Sì,
lo so.
Il vostro primo pensiero sarà: “No,
un’altra fanfiction su Ulquiorra. Ma non si
è stufata di leggerne, ché se ne vedono tante di
questo periodo?”
La risposta
è no. Potevo lasciare morire il Cuarto Espada
senza dedicargli qualcosa?
Ovviamente
no.
In esclusiva
solo per voi la vita umana di Ulquiorra Schiffer, con retrogusto
UlquiHime.
Spero sia
di vostro gradimento ^^.
Baci e un
grazie in anticipo.
Marti
Disclaimer:
i personaggi non sono miei, ma appartengono a Tite Kubo.
Così come il titolo di
questa fanfiction non è di mia invenzione, ma è
il nome del gruppo che ha
scritto la canzone in fondo pagina, “Short Stories With
Tragic Endings”. Perché
io faccio le cose al contrario, invece del titolo della canzone metto
il nome
della band xD.
From
Autumn
to Ashes
di
DarkMartyx_93
L’aveva
visto molte volte sedere in riva al lago a guardare
la cascata. Nascosta dietro a un albero e celata dai cespugli di more,
osservava quel ragazzo smilzo e pallido che dondolava i piedi a
sfiorare
l’acqua fredda del piccolo lago, chiedendosi cosa trovasse di
speciale in
quello strano passatempo. Passavano le giornate così, lui a
fissare lo specchio
d’acqua e lei a fissare lui. Non sapeva cosa la spingesse di
preciso a una
simile azione; forse era solo curiosità.
Heinrich
Schiffer era orfano e
viveva con la nonna.
Era da sempre stato evitato giù al paese: forse per la sua
passione per il
bosco di notte e per gli animaletti che escono fuori al buio, forse per
i suoi
stranissimi occhi verde scuro o i suoi capelli neri come il carbone,
forse per
il suo carattere taciturno e solitario. Non aveva mai fatto niente di
male, ma
sembrava odiato da tutti per la sua stravaganza.
–
L’altro giorno – aveva detto una volta la madre
della
bambina, con tono indignato – è tornato a casa
tardissimo. Era buio e sua
nonna, pover’anima, stava per svenire di crepacuore. E cosa
le ha portato? Un
pipistrello! Cosa ha fatto quella donna disgraziata per avere un nipote
così?
Da parte sua,
non ci vedeva niente di scandaloso nel
tornare a casa di notte fonda e con un pipistrello tra le mani. Non
erano poi
animali così brutti. Era infastidita da tutto
quell’astio irrazionale.
Tuttavia
provava come un senso di attrazione verso quel
ragazzino così distante. Di timore e soggezione. Non poteva
impedirsi di
osservarlo, per quanto cercasse di distoglierne lo sguardo.
Purtroppo, non
era molto abile negli appostamenti. Il
bambino si era accorto da un pezzo di quella spia maldestramente
camuffata.
Aspettava che se ne andasse via, per poter riprendere la sua
contemplazione in
pace.
Però,
lei non accennava a muoversi.
Cominciava a
spazientirsi, per quanto autocontrollo avesse:
una caratteristica incredibile, per un ragazzino sui quindici anni.
Così,
voltandosi lentamente, puntò i suoi occhi smeraldini verso
quelli della
coetanea.
–
Hai paura di me? – domandò tranquillamente, come
se le
avesse chiesto che ore erano. Lei si irrigidì e
cercò di mimetizzarsi con il
sottobosco. Impossibile, con quel vestitino a disegnini rossi,
realizzò furiosa
con se stessa.
– Ti
ho vista. È inutile che ti nascondi. Hai paura di me?
– ripeté ancora.
La bambina
uscì circospetta dal suo nascondiglio.
–
I-io? No! – balbettò. Heinrich si girò
di nuovo. Inutile
perdere tempo con chi lo considerava un mostro. Era sempre una
delusione.
Erano capitate
altre volte situazioni come quella; di
solito quello era il momento in cui l’osservatore, scoperto e
irritato, fuggiva
via, cercando di non farsi vedere. Invece stavolta, con moderata
sorpresa, udì
dei passi impacciati che si avvicinavano. La bambina gli stava venendo
incontro, incespicando sugli arbusti e sulle erbacce.
–
Perché mi vieni vicino se hai paura di me? –
chiese con
tono meravigliato.
– Mi
sembra di averti detto… che non ho paura di te –
rispose lei, sbuffando per la fatica. Quando raggiunse il suo
obbiettivo, si
lasciò cadere sull’erba e lanciò
un’occhiata audace al viso del tanto temuto
Schiffer, sentendosi ardita e temeraria.
I suoi occhi
erano ancora più verdi di quanto pensasse.
–
Perché sei qui? – domandò Heinrich.
–
Perché… perché è un bel
posto – rispose lei nervosamente,
dopo una breve riflessione. Il silenzio scese tra i due.
–
Oh, scusa! – fece lei all’improvviso, diventando
rossa.
–
Che c’è? –
s’informò lui, sempre più sconcertato.
Certo
che quella bambina era piuttosto esagitata.
–
Non mi sono neanche presentata! Io sono Hanna. Hanna
Liebe. E… tu?
–
Heinrich – disse lui laconicamente. Ennesima pausa.
–
Perché stai sempre da solo? – chiese ancora Hanna,
mangiandosi le parole per quanto le aveva dette velocemente. Heinrich
stava per
prendersi un colpo. Controllato sì, ma fino ad un certo
punto.
–
Perché mi piace.
– Ah.
Silenzio.
–
Perché mi segui?
Colta alla
sprovvista, la ragazzina arrossì furiosamente.
Perché proprio quella domanda?
– Ma
io non stavo seguendo…
– La
scusa del paesaggio è superata. Perché mi segui?
La bambina si
stropicciò le mani sudatissime.
–
Perché… perché… sei
curioso. Ecco… interessante.
–
Interessante? – fece lui, perplesso. Di tutti gli
aggettivi che gli erano stati attribuiti nel corso della sua vita,
“interessante”
era l’unico non presente nella lista.
–
Be’, no… ecco… diciamo che…
– Profondo sospiro. – Ecco…
–
Calma – la fermò lui, stupito da tanta titubanza
– Se non
riesci a dirlo, non fa niente.
Hanna
pigolò un “grazie” e cadde nel mutismo
più completo.
Lui si sentiva
stranamente protettivo verso quella bambina
così sperduta e disorientata. Così, dopo un
po’, propose:
–
Andiamo a fare un giro qui intorno?
Lei
alzò gli occhi stupita.
–
Qui intorno?
–
Sì. Ci sono un sacco di animali. Però non i
pipistrelli,
stai tranquilla. So che alla gente in paese non piacciono.
–
Oh, a me sì! – lo assicurò in fretta la
bambina. Con suo
sommo stupore, Hanna vide un leggero sorriso aprirsi su quelle labbra
smorte.
–
Dai, andiamo.
Heinrich
Schiffer.
I suoi
genitori erano morti.
Viveva con suo
nonna, ma lei non gli voleva bene, perché
aveva paura di lui.
Anche la gente
del paese aveva paura di lui, perché lo
giudicavano strano e troppo taciturno.
Per questo era vissuto fin da sempre da solo.
Pazienza. Pace
all’animo loro.
Però,
adesso aveva trovato qualcuno che cercava di
avvicinarsi a lui.
Anche lei
aveva paura, ma, comunque, lei gli stava vicino.
Un notevole passo in avanti.
Le porse la
mano per aiutarla ad alzarsi. Hanna si accorse
con grandissima confusione che riusciva a sollevarla senza nessuno
sforzo. Dove
la teneva tutta quella forza?
Mentre si
rizzava in piedi, un raggio di sole colpì i
capelli di lei: Heinrich restò sorpreso nel notare i
riflessi dorati che
percorrevano le sue ciocche, ondulate come flutti di un fiume agitato.
Sorridere gli
riuscì piuttosto naturale.
Heinrich
Schiffer.
Ora ha
ventiquattro anni.
I suoi
genitori sono ancora morti. Con loro, è morta anche
sua nonna.
Però
ora non è più solo: ha una moglie che lo ama e
una figlia.
Una bimba
dagli occhi verde smeraldo e i capelli castano
dorato.
È
finalmente felice.
Ma
c’è una spina nel fianco che lo tormenta: la gente
continua ad avere paura di lui.
Si reca dalla
fruttivendola giù in paese; la vecchia lo
guarda con la coda nell’occhio. Lungo le strade, i ragazzini
si fermano e lo
fissano, mormorando a bassa voce. Stufo e desideroso di
tranquillità, convince
la famigliola a trasferirsi: sceglie di vivere in una casetta nel
bosco, in
mezzo a quella natura che lui ama tanto. Ma in paese, ogni tanto, ci
deve
tornare: e via, di nuovo con i sussurri e i silenzi improvvisi. Lui ci
soffre,
ma non dice niente.
Hanna e la
loro bambina, Engel, lo sanno, ma non sanno che
fare.
A parte
questo, alla fine era felice.
Ma aveva
trascurato due piccoli particolari: insignificanti
se presi da soli, distruttivi se accostati l’uno
all’altro.
Il primo:
viveva in Baviera, nella Germania del 1939.
Niente di preoccupante.
Fino a quando
non si sa che Hanna era ebrea.
Lui ne era a
conoscenza, ma non gli importava, nonostante
tutta la propaganda antisemitica. L’unica cosa che gli
importava, e che lo
riempiva di gioia, era che Hanna sembrava non avere paura di lui, anche
se non
ne era pienamente convinto.
Aprile 1945.
La foresta era
insolitamente tranquilla. Gli uccelli non
cantavano, il suono delle foglie era attutito, come se temessero di
disturbare
qualcuno. Il cielo, grigio di nuvole, mandava una luce debole
attraverso
l’intrico dei rami. Heinrich, però, girava
tranquillamente in cerca di legna:
la primavera era vicina, ma le notti erano comunque fredde. Engel era
di salute
delicata e non era il caso che si ammalasse di tisi, non dopo aver
trascorso
l’inverno senza problemi.
Anche il paese
era silenzioso. Il giovane uomo ricordava
come, negli anni passati, il vociare delle donne, gli strilli dei
bambini e le
risate degli uomini si infiltrassero attutiti attraverso gli alberi.
Ma, lo
sapeva, la guerra aveva cambiato molte cose.
L’eco
delle battaglie non arrivava fino a lui, isolato
nella sua piccola abitazione immersa nel verde rassicurante degli
alberi. Ogni
tanto giungeva il suono fievole di una bomba, lo sparo solitario di un
fucile, l’ordine
smorzato di un soldato: nient’altro. Aveva solo una debole
eco delle leggi
razziali, della persecuzione degli ebrei e, tranquillizzato dalla
lontananza
dai centri abitati, non si sentiva minimamente minacciato.
Mentre
camminava, udì un suono di passi irregolari e
pesanti che si avvicinavano. Istintivamente, si irrigidì
cercando di risultare invisibile
nella vegetazione. Poco dopo, scoprì la fonte del rumore:
uno degli uomini del
paese che arrancava tra gli arbusti goffamente, come se zoppicasse. Lui
uscì
allo scoperto, moderatamente preoccupato verso la salute
dell’uomo.
–
Hans, cosa ti è successo? – chiese, poco
interessato. Con
un lampo di terrore, il contadino alzò lo sguardo su di lui.
Ma, con sua grande
sorpresa, Heinrich si rese conto che non era lui la fonte di paura:
infatti, i
suoi occhi, invece di spalancarsi e riempirsi d’odio, come
accadeva
normalmente, si tranquillizzarono quando lo riconobbero. Non era mai
successo.
L’inquietudine cresceva.
–
Heinrich, sei tu! – disse concitatamente Hans –
Scappa…
Ora Heinrich
non lo stava più ad ascoltare, perché correva.
Dimenticò
all’istante Hans e la sua gamba ferita: correva
come mai nessun uomo sarebbe mai riuscito a fare. Quelle parole
smozzicate avevano
avuto su di lui un effetto incredibile e gli avevano procurato la
più grande agitazione
mai provata in vita sua. Cercava di aumentare l’andatura, ma
l’ansia gli
mozzava il respiro; le sue gambe erano coperte di graffi e dalle ferite
colava
sangue scuro.
Cercava di
realizzare ciò che aveva appena sentito. Non
riusciva a credere che il destino li avesse risparmiati per tutti quei
sette
anni di guerra e che solo in quel momento reclamasse la sua famiglia
come
vittime sacrificali, feroce e selvaggio come un dio pagano. Il suo
cuore stava
per scoppiare; si spronava a correre ancor di più, per
arrivare prima dei
soldati. Flash di due corpi riversi al suolo lampavano nella sua mente,
auto rassicurazioni
lo calmavano e lo spronavano ad andare più veloce; non
sentiva più le gambe, le
braccia si muovevano convulsamente avanti e indietro per darsi
più slancio. Non
ricordava molto del tragitto di ritorno a casa. Rammentava solo che le
piante
lungo il sentiero gli intralciavano il passo e sembravano aumentare,
come per
fermarlo e portarlo in salvo.
Ma era troppo
tardi. I soldati erano già arrivati.
Con furia,
piombò dentro casa sua: in un attimo, registrò i
due soldati che tenevano Hanna per le braccia, i suoi occhi ostili, la
sua
bambina terrorizzata raccolta in un angolo il suo pianto supplichevole:
–
Mamma! Mamma! – invocava.
–
Fermi! Lasciatela andare! – gridò Heinrich,
gettandosi
sui due soldati. Alle sue spalle ne apparve un terzo che lo
agguantò per le
spalle, ma lui si dimenava talmente tanto che il secondo milite dovette
sbrigarsi per andare ad aiutarlo. Anche così, mostravano
parecchia difficoltà nel
frenarlo.
L’ultimo
dei tre, che aveva assistito distaccato a tutta la
scena, si spostò per mettersi faccia a faccia con quella
furia. Heinrich notò
le due stelline d’oro che recava sulla spallina e che lo
qualificavano come un oberleutnant, un
tenente. Si fissavano
con avversione.
–
Heinrich Schiffer, giusto? – domandò, sapendo
già la
risposta – In paese mi hanno detto che si chiama
così.
Silenzio
tenace.
–
Lei sa che questa donna è ebrea? – chiese con
freddezza quello
che sembrava il primo ufficiale. I suoi occhi azzurri lampeggiavano di
disgusto
in quelli furenti di Heinrich.
–
Lasciatela! Lasciatela immediatamente, o io…
–
Accoppiarsi con una creatura appartenente ad una razza
inferiore è reato, lo sapeva? – domandò
ancora il tenente sconosciuto,
ignorando ciò che diceva. Ma nemmeno lui lo ascoltava,
cercava solo di svincolarsi
dalla presa dei due nazisti per poterlo assalire.
L’ufficiale
lo osservò impassibile, quindi, dandogli le
spalle, si voltò verso Hanna e le sputò in faccia.
–
Feccia – mormorò sprezzante – Morirai
seduta stante: la
tua vita è un insulto al Reich.
Heinrich ormai
era indomabile, urlava il nome di sua moglie
e si stava per liberare, quando, inaspettatamente, lei sputò
in faccia al tenente.
Il milite si ritirò infuriato, mentre si toglieva
convulsamente la saliva di
quell’essere indecente come se gli avesse ustionato la pelle.
–
Sei impazzita? – gridava Heinrich – Così
ti uccideranno!
Scappa!
–
È inutile. Non riusciremo a scappare. Tanto vale morire a
testa alta.
Hanna
alzò lo sguardo su suo marito e sulla sua bambina,
che la guardava atterrita da tanta audacia. Sapeva che quegli uomini
cattivi
odiavano gli ebrei e considerava l’azione di sua madre
un’autentica pazzia.
L’espressione
della donna era stato qualcosa di dilaniante
che si era impresso a fuoco nella memoria di Heinrich: gli occhi,
specchi di
sconfitta, erano spenti, tranne per le lacrime che avevano avvolto il
marrone
dei suoi occhi in una pellicola lucente. Il suo viso sembrava dire:
è finita. È
stato bello, ma ora è finita.
Era straziante
osservare quel viso che aveva amato nei
tempi felici; il suo pianto trattenuto lo faceva sentire un verme per
la sua
impotenza, i suoi occhi disperati erano un pugno nello stomaco e tutto
nel proprio
essere lo insultava, lo accusava di essersi adagiato troppo sugli
allori, gli
gridava che era un idiota, un debole, perché non riusciva a
liberarsi per
correre da lei e per portarla via da lì, lei e la sua
bambina, sane e salve. La
sua impotenza gli corrodeva le carni.
Un respiro si
spezzò mentre lei cercava di parlare ancora,
mentre stava per dire le più belle parole che lui avrebbe
mai sentito in tutta
la sua vita.
–
No, non ho paura di te. Non ne ebbi quel giorno al lago e
non ne ho neppure adesso.
Heinrich smise
di dibattersi, come folgorato. Per la prima
vola nella sua vita, sentì le lacrime pizzicargli sotto le
palpebre.
– Il
tempo che abbiamo passato insieme è stato breve, ma io
non provo nessun rimpianto; tanto, sarei morta comunque. Era solo
questione di
tempo, poco tempo, prima che mi trovassero.
Fece una
pausa. Riprese fiato.
– Ti
prego, cerca di salvare almeno te ed Engel. Vi voglio
sapere vivi.
La sua voce
era implorante. Il labbro dell’uomo tremò.
–
No, Han…
Sparo.
Sparo secco,
sparo improvviso.
Un buco rosso
tra le sopracciglia di Hanna, dal quale
sgorga un fiotto di sangue che le inonda il viso.
La sua
espressione vuota mentre si accascia al suolo.
E non gli
hanno nemmeno dato il tempo di pronunciare il suo
nome.
–
HANNA! – ruggisce.
–
Mamma! – grida sua figlia, gettandosi a corpo morto sul
cadavere della madre, dimentica della paura. Non ci arriverà
mai: un altro
sparo esplode, preciso sulla sua schiena. Mentre muore, crolla sul
petto
materno, senza nemmeno un lamento: un’altra espressione
vuota; però, stavolta,
è sorpresa.
Ecco, ora ha
davvero perso tutto.
–
ENGEL! HANNA! – urla, mentre si libera dalla presa dei
tedeschi. Molla un pugno ad uno dei sue. Si sente uno scricchiolio
sinistro: la
mascella del soldato si frantuma.
Cerca
l’oberleutnant,
quello che ha trucidato la sua famiglia, quello che ha sparato e che
ora lo
fissa con lo stesso sguardo glaciale di prima. Tiene ancora il braccio
teso,
dalla canna della pistola si leva un filo di fumo.
–
TU! BASTARDO! – grida, lanciandosi su di lui caricando il
pugno. I suoi occhi scintillano d’odio e orrore, mentre
emette suoni
inarticolati e selvaggi, come un animale.
Parte un altro
sparo, l’ultimo che sentirà. Ora non sente
più il dolore all’altezza del cuore, ma solo
quello della ferita che ha nello
stomaco e che sanguina copiosamente. È fatale, lo sa, non
durerà più di qualche
ora. Cade in ginocchio sul pavimento, accanto ai visi di quelle
creature che,
nei tempi felici, aveva chiamato “le sue ragazze”:
i loro capelli non sono più
castani, ma rossi e mandano un odore acre di sale e ruggine. Le lacrime
corrono
finalmente lungo le sue guance.
–
Heinrich Schiffer – scandisce l’ufficiale con
disprezzo,
pronunciando sentenza di morte – Ti sei macchiato di reati
gravissimi per il
Reich: ti sei accoppiato con una femmina di razza inferiore, hai
infangato la
razza ariana con il tuo comportamento, hai attaccato uno dei tuoi
fratelli.
Muori come un cane e marcisci in questa casa per sempre. Possa tu
bruciare
nelle fiamme dell’Inferno.
Heinrich non
morì subito come sua moglie e sua figlia:
trascorsero alcune ore prima che se ne andasse per sempre. Di tanto in
tanto
perdeva i sensi, si risvegliava, sperava sempre che i suoi ultimi
ricordi, che
erano separati nella mente come insetti parassiti, fossero falsi, un
frutto dei
suoi timori e della sua ansia: ma poco dopo ritrovava il bruciore allo
stomaco,
trovava quegli occhi senza vita che scansava immediatamente.
Quando
guardava la faccia di Hanna, sporca del sangue
rappreso, gli tornavano in mente le sue ultime parole. Aveva detto che
non
aveva mai avuto paura di lui, nemmeno quel giorno al lago:
l’aveva considerato
fin da subito una persona, a differenza del resto del mondo. Era stata
l’unica,
insieme alla figlia: i loro sorrisi facevano da sfondo al dolore sordo
che
provava quando ripensava a tutti quei momenti trascorsi insieme, a
tutti i “ti
voglio bene” mai detti quando avrebbe potuto, ai
“ti amo” che aveva da sempre
taciuto. Ripensava a quanto poco aveva dato e a quanto aveva ricevuto:
un’amarezza e una tristezza spente lo assalirono, come gli
animali selvatici
escono allo scoperto per mangiarsi delle carogne.
Guardava la
figlia e la sorpresa innocente dei suoi occhi,
la tenerezza della sua età lo colpivano come mille
proiettili. Il suo cuore era
lacerato dalla brevità della vita di sua figlia.
“Che
razza di padre,
che razza di padre!”
Sveniva,
rinveniva, piangeva e soffriva, sveniva di nuovo.
L’agonia
lo sorprese di notte. Guardava gli occhietti
scintillanti dei pipistrelli, senza pensare a niente. Li osservava
ammiccargli
dal buio, spettatori incuriositi della sua morte. Li osservava e traeva
conforto
dalla loro magra compagnia.
“Loro
non mi hanno
ancora abbandonato.”
pensò.
Gettò
un ultimo sguardo di commiato ai due corpi freddi
accanto a lui.
“Addio.”
Ed
esalò l’ultimo respiro.
Ironia della
sorte volle che gli Alleati, che si
impadronivano velocemente della Germania e che avevano spinto quel
gruppo di
soldati alla fuga, arrivassero pochi giorni dopo al campo di
concentramento di
Dachau, vicino al paese di sui si parlava. I militi americani giunsero
persino
alla piccola baita nel bosco. Ma ormai non c’era
più nulla da fare.
I loro corpi
giacevano senza vita sul pavimento, immersi in
una pozza di sangue che aveva intriso i loro vestiti, i volti deformati
dal
dolore provato in punto di morte. Quei militari dovevano odiare
così tanto gli
ebrei per rischiare di essere catturati pur di ucciderne uno:
agghiacciati da
questo pensiero, i soldati non avevano potuto fare altro che dare una
dignitosa
sepoltura a quei miseri resti. Piantarono tre croci dietro alla
casetta, in
silenzio, rabbrividendo ogni tanto al pensiero di quella bambina
dall’espressione così ingenua, del vuoto sul volto
della madre e soprattutto
dell’orrore e della rabbia dilanianti che laceravano il volto
del padre. Coloro
che ancora ne ricordavano, recitarono qualche preghiera. Poi lasciarono
la
casa, portandosi nei loro incubi le facce di quelle persone. Scrissero
i loro
nomi nelle liste delle vittime dell’antisemitismo, il loro
ricordo sbiadì e se
ne dimenticarono definitivamente.
A vegliare il
loro sonno, rimasero solo i pipistrelli.
Le anime di
madre e figlia finirono nella Soul Society.
Quella del padre, invece, straziata dal desiderio di vendetta e
dall’ira, vagò
a lungo piena d’odio nel nostro mondo. Dopo molto
peregrinare, si trasformò in
Hollow tra grida atroci.
Divenuto
Gillian, Heinrich dimenticò chi era e cosa fosse
l’umanità e si cibò senza scrupoli dei
suoi stessi simili, cercando di saziare
la sua solitudine e la sua collera ancora cocente con il sangue e con
le ossa
degli esseri più deboli di lui. Lentamente, l’odio
si trasformò in rancore e il
rancore si raffreddò ancora fino a diventare semplice
risentimento, infine
sparì, lasciando il posto a un’inumana freddezza e
a un’inspiegabile tristezza.
Completò
la sua trasformazione in Adjuchas e diventò Vasto Lorde.
La prima cosa che vide quando nacque alla sua nuova vita furono i
penetranti
occhi scuri di un uomo sorridente. Aveva i capelli castani, color della
cioccolata.
–
Benvenuto, nuovo
compagno. Come ti chiami?
Non ricordava
ancora chi fosse. La sua vita passata era
immersa in una fitta nebbia. Cercò allora un altro nome, che
richiamasse l’immenso
sconforto che provava senza saperne l’origine.
–
Ulquiorra.
Ulquiorra Schiffer.
Le labbra
dello sconosciuto si stesero ancor di più in un
caldo sorriso che, però, non gli dava gioia. Lo lasciava
semplicemente
indifferente.
–
Benvenuto tra noi,
Ulquiorra.
Passò
la
sua vita facendo da servitore ad Aizen, verso il quale provava un
profondo
rispetto: sembrava l’unico essere capace di provare
compassione. Non contestava
gli ordini, ma li eseguiva puntualmente e con precisione.
Fino a quando
non arrivò lei.
Inoue Orihime
sembrava una ragazza normalissima; ma si era
accorto, quando Grimmjow aveva ucciso Luppi, dal suo sguardo
raccapricciato,
che considerava loro, gli Arrancar, come esseri umani, ingannata
probabilmente
dal loro aspetto antropomorfo. Non c’era nulla di
più deviante, aveva pensato.
Come potevano delle creature che si erano cibate di creature uguali a
loro
conservare anche un briciolo di umanità? Ma lei questo non
poteva saperlo.
Aveva
trascorso del tempo con lei e si era accorto che i
suoi occhi richiamavano quelli di un’altra donna, che
affollava i ricordi della
sua vita umana. Ma lei era un po’ diversa: era tenace e
fiduciosa nei suoi
amici. Era fermamente convinta che sarebbero riusciti a sopravvivere a
Las
Noches e che l’avrebbero salvata. Lo guardava non con timore
o paura, ma con un
qualcosa negli occhi che era indefinibile, forse identificabile con il
conforto. Forse perché era l’unica faccia
vagamente familiare e che riconoscesse?
Non riusciva a capirlo.
Si era scoperto lievemente
impaziente di vederla; l’aveva visitata spesso, mentre
sentiva qualcosa
agitarsi confuso nel suo corpo morto da tempo. Aveva mantenuto la sua
espressione impassibile, ma ormai era chiaro che qualcosa in lui era
cambiato.
Aveva
riassaggiato cosa voleva dire vivere. Si sentiva
legato di nuovo a una persona, anche se con fili sottilissimi e
invisibile.
Ora non gli
andava di perdere tutto questo per colpa di
quell’Ichigo Kurosaki.
Stava per
morire: le sue ali iniziavano a trasformarsi in
cenere. I vecchi ricordi da umano lo stavano riassalendo. Ricordava
vagamente
un sorriso femminile che lo riempiva di felicità, una
casetta in mezzo al
bosco, il timore che la gente provava verso di lui.
Guardò
la ragazza che lo osservava con occhi addolorati e
compassionevoli.
Stava vicina a
lui. Tempo prima, gli aveva persino dato uno
schiaffo.
Come avrebbe
fatto con un essere umano.
Ulquiorra tese
una mano verso di lei, guidato da un istinto
che era rimasto assopito tanto tempo dentro di lui. Intuiva che era
qualcosa di
dolce e amaro insieme, ma non riusciva a dargli un nome.
I suoi occhi
erano ancora fissi su di lui. Doveva sapere,
ancora una volta.
–
Donna. Hai paura di
me?
I suoi occhi
si inumidirono, inaspettatamente.
–
No, non ho paura.
Il suo viso si
sovrappose a quello di un’altra ragazza. Erano
identiche e si differenziavano solo per i colori: nell’una
prevaleva un marrone
vellutato confortante e piacevole, nell’altra i colori caldi
dell’autunno. Ma
entrambe splendevano, nella loro pietà e commozione.
Dopo tanto
tempo, provò uno strano gelo misto a calore in
un luogo imprecisato del torace. Sapeva con rammarico che non avrebbe
mai
toccato quella mano calda che avrebbe voluto tanto stringere.
–
Capisco.
Chiuse gli
occhi, trattenendo la tristezza che pervadeva il
suo petto.
“Grazie.”
pensò.
E si dissolse
in cenere al vento.
Did you ever look,
Did you ever see that one person
And the subtle way that they do these things and it hurts so much?
So much like choking down the embers of a great blaze.
It's that moment when your eyes seem to spread aspersions
And to scream confessions at the insipid sky parting clouds.
And you let this one person come down.. come down..
I
cherish you… I cherish you…
For as much as I love Autumn,
I'm giving myself to Ashes.
[Hai
mai
visto,
Ti sei
mai accorta di questa persona
E del
sottile modo in cui fanno queste cose e che fa così male?
Così come
soffocare le braci di un grande incendio.
È
in
questo momento, quando i tuoi occhi sembrano diffondere ingiurie
E gridare
al cielo insulso che divide le nuvole
E lasci sprofondare
questa persona...
Che ti
amo.. Ti amo.
Per
quanto io ami l’Autunno
Sto dando
me stesso alle ceneri.]
Short
Stories With Tragic Endings – From Autumn To Ashes
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