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Autore: BlackMoonRising    28/04/2009    12 recensioni
Ulquiorra Schiffer.
Chi era prima di diventare un Hollow?
“Heinrich Schiffer era orfano e viveva con la nonna. Era da sempre stato evitato giù al paese: forse per la sua passione per il bosco di notte e per gli animaletti che escono fuori al buio, forse per i suoi stranissimi occhi verde scuro o i suoi capelli neri come il carbone, forse per il suo carattere taciturno e solitario. Non aveva mai fatto niente di male, ma sembrava odiato da tutti per la sua stravaganza.”
[UlquiHime]
[Spoiler capitolo 353]
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Inoue Orihime, Schiffer Ulquiorra
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Sì, lo so. Il vostro primo pensiero sarà: “No, un’altra fanfiction su Ulquiorra. Ma non si è stufata di leggerne, ché se ne vedono tante di questo periodo?”

La risposta è no. Potevo lasciare morire il Cuarto Espada senza dedicargli qualcosa?

Ovviamente no.

In esclusiva solo per voi la vita umana di Ulquiorra Schiffer, con retrogusto UlquiHime.

Spero sia di vostro gradimento ^^.

Baci e un grazie in anticipo.

Marti

 

Disclaimer: i personaggi non sono miei, ma appartengono a Tite Kubo. Così come il titolo di questa fanfiction non è di mia invenzione, ma è il nome del gruppo che ha scritto la canzone in fondo pagina, “Short Stories With Tragic Endings”. Perché io faccio le cose al contrario, invece del titolo della canzone metto il nome della band xD.

 

 

 

 

 

 

 

From Autumn to Ashes

 

di DarkMartyx_93

 

 

L’aveva visto molte volte sedere in riva al lago a guardare la cascata. Nascosta dietro a un albero e celata dai cespugli di more, osservava quel ragazzo smilzo e pallido che dondolava i piedi a sfiorare l’acqua fredda del piccolo lago, chiedendosi cosa trovasse di speciale in quello strano passatempo. Passavano le giornate così, lui a fissare lo specchio d’acqua e lei a fissare lui. Non sapeva cosa la spingesse di preciso a una simile azione; forse era solo curiosità.

Heinrich Schiffer era orfano e viveva con la nonna. Era da sempre stato evitato giù al paese: forse per la sua passione per il bosco di notte e per gli animaletti che escono fuori al buio, forse per i suoi stranissimi occhi verde scuro o i suoi capelli neri come il carbone, forse per il suo carattere taciturno e solitario. Non aveva mai fatto niente di male, ma sembrava odiato da tutti per la sua stravaganza.

– L’altro giorno – aveva detto una volta la madre della bambina, con tono indignato – è tornato a casa tardissimo. Era buio e sua nonna, pover’anima, stava per svenire di crepacuore. E cosa le ha portato? Un pipistrello! Cosa ha fatto quella donna disgraziata per avere un nipote così?

Da parte sua, non ci vedeva niente di scandaloso nel tornare a casa di notte fonda e con un pipistrello tra le mani. Non erano poi animali così brutti. Era infastidita da tutto quell’astio irrazionale.

Tuttavia provava come un senso di attrazione verso quel ragazzino così distante. Di timore e soggezione. Non poteva impedirsi di osservarlo, per quanto cercasse di distoglierne lo sguardo.

Purtroppo, non era molto abile negli appostamenti. Il bambino si era accorto da un pezzo di quella spia maldestramente camuffata. Aspettava che se ne andasse via, per poter riprendere la sua contemplazione in pace.

Però, lei non accennava a muoversi.

Cominciava a spazientirsi, per quanto autocontrollo avesse: una caratteristica incredibile, per un ragazzino sui quindici anni. Così, voltandosi lentamente, puntò i suoi occhi smeraldini verso quelli della coetanea.

– Hai paura di me? – domandò tranquillamente, come se le avesse chiesto che ore erano. Lei si irrigidì e cercò di mimetizzarsi con il sottobosco. Impossibile, con quel vestitino a disegnini rossi, realizzò furiosa con se stessa.

– Ti ho vista. È inutile che ti nascondi. Hai paura di me? – ripeté ancora.

La bambina uscì circospetta dal suo nascondiglio.

– I-io? No! – balbettò. Heinrich si girò di nuovo. Inutile perdere tempo con chi lo considerava un mostro. Era sempre una delusione.

Erano capitate altre volte situazioni come quella; di solito quello era il momento in cui l’osservatore, scoperto e irritato, fuggiva via, cercando di non farsi vedere. Invece stavolta, con moderata sorpresa, udì dei passi impacciati che si avvicinavano. La bambina gli stava venendo incontro, incespicando sugli arbusti e sulle erbacce.

– Perché mi vieni vicino se hai paura di me? – chiese con tono meravigliato.

– Mi sembra di averti detto… che non ho paura di te – rispose lei, sbuffando per la fatica. Quando raggiunse il suo obbiettivo, si lasciò cadere sull’erba e lanciò un’occhiata audace al viso del tanto temuto Schiffer, sentendosi ardita e temeraria.

I suoi occhi erano ancora più verdi di quanto pensasse.

– Perché sei qui? – domandò Heinrich.

– Perché… perché è un bel posto – rispose lei nervosamente, dopo una breve riflessione. Il silenzio scese tra i due.

– Oh, scusa! – fece lei all’improvviso, diventando rossa.

– Che c’è? – s’informò lui, sempre più sconcertato. Certo che quella bambina era piuttosto esagitata.

– Non mi sono neanche presentata! Io sono Hanna. Hanna Liebe. E… tu?

– Heinrich – disse lui laconicamente. Ennesima pausa.

– Perché stai sempre da solo? – chiese ancora Hanna, mangiandosi le parole per quanto le aveva dette velocemente. Heinrich stava per prendersi un colpo. Controllato sì, ma fino ad un certo punto.

– Perché mi piace.

– Ah.

Silenzio.

– Perché mi segui?

Colta alla sprovvista, la ragazzina arrossì furiosamente. Perché proprio quella domanda?

– Ma io non stavo seguendo…

– La scusa del paesaggio è superata. Perché mi segui?

La bambina si stropicciò le mani sudatissime.

– Perché… perché… sei curioso. Ecco… interessante.

– Interessante? – fece lui, perplesso. Di tutti gli aggettivi che gli erano stati attribuiti nel corso della sua vita, “interessante” era l’unico non presente nella lista.

– Be’, no… ecco… diciamo che… – Profondo sospiro. – Ecco…

– Calma – la fermò lui, stupito da tanta titubanza – Se non riesci a dirlo, non fa niente.

Hanna pigolò un “grazie” e cadde nel mutismo più completo.

Lui si sentiva stranamente protettivo verso quella bambina così sperduta e disorientata. Così, dopo un po’, propose:

– Andiamo a fare un giro qui intorno?

Lei alzò gli occhi stupita.

– Qui intorno?

– Sì. Ci sono un sacco di animali. Però non i pipistrelli, stai tranquilla. So che alla gente in paese non piacciono.

– Oh, a me sì! – lo assicurò in fretta la bambina. Con suo sommo stupore, Hanna vide un leggero sorriso aprirsi su quelle labbra smorte.

– Dai, andiamo.

 

Heinrich Schiffer.

I suoi genitori erano morti.

Viveva con suo nonna, ma lei non gli voleva bene, perché aveva paura di lui.

Anche la gente del paese aveva paura di lui, perché lo giudicavano strano e troppo taciturno. Per questo era vissuto fin da sempre da solo.

Pazienza. Pace all’animo loro.

Però, adesso aveva trovato qualcuno che cercava di avvicinarsi a lui.

Anche lei aveva paura, ma, comunque, lei gli stava vicino. Un notevole passo in avanti.

Le porse la mano per aiutarla ad alzarsi. Hanna si accorse con grandissima confusione che riusciva a sollevarla senza nessuno sforzo. Dove la teneva tutta quella forza?

Mentre si rizzava in piedi, un raggio di sole colpì i capelli di lei: Heinrich restò sorpreso nel notare i riflessi dorati che percorrevano le sue ciocche, ondulate come flutti di un fiume agitato.

Sorridere gli riuscì piuttosto naturale.

 

Heinrich Schiffer.

Ora ha ventiquattro anni.

I suoi genitori sono ancora morti. Con loro, è morta anche sua nonna.

Però ora non è più solo: ha una moglie che lo ama e una figlia.

Una bimba dagli occhi verde smeraldo e i capelli castano dorato.

È finalmente felice.

Ma c’è una spina nel fianco che lo tormenta: la gente continua ad avere paura di lui.

Si reca dalla fruttivendola giù in paese; la vecchia lo guarda con la coda nell’occhio. Lungo le strade, i ragazzini si fermano e lo fissano, mormorando a bassa voce. Stufo e desideroso di tranquillità, convince la famigliola a trasferirsi: sceglie di vivere in una casetta nel bosco, in mezzo a quella natura che lui ama tanto. Ma in paese, ogni tanto, ci deve tornare: e via, di nuovo con i sussurri e i silenzi improvvisi. Lui ci soffre, ma non dice niente.

Hanna e la loro bambina, Engel, lo sanno, ma non sanno che fare.

 

A parte questo, alla fine era felice.

Ma aveva trascurato due piccoli particolari: insignificanti se presi da soli, distruttivi se accostati l’uno all’altro.

Il primo: viveva in Baviera, nella Germania del 1939. Niente di preoccupante.

Fino a quando non si sa che Hanna era ebrea.

Lui ne era a conoscenza, ma non gli importava, nonostante tutta la propaganda antisemitica. L’unica cosa che gli importava, e che lo riempiva di gioia, era che Hanna sembrava non avere paura di lui, anche se non ne era pienamente convinto.

 

Aprile 1945.

La foresta era insolitamente tranquilla. Gli uccelli non cantavano, il suono delle foglie era attutito, come se temessero di disturbare qualcuno. Il cielo, grigio di nuvole, mandava una luce debole attraverso l’intrico dei rami. Heinrich, però, girava tranquillamente in cerca di legna: la primavera era vicina, ma le notti erano comunque fredde. Engel era di salute delicata e non era il caso che si ammalasse di tisi, non dopo aver trascorso l’inverno senza problemi.

Anche il paese era silenzioso. Il giovane uomo ricordava come, negli anni passati, il vociare delle donne, gli strilli dei bambini e le risate degli uomini si infiltrassero attutiti attraverso gli alberi. Ma, lo sapeva, la guerra aveva cambiato molte cose.

L’eco delle battaglie non arrivava fino a lui, isolato nella sua piccola abitazione immersa nel verde rassicurante degli alberi. Ogni tanto giungeva il suono fievole di una bomba, lo sparo solitario di un fucile, l’ordine smorzato di un soldato: nient’altro. Aveva solo una debole eco delle leggi razziali, della persecuzione degli ebrei e, tranquillizzato dalla lontananza dai centri abitati, non si sentiva minimamente minacciato.

Mentre camminava, udì un suono di passi irregolari e pesanti che si avvicinavano. Istintivamente, si irrigidì cercando di risultare invisibile nella vegetazione. Poco dopo, scoprì la fonte del rumore: uno degli uomini del paese che arrancava tra gli arbusti goffamente, come se zoppicasse. Lui uscì allo scoperto, moderatamente preoccupato verso la salute dell’uomo.

– Hans, cosa ti è successo? – chiese, poco interessato. Con un lampo di terrore, il contadino alzò lo sguardo su di lui. Ma, con sua grande sorpresa, Heinrich si rese conto che non era lui la fonte di paura: infatti, i suoi occhi, invece di spalancarsi e riempirsi d’odio, come accadeva normalmente, si tranquillizzarono quando lo riconobbero. Non era mai successo. L’inquietudine cresceva.

– Heinrich, sei tu! – disse concitatamente Hans – Scappa… la Gestapo… i soldati nazisti… sono arrivati qui… la tua famiglia… in pericolo…

Ora Heinrich non lo stava più ad ascoltare, perché correva.

Dimenticò all’istante Hans e la sua gamba ferita: correva come mai nessun uomo sarebbe mai riuscito a fare. Quelle parole smozzicate avevano avuto su di lui un effetto incredibile e gli avevano procurato la più grande agitazione mai provata in vita sua. Cercava di aumentare l’andatura, ma l’ansia gli mozzava il respiro; le sue gambe erano coperte di graffi e dalle ferite colava sangue scuro.

Cercava di realizzare ciò che aveva appena sentito. Non riusciva a credere che il destino li avesse risparmiati per tutti quei sette anni di guerra e che solo in quel momento reclamasse la sua famiglia come vittime sacrificali, feroce e selvaggio come un dio pagano. Il suo cuore stava per scoppiare; si spronava a correre ancor di più, per arrivare prima dei soldati. Flash di due corpi riversi al suolo lampavano nella sua mente, auto rassicurazioni lo calmavano e lo spronavano ad andare più veloce; non sentiva più le gambe, le braccia si muovevano convulsamente avanti e indietro per darsi più slancio. Non ricordava molto del tragitto di ritorno a casa. Rammentava solo che le piante lungo il sentiero gli intralciavano il passo e sembravano aumentare, come per fermarlo e portarlo in salvo.

Ma era troppo tardi. I soldati erano già arrivati.

Con furia, piombò dentro casa sua: in un attimo, registrò i due soldati che tenevano Hanna per le braccia, i suoi occhi ostili, la sua bambina terrorizzata raccolta in un angolo il suo pianto supplichevole:

– Mamma! Mamma! – invocava.

– Fermi! Lasciatela andare! – gridò Heinrich, gettandosi sui due soldati. Alle sue spalle ne apparve un terzo che lo agguantò per le spalle, ma lui si dimenava talmente tanto che il secondo milite dovette sbrigarsi per andare ad aiutarlo. Anche così, mostravano parecchia difficoltà nel frenarlo.

L’ultimo dei tre, che aveva assistito distaccato a tutta la scena, si spostò per mettersi faccia a faccia con quella furia. Heinrich notò le due stelline d’oro che recava sulla spallina e che lo qualificavano come un oberleutnant, un tenente. Si fissavano con avversione.

– Heinrich Schiffer, giusto? – domandò, sapendo già la risposta – In paese mi hanno detto che si chiama così.

Silenzio tenace.

– Lei sa che questa donna è ebrea? – chiese con freddezza quello che sembrava il primo ufficiale. I suoi occhi azzurri lampeggiavano di disgusto in quelli furenti di Heinrich.

– Lasciatela! Lasciatela immediatamente, o io…

– Accoppiarsi con una creatura appartenente ad una razza inferiore è reato, lo sapeva? – domandò ancora il tenente sconosciuto, ignorando ciò che diceva. Ma nemmeno lui lo ascoltava, cercava solo di svincolarsi dalla presa dei due nazisti per poterlo assalire.

L’ufficiale lo osservò impassibile, quindi, dandogli le spalle, si voltò verso Hanna e le sputò in faccia.

– Feccia – mormorò sprezzante – Morirai seduta stante: la tua vita è un insulto al Reich.

Heinrich ormai era indomabile, urlava il nome di sua moglie e si stava per liberare, quando, inaspettatamente, lei sputò in faccia al tenente. Il milite si ritirò infuriato, mentre si toglieva convulsamente la saliva di quell’essere indecente come se gli avesse ustionato la pelle.

– Sei impazzita? – gridava Heinrich – Così ti uccideranno! Scappa!

– È inutile. Non riusciremo a scappare. Tanto vale morire a testa alta.

Hanna alzò lo sguardo su suo marito e sulla sua bambina, che la guardava atterrita da tanta audacia. Sapeva che quegli uomini cattivi odiavano gli ebrei e considerava l’azione di sua madre un’autentica pazzia.

L’espressione della donna era stato qualcosa di dilaniante che si era impresso a fuoco nella memoria di Heinrich: gli occhi, specchi di sconfitta, erano spenti, tranne per le lacrime che avevano avvolto il marrone dei suoi occhi in una pellicola lucente. Il suo viso sembrava dire: è finita. È stato bello, ma ora è finita.

Era straziante osservare quel viso che aveva amato nei tempi felici; il suo pianto trattenuto lo faceva sentire un verme per la sua impotenza, i suoi occhi disperati erano un pugno nello stomaco e tutto nel proprio essere lo insultava, lo accusava di essersi adagiato troppo sugli allori, gli gridava che era un idiota, un debole, perché non riusciva a liberarsi per correre da lei e per portarla via da lì, lei e la sua bambina, sane e salve. La sua impotenza gli corrodeva le carni.

Un respiro si spezzò mentre lei cercava di parlare ancora, mentre stava per dire le più belle parole che lui avrebbe mai sentito in tutta la sua vita.

– No, non ho paura di te. Non ne ebbi quel giorno al lago e non ne ho neppure adesso.

Heinrich smise di dibattersi, come folgorato. Per la prima vola nella sua vita, sentì le lacrime pizzicargli sotto le palpebre.

– Il tempo che abbiamo passato insieme è stato breve, ma io non provo nessun rimpianto; tanto, sarei morta comunque. Era solo questione di tempo, poco tempo, prima che mi trovassero.

Fece una pausa. Riprese fiato.

– Ti prego, cerca di salvare almeno te ed Engel. Vi voglio sapere vivi.

La sua voce era implorante. Il labbro dell’uomo tremò.

– No, Han…

Sparo.

Sparo secco, sparo improvviso.

Un buco rosso tra le sopracciglia di Hanna, dal quale sgorga un fiotto di sangue che le inonda il viso.

La sua espressione vuota mentre si accascia al suolo.

E non gli hanno nemmeno dato il tempo di pronunciare il suo nome.

– HANNA! – ruggisce.

– Mamma! – grida sua figlia, gettandosi a corpo morto sul cadavere della madre, dimentica della paura. Non ci arriverà mai: un altro sparo esplode, preciso sulla sua schiena. Mentre muore, crolla sul petto materno, senza nemmeno un lamento: un’altra espressione vuota; però, stavolta, è sorpresa.

Ecco, ora ha davvero perso tutto.

– ENGEL! HANNA! – urla, mentre si libera dalla presa dei tedeschi. Molla un pugno ad uno dei sue. Si sente uno scricchiolio sinistro: la mascella del soldato si frantuma.

Cerca l’oberleutnant, quello che ha trucidato la sua famiglia, quello che ha sparato e che ora lo fissa con lo stesso sguardo glaciale di prima. Tiene ancora il braccio teso, dalla canna della pistola si leva un filo di fumo.

– TU! BASTARDO! – grida, lanciandosi su di lui caricando il pugno. I suoi occhi scintillano d’odio e orrore, mentre emette suoni inarticolati e selvaggi, come un animale.

Parte un altro sparo, l’ultimo che sentirà. Ora non sente più il dolore all’altezza del cuore, ma solo quello della ferita che ha nello stomaco e che sanguina copiosamente. È fatale, lo sa, non durerà più di qualche ora. Cade in ginocchio sul pavimento, accanto ai visi di quelle creature che, nei tempi felici, aveva chiamato “le sue ragazze”: i loro capelli non sono più castani, ma rossi e mandano un odore acre di sale e ruggine. Le lacrime corrono finalmente lungo le sue guance.

– Heinrich Schiffer – scandisce l’ufficiale con disprezzo, pronunciando sentenza di morte – Ti sei macchiato di reati gravissimi per il Reich: ti sei accoppiato con una femmina di razza inferiore, hai infangato la razza ariana con il tuo comportamento, hai attaccato uno dei tuoi fratelli. Muori come un cane e marcisci in questa casa per sempre. Possa tu bruciare nelle fiamme dell’Inferno.

 

Heinrich non morì subito come sua moglie e sua figlia: trascorsero alcune ore prima che se ne andasse per sempre. Di tanto in tanto perdeva i sensi, si risvegliava, sperava sempre che i suoi ultimi ricordi, che erano separati nella mente come insetti parassiti, fossero falsi, un frutto dei suoi timori e della sua ansia: ma poco dopo ritrovava il bruciore allo stomaco, trovava quegli occhi senza vita che scansava immediatamente.

Quando guardava la faccia di Hanna, sporca del sangue rappreso, gli tornavano in mente le sue ultime parole. Aveva detto che non aveva mai avuto paura di lui, nemmeno quel giorno al lago: l’aveva considerato fin da subito una persona, a differenza del resto del mondo. Era stata l’unica, insieme alla figlia: i loro sorrisi facevano da sfondo al dolore sordo che provava quando ripensava a tutti quei momenti trascorsi insieme, a tutti i “ti voglio bene” mai detti quando avrebbe potuto, ai “ti amo” che aveva da sempre taciuto. Ripensava a quanto poco aveva dato e a quanto aveva ricevuto: un’amarezza e una tristezza spente lo assalirono, come gli animali selvatici escono allo scoperto per mangiarsi delle carogne.

Guardava la figlia e la sorpresa innocente dei suoi occhi, la tenerezza della sua età lo colpivano come mille proiettili. Il suo cuore era lacerato dalla brevità della vita di sua figlia.

“Che razza di padre, che razza di padre!”

Sveniva, rinveniva, piangeva e soffriva, sveniva di nuovo.

L’agonia lo sorprese di notte. Guardava gli occhietti scintillanti dei pipistrelli, senza pensare a niente. Li osservava ammiccargli dal buio, spettatori incuriositi della sua morte. Li osservava e traeva conforto dalla loro magra compagnia.

“Loro non mi hanno ancora abbandonato.” pensò.

Gettò un ultimo sguardo di commiato ai due corpi freddi accanto a lui.

“Addio.”

Ed esalò l’ultimo respiro.

 

Ironia della sorte volle che gli Alleati, che si impadronivano velocemente della Germania e che avevano spinto quel gruppo di soldati alla fuga, arrivassero pochi giorni dopo al campo di concentramento di Dachau, vicino al paese di sui si parlava. I militi americani giunsero persino alla piccola baita nel bosco. Ma ormai non c’era più nulla da fare.

I loro corpi giacevano senza vita sul pavimento, immersi in una pozza di sangue che aveva intriso i loro vestiti, i volti deformati dal dolore provato in punto di morte. Quei militari dovevano odiare così tanto gli ebrei per rischiare di essere catturati pur di ucciderne uno: agghiacciati da questo pensiero, i soldati non avevano potuto fare altro che dare una dignitosa sepoltura a quei miseri resti. Piantarono tre croci dietro alla casetta, in silenzio, rabbrividendo ogni tanto al pensiero di quella bambina dall’espressione così ingenua, del vuoto sul volto della madre e soprattutto dell’orrore e della rabbia dilanianti che laceravano il volto del padre. Coloro che ancora ne ricordavano, recitarono qualche preghiera. Poi lasciarono la casa, portandosi nei loro incubi le facce di quelle persone. Scrissero i loro nomi nelle liste delle vittime dell’antisemitismo, il loro ricordo sbiadì e se ne dimenticarono definitivamente.

A vegliare il loro sonno, rimasero solo i pipistrelli.

 

Le anime di madre e figlia finirono nella Soul Society. Quella del padre, invece, straziata dal desiderio di vendetta e dall’ira, vagò a lungo piena d’odio nel nostro mondo. Dopo molto peregrinare, si trasformò in Hollow tra grida atroci.

Divenuto Gillian, Heinrich dimenticò chi era e cosa fosse l’umanità e si cibò senza scrupoli dei suoi stessi simili, cercando di saziare la sua solitudine e la sua collera ancora cocente con il sangue e con le ossa degli esseri più deboli di lui. Lentamente, l’odio si trasformò in rancore e il rancore si raffreddò ancora fino a diventare semplice risentimento, infine sparì, lasciando il posto a un’inumana freddezza e a un’inspiegabile tristezza.

Completò la sua trasformazione in Adjuchas e diventò Vasto Lorde. La prima cosa che vide quando nacque alla sua nuova vita furono i penetranti occhi scuri di un uomo sorridente. Aveva i capelli castani, color della cioccolata.

– Benvenuto, nuovo compagno. Come ti chiami?

Non ricordava ancora chi fosse. La sua vita passata era immersa in una fitta nebbia. Cercò allora un altro nome, che richiamasse l’immenso sconforto che provava senza saperne l’origine.

– Ulquiorra. Ulquiorra Schiffer.

Le labbra dello sconosciuto si stesero ancor di più in un caldo sorriso che, però, non gli dava gioia. Lo lasciava semplicemente indifferente.

– Benvenuto tra noi, Ulquiorra.

 

Passò la sua vita facendo da servitore ad Aizen, verso il quale provava un profondo rispetto: sembrava l’unico essere capace di provare compassione. Non contestava gli ordini, ma li eseguiva puntualmente e con precisione.

Fino a quando non arrivò lei.

Inoue Orihime sembrava una ragazza normalissima; ma si era accorto, quando Grimmjow aveva ucciso Luppi, dal suo sguardo raccapricciato, che considerava loro, gli Arrancar, come esseri umani, ingannata probabilmente dal loro aspetto antropomorfo. Non c’era nulla di più deviante, aveva pensato. Come potevano delle creature che si erano cibate di creature uguali a loro conservare anche un briciolo di umanità? Ma lei questo non poteva saperlo.

Aveva trascorso del tempo con lei e si era accorto che i suoi occhi richiamavano quelli di un’altra donna, che affollava i ricordi della sua vita umana. Ma lei era un po’ diversa: era tenace e fiduciosa nei suoi amici. Era fermamente convinta che sarebbero riusciti a sopravvivere a Las Noches e che l’avrebbero salvata. Lo guardava non con timore o paura, ma con un qualcosa negli occhi che era indefinibile, forse identificabile con il conforto. Forse perché era l’unica faccia vagamente familiare e che riconoscesse? Non riusciva a capirlo.

 Si era scoperto lievemente impaziente di vederla; l’aveva visitata spesso, mentre sentiva qualcosa agitarsi confuso nel suo corpo morto da tempo. Aveva mantenuto la sua espressione impassibile, ma ormai era chiaro che qualcosa in lui era cambiato.

Aveva riassaggiato cosa voleva dire vivere. Si sentiva legato di nuovo a una persona, anche se con fili sottilissimi e invisibile.

Ora non gli andava di perdere tutto questo per colpa di quell’Ichigo Kurosaki.

 

Stava per morire: le sue ali iniziavano a trasformarsi in cenere. I vecchi ricordi da umano lo stavano riassalendo. Ricordava vagamente un sorriso femminile che lo riempiva di felicità, una casetta in mezzo al bosco, il timore che la gente provava verso di lui.

Guardò la ragazza che lo osservava con occhi addolorati e compassionevoli.

Stava vicina a lui. Tempo prima, gli aveva persino dato uno schiaffo.

Come avrebbe fatto con un essere umano.

Ulquiorra tese una mano verso di lei, guidato da un istinto che era rimasto assopito tanto tempo dentro di lui. Intuiva che era qualcosa di dolce e amaro insieme, ma non riusciva a dargli un nome.

I suoi occhi erano ancora fissi su di lui. Doveva sapere, ancora una volta.

– Donna. Hai paura di me?

I suoi occhi si inumidirono, inaspettatamente.

– No, non ho paura.

Il suo viso si sovrappose a quello di un’altra ragazza. Erano identiche e si differenziavano solo per i colori: nell’una prevaleva un marrone vellutato confortante e piacevole, nell’altra i colori caldi dell’autunno. Ma entrambe splendevano, nella loro pietà e commozione.

Dopo tanto tempo, provò uno strano gelo misto a calore in un luogo imprecisato del torace. Sapeva con rammarico che non avrebbe mai toccato quella mano calda che avrebbe voluto tanto stringere.

– Capisco.

Chiuse gli occhi, trattenendo la tristezza che pervadeva il suo petto.

 

“Grazie.”  pensò.

E si dissolse in cenere al vento.

 

 

Did you ever look,
Did you ever see that one person
And the subtle way that they do these things and it hurts so much?
So much like choking down the embers of a great blaze.

It's that moment when your eyes seem to spread aspersions
And to scream confessions at the insipid sky parting clouds.
And you let this one person come down.. come down..
I cherish you… I cherish you…

 

For as much as I love Autumn,
I'm giving myself to Ashes.

 

[Hai mai visto,
Ti sei mai accorta di questa persona
E del sottile modo in cui fanno queste cose e che fa così male?
Così come soffocare le braci di un grande incendio. 

È in questo momento, quando i tuoi occhi sembrano diffondere ingiurie
E gridare al cielo insulso che divide le nuvole
E lasci sprofondare questa persona...
Che ti amo.. Ti amo.
 

Per quanto io ami l’Autunno
Sto dando me stesso alle ceneri.]

Short Stories With Tragic Endings – From Autumn To Ashes

 

 

 

 

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