenere vagamente unita la famiglia. Doveva raggiungere la cugina dall’altra parte del Globo per aiutarla. Suo padre, lo zio di Hope, aveva seri problemi di salute e quindi le due parenti avevano deciso di incontrarsi in cerca di sostegno.

“Ma non sarebbe stato meglio il sostegno di tutta la famiglia?” si chiese la giovane di Kilkenny. Sapeva che era impossibile. Da molto, moltissimo tempo, la famiglia non si riuniva.

Nella maggior parte dei casi Hope non aveva insistito ma QUEL caso era diverso. Era decisa, nell’eventualità che suo zio stesse davvero male, di ricercare, scovare e riunire tutti i parenti sparsi e menefreghisti, pur sapendo quanto difficile sarebbe stato!

Strinse i denti, legò i capelli a riflessi rossi per proteggerli dal vento, infilò il cappotto nero, gli stivali e partì. Con una valigetta piccola e poco ingombrante si avviò verso la stazione dei treni.

Da lì sarebbe arrivata in poco tempo a Dublino, all’aeroporto. Senza voltarsi indietro, pur conservando la solita, bruciante, sensazione nostalgica, lasciò Kilkenny per arrivare in Australia.

   
 
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