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Autore: velvetmouth    28/08/2016    0 recensioni
Orlando è uno spregiudicato uomo d'affari che vive da anni a Londra.
Tommaso è uno scrittore in crisi creativa, ma sopratutto esistenziale.
Costanza è una giovane insegnante terrorizzata dal mondo esterno e in particolare, dagli uomini.
Nessuno di loro lo sa, ma presto le loro vite saranno sconvolte da qualcosa di dimenticato, di nascosto dalla patina fangosa degli anni. Un qualcosa che ha vissuto dentro di loro per tutto questo tempo e che adesso è pronto ad uscir fuori. Di nuovo, e con una forza micidiale.
Genere: Introspettivo, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Non andrai mai molto lontano se fuggi da qualcosa che hai dentro.



Olimpia lo trovò seduto al tavolo di cucina, la solita sigaretta stretta fra le dita.
Sarebbe voluta entrare come una furia, fare una scenata e litigare di nuovo come ormai succedeva quasi ogni giorno, ma si ricordò dell'ora (circa le 3 di notte), si ricordò del periodo che stava (o meglio, stavano) passando e decise di lasciar perdere.
Non senza fatica comunque.

- Dai, vieni a letto...-
Lo implorò, quasi; vederlo in quelle condizioni la straziava. La luce era spenta, ma anche nella totale oscurità non poteva fare a meno di notare quanto il suo viso fosse gonfio e sciupato, con due occhiaie violacee ai lati del naso e una ruga di preoccupazione così profonda da sembrare una ferita aperta, proprio in mezzo alla fronte.
- E per fare che?-
Si reggeva la testa con la mano sinistra, mentre dalla destra prendeva grandi boccate di fumo, che aveva ormai impestato tutta l'aria.
Olimpia sbuffò, storcendo il naso.
- Io capisco tutto, Tommaso, ma cazzo, almeno apri la finestra...-
Si avviò a passi pesanti verso le imposte, schiudendole leggermente. Buttò uno sguardo fuori: la notte era limpida e il cielo terso, una luna lattiginosa svettava alta e sembrava quasi illuminare a giorno le tenebre. Si girò a guardarlo di nuovo. Nemmero si era mosso, neanche un millimetro.
Iniziava a mal sopportare tutta quella storia... Sì, le dispiaceva che non riuscisse a dormire ormai da un mese buono, ma che aveva fatto per risolvere concretamente la situazione? Assolutamente niente. E ovviamente, poi, chi doveva sopportare i suoi malumori e la perenne luna storta? Chi si sorbiva risposte acide e mugugni ostinati, quella faccia sempre distorta d'insoddisfazione? Sempre lei, certo.
Quasi gli strappò la sigaretta dalle mani e per un pelo non finì per bruciarlo.
- Ma che cazzo stai facendo?-
Il tono era contrariato ed infastidito, ma la sua espressione svelava tutta la sua apatia. Mentre lo guardava negli occhi Olimpia ebbe la dolorosa percezione che se non avessero fatto qualcosa, qualsiasi cosa e in fretta, avrebbero rischiato di mandare tutto a puttane... Il loro rapporto ne stava risentendo pesantemente: neppure ricordava l'ultima volta che avevano fatto l'amore. Sì, ogni tanto lui si ricordava di avere quel minimo slancio vitale per prenderla da dietro, darle due colpi e poi accasciarsi nel disperato tentativo di riposare, ma quelle Olimpia preferiva non prenderle in considerazione come rapporti veri e propri.
Con il mozzicone che ancora fumava nel posacenere gli si sedette di fronte, fissando ancora quel paio d'occhi verdi che ricordava essere stati (assieme alle mani) il primo particolare che aveva notato in lui.
Aveva un gran bel paio di occhi verdi, ma di un verde particolare, cangiante che lei aveva sempre adorato: passavano dall'essere chiari a gradazioni via via sempre più scure, fino a sembrare persino marroni. E poi avevano un taglio davvero intrigante, stretti, vivaci e furbeschi, insomma lo sguardo di uno che ci sa fare e che non ha paura di dimostrarlo.
Di tutto questo rimaneva ben poco in quelle iridi acquose ed arrossate. Sembrava invecchiato di secoli, mangiava poco ed era dimagrito da far paura; avrebbe voluto aiutarlo e Dio solo sapeva quanto si era impegnata nel farlo, ma adesso era stanca, stanca di vederlo così astioso e incattivito, talmente passivo da aver perso l'entusiasmo nel fare qualsiasi cosa, lui! Che era sempre stato un tipo così dinamico!
L'impeto di rabbia che l'aveva posseduta qualche attimo prima svanì nella pena che gli suscitava, ma anche quel sentimento per un attimo le parve così sbagliato da sembrarle pericoloso. Non avrebbe dovuto provare pena per l'uomo che amava... Non era un cucciolo ferito, ma un uomo fatto e finito che avrebbe dovuto alzarsi, radunare i cocci della sua vita e cercare un modo per rimetterli assieme. Ma decise che non era il momento di essere così severa, né con lui né con se stessa e scelse la via dell'indulgenza.
Con un movimento rapido avvicinò la sua sedia a quella di Tommaso, anche lui perso nel guardarla negli occhi. Un accenno di sorriso, al quale lei rispose. Buon segno, dopotutto.
- Sono stanco...-
Aveva sussurrato prima che lei gli passasse i polpastrelli sulle labbra. Le loro fronti si toccarono, lui chiuse gli occhi sentendoseli così pesanti da fare male, Olimpia lo imitò, intrecciando poi le mani attorno al suo collo.
- Lo so... Ma devi darti una scossa, Momi...-
Era tantissimo tempo che non lo chiamava a quel modo o almeno a lui così parve. Gli piaque.
- Ti amo, Olimpia-
- Ti amo anche io-

Svegliarsi fu un incubo e non solo perchè, come al solito, aveva dormito a malapena ma anche perchè quella dannata sveglia faceva un baccano infernale, aveva un suono squillante e fastidioso che proprio non riusciva a sopportare. Sapeva che sarebbe stata un'altra giornata di merda e questo non migliorava certo le cose.
- Cazzo, Olimpia potresti anche cambiarla questa cazzo di sveglia di merda...-
Bofonchiò, coprendosi completamente la testa col cuscino.
- Buongiorno anche a te, tesoruccio...-
Anche quel sarcasmo gratuito non gli miglioravano di certo l'uomore. La sentì scendere dal letto, che cigolò ondeggiando per qualche istante, poi passi di piedi nudi sul pavimento e l'acqua che iniziava a scorrere nella doccia.
Senza neppure rendersi conto con quale brandello di forza alzò la testa leggermente. Fece una fatica mortale nello ''scollare'' l'occhio destro e aprirlo quel tanto che gli permettesse di vederla.
Era in piedi sulla porta, gli dava le spalle e si era appena spogliata della leggera camicia da notte che portava. C'era poca luce, per via delle tapparelle abbassate, ma poteva distinguere bene i baci di Venere sul fondo della schiena, proprio sopra a quel sederino tondo, che lei continuava a ripetere almeno da quando l'aveva conosciuta, che era troppo grande.
In tutta onestà, lui non l'aveva mai pensata così, ma ogni volta che provava ad obiettare sull'argomento lei lo zittiva, così aveva smesso di dirle che la trovava semplicemente perfetta.
Come aveva smesso di dirle quanto la trovasse eccitante quando si scioglieva i capelli e li lasciava fluenti dietro le spalle, quando con un gesto apparentemente indifferente si portava una ciocca dietro le orecchie, aveva smesso di dirle anche quanto gli piacesse quando se ne stava assorta e mordicchiava una penna o quando mescolando il sugo nella pentola se ne stava con un piede sull'altro, in una posa così infantile da fare tenerezza e anche quanto adorasse l'espressione corrucciata che le veniva quando si arrabbiava, che avrebbe voluto divorarla di baci e morsi ogni volta che alzava la voce contro di lui, perchè diventava terribilmente sexy.
Non le aveva neppure mai detto quanto l'amasse veramente e quanto non sopportasse vederla soffrire così per via dei suoi problemi, delle sue fragilità, dei suoi insuccessi...

Avrebbe voluto stringerla da dietro, abbracciarla forte, baciarla, leccarla sul collo, spogliarsi e andare sotto la doccia insieme, fare l'amore VERAMENTE come non facevano ormai da tempo. Ma la testa era appesantita, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e la schiena gli doleva talmente tanto da impedirgli qualunque movimento. Poi la sagoma di lei scomparve, chiudendosi dietro la porta del bagno.


Non avrebbe sopportato di nuovo quella domanda, non in quel momento almeno.
Sapeva che non era un'insistenza cattiva, sapeva che era solo una richiesta innocente dettata dal fatto che non era mai più tornato da allora... Praticamente da quando portava i calzoni corti.
Deglutì ed ebbe quasi paura che dall'altro capo del telefono si potesse percepire quanto in realtà fosse in ansia.
Ma poi, in ansia per cosa? Non riusciva a capire bene neppure lui perchè provasse tutta quella resistenza, sentiva semplicemente che non aveva nessuna intenzione di tornare.
Quel teatrino si ripeteva puntualmente ogni anno, specie in prossimità di feste consacrate.
Era fine novembre, perciò sua madre aveva pensato bene di iniziare a tartassare con largo anticipo, quell'anno.
-...E poi scusa eh, ma ti pare normale che dobbiamo spostarci sempre io e tuo padre le rare volte che ci degni della tua disponibilità? Sei sempre in giro in qua e in là e appena hai qualche giorno di vacanza te ne scappi sempre più lontano! In questi ultimi anni ti avremo visto sì e no una decina di volte!-
La stette a sentire pazientemente o almeno costringendosi di esserlo, ma avrebbe tranquillamente potuto lasciare la cornetta sulla scrivania, andare di là, farsi portare un caffè dalla segretaria, mangiare anche un cornetto magari e sapeva, ne era sicuro, che una volta ripresa la conversazione avrebbe trovato sua madre intenta nella solita filippica che ormai conosceva a memoria.
- Mamma hai perfettamente ragione ma sai quanto sono oberato...-
Non era proprio una scusa, non del tutto almeno.
Ricopriva un ruolo di tutto rispetto in una delle società azionarie più famose del Regno Unito, aveva a malapena il tempo per respirare e ancor meno per prendersi delle vacanze, perciò nei rari momenti in cui poteva riuscire a fare entrambe le cose preferiva starsene ben lontano dal paesino da cui proveniva e che, in tutta franchezza, gli ricordava da quanto ''in basso'' fosse partito.
Non conservava neppure ricordi così spiacevoli da giustificare tutta quell'avversione, né aveva mai sofferto da bambino, semplicemente non aveva mai amato quel posto, gli era sempre calzato troppo stretto... E poi riteneva quel capitolo della sua vita chiuso, morto e sepolto dalla polvere di anni ed anni. Non aveva piacere nel ritornarci, non aveva piacere nel rivedere le solite, vecchie facce. Sì, gli dispiaceva per i suoi che effettivamente non riusciva a vedere quanto avrebbe potuto, ma se l'unico modo fosse stato quello di tornarsene in Italia, bhe... Avrebbe preferito non vederli mai più.
- Non dire scemenze, Orlando!-
Quel tono di voce lo conosceva fin troppo bene, aveva permeato gli anni della sua infanzia e buona parte dell'adolescenza. Sua madre era stata una professoressa di lettere al liceo ed era solita rimbeccarlo con quella frase ogni qual volta lui eccedesse in fantasticherie o stupidaggini. Aveva sempre voluto che suo figlio fosse un ragazzo con la testa sulle spalle.
Non avrebbe voluto ribattere, sopratutto perchè odiava discutere, sopratutto per telefono, ma le parole gli uscirono di bocca quasi da sole:
- Mamma, io sto lavorando qua! Non sto a pettinare bambole! Ti ho già detto che non tornerò per Natale, né per Pasqua, né per nessun'altra festa o ponte o ricorrenza! Ti è chiaro il concetto? Sono pieno di lavoro, di impegni e di appuntamenti almeno per i prossimi vent'anni! Se avete piacere di vedermi sapete dove trovarmi, altrimenti ti dò gli auguri in anticipo e festa finita!-
Non avrebbe neppure voluto sbattere la cornetta, troncando la discussione nel modo più infantile e codardo, nonchè poco maturo possibile, ma si ritrovò proprio così, il respiro leggermente affannato e la mano destra che premeva la cornetta sul basamento del telefono. Fissava un punto non ben specificato del pavimento quando Heather entrò con dei moduli da fargli firmare.
- Non adesso, per favore ripassa tra qualche minuto...-
Quella voce non sembrava provenire da dentro di sé, assomigliava più a una voce metallica, da robot.
Quando si sedette alla poltrona di pelle, abbandonandosi lungo lo schienale, si chiese con estrema lucidità se ci fosse dell'altro dietro a tutta quella storia, se quella reazione non fosse stata un po' troppo esagerata.
''L'ho sempre odiato, quel posto...''
Fu la sua unica spiegazione.

Quando rientrò a casa l'unico a fargli le feste fu Cooper, il suo boxer di due anni e mezzo. Gli diede un buffetto sulla testa, poi posando le chiavi sul mobile d'ingresso si avviò verso  la cucina col cane che lo seguiva scorrazzandogli attorno alle gambe.
Sapeva che lei non era lì, ma controllò lo stesso in ogni stanza. L'appartamento era vuoto, come previsto.
Si tolse le scarpe, facendo leva con la punta di un piede sul tallone dell'altro e le abbandonò nell'ingresso. La mattina dopo sarebbe passata la domestica a mettere apposto il suo casino. Si tolse anche giacca e cravatta, rimanendo con la camicia sbottonata sul petto.
Sintonizzò la sua tv al plasma su un torneo di golf e andò a prendersi una birra in frigo. Un foglietto fosforescente attirò la sua attenzione, era un post-it che staccò dalla superficie del freezer.
Era opera di April, quella era la sua scrittura. Già prima di iniziare a leggere stava sbuffando di impazienza.
Gli diceva le stesse cose che continuava a ripetere da tempo, che lui non l'amava più come prima, che la stava trascurando e che era stufa di vivere con uno che non le dimostrava mai niente e... Che aveva deciso di lasciarlo. Neanche quella era una novità. Finivano per lasciarsi almeno tre volte al mese, con un picco, nel mese passato, di ben otto volte. Orlando sapeva che con il dovuto impegno sarebbe riuscita ad arrivare anche a cifra doppia.
Sorrise a mezza bocca mentre riappiccicava il foglietto adesivo lì dove l'aveva trovato e camminava verso il divano. Si stese, sorseggiando piano la sua birra ghiacciata. Sapeva, anzi no, era certo che lei sarebbe tornata piagnucolando al suo solito che non poteva vivere senza di lui, che lui era il suo ''Italian Stallion'', il suo uomo, il suo amore, ma sopratutto... Il suo portafogli.
Aveva sempre fatto così, era una testa calda, le piaceva litigare, fare scenate da prima donna, proprio perchè Orlando non le dava la soddisfazione di sentirsi al centro della scena. Davanti ai suoi eccessi di emotività, degni di una vera drama queen, lui rimaneva impassibile, spesso divertito dalla lena con la quale lei si calava in quelle parti da tragedia greca che sembrava apprezzare tanto.
E lei dal canto suo, sentendosi derisa e presa poco sul serio finiva per sbollirsi da sola e tornare con la coda fra le gambe ogni dannatissima volta.
E poi, onestamente, anche se avesse deciso di lasciarlo una buona volta per tutte, di certo non si sarebbe strappato i capelli dalla disperazione. Non era più bella, né più intelligente, né più simpatica o amabile di una qualsiasi altra donna che aveva avuto e questo lo sapeva perchè si teneva sempre bene allenato e aggiornato, al passo coi tempi.
La fedeltà non era materia adatta a lui, così come ciò che ne conseguiva, ovvero fiducia, esclusività e nel più tragico degli eventi, un'unione consacrata.
L'ultima cosa che gli poteva al momento passare per il cervello era sposarsi e se mai, invece, l'idea fosse diventata irrimediabilmente attraente agli occhi di April, Orlando sapeva, comunque non senza una punta di dispiacere, che la loro storia sarebbe finita col nascere di quel desiderio. Ma per il momento il pericolo era lontano e i rimorsi inesistenti.
Mentre si portava alle labbra l'ennesimo sorso di birra ripensò di nuovo a sua madre, forse perchè l'immagine dell'accasarsi gli ricordava i sogni provincialotti materni o forse perchè per come l'aveva trattata un po' in colpa si sentiva.
Un'altra cosa che non sopportava era sentirsi in torto o quantomeno non in pace con se stesso. Succedeva però di rado, visto che sia caratterialmente, sia con un apposito training interno durato anni, aveva saputo acquisire su di sè un controllo emozionale invidiabile, che lo facevano sentire realizzato e padrone di sè stesso.
La parte orgogliosa del suo essere sarebbe rimasta spaparanzata sul divano fino alla fine del torneo, sarebbe andata in bagno a farsi una doccia e sarebbe crollata tra le lenzuola di seta cinese, alla faccia di tutto e tutti. La parte più piccola, ma anche più pedante, quella che continuava a tormentarlo quella sera, sembrava invece avere tutt'altro piano.
Si tirò su, rimanendo a sedere contro il bracciolo, fissava le immagini sullo schermo senza vederle, perciò decise di spegnerlo.
Si alzò, gettò la lattina vuota e rimase in piedi di fronte al telefono fisso per almeno un paio di minuti.
Di nuovo quella sensazione di fastidio che aveva provato quella mattina.
''Che rottura di cazzo...''
Compose il numero ancor prima di controllare se fosse stato troppo tardi laggiù. Anche se il fuso era di un'ora di distanza, sapeva che i suoi erano abituati ad andare a letto presto.
Il telefono squillò una, due, tre volte, poi si sentì il ''click''.
- Mamma?-
- No, sono io... Mamma dorme.-
Dovevano aver discusso, perchè suo padre aveva la voce dura e fredda di quando aveva i coglioni girati, ma sapeva che non ce l'aveva con lui.
Orlando non voleva, ma per un attimo gli venne da ridere.
- Lo so che è lì che ascolta, passamela dai...-
Anche se non poteva vederlo sapeva che in quel preciso istante suo padre aveva quel suo stesso mezzo sorrisetto sulla faccia, lo aveva preso da lui e da lui aveva anche ereditato il non prendersi troppo sul serio, cosa che invece riusciva benissimo a sua madre.
Sentì dei colpi nella cornetta e poi la voce che diceva:
- E' Orlando...-
Come se ci fosse stato l'imbarazzo della scelta visto che era figlio unico.
Doveva esserci stato un momento di ''collutazione'' visto che la telefonata rimase in sospeso per qualche istante, le loro voci lontane che parlottavano e Orlando che non riusciva a capire quello che si stavano dicendo. Molto probabilmente era in scena l'opera ''L'Offesa'' in III Atti, interprete d'eccezione: Ofelia Landucci.
Poi, finalmente:
- Pronto?-
- Mamma-
- Ciao Orlando.-
- Dai mamma, ti volevo chiedere scusa per oggi...-
- Non azzardarti a ridere! Guarda come ti comporti, alla tua età! Con due poveri vecchi... Dovresti vergognarti!-
La voce di Guglielmo Landucci si sentì forte e chiara anche se un po' ovattata dalla distanza.
- Vecchia ci sarai!-
Volente o nolente la discussione finì a tarallucci e vino e persino la mamma accennò una mezza risata. Le scuse vennero offerte ed accettate e il tutto sembrò volgere per il meglio.
- Mi aspetto che tu ci sia a Natale, Lando...-
Ecco la stilettata finale, sapeva che avrebbe dovuto accettare adesso, era una scelta obbligata.
- Dai mamma, non posso promettermi niente... E poi non mi chiamare così, su!-
- Te azzardati a non venire e non ti parlo più,lo dico qui ed ora!-
Orlando sbuffò, roteando gli occhi al cielo e bofonchiando qualche obiezione, ma sua madre era irremovibile, non avrebbe sopportato un altro anno di diserzione. Decise di tenersela buona e promettere che sì, a Natale ci sarebbe stato, nella speranza che poi col passare del tempo e sbollita la rabbia, anche grazie al padre, il fatto di non andarci poi per davvero non scaturisse nella tragedia preannunciata.
Abbassò giù, sentendo come ultime parole il ''Ti voglio bene'' di sua madre, forse l'unica, vera e autentica esternazione d'affetto nella vita di un uomo. E per un attimo gli si strinse il cuore, per un attimo pensò pure che sì, dopotutto sarebbe potuto tornare per un giorno.
Ma fu solo un attimo, perchè solo al pensiero gli cominciarono a sudare le mani.


Non le piaceva prendere la metropolitana, di solito preferiva spostarsi in bici, perchè era veloce, pratica e stava seduta.
Sul sedile della bicicletta nessuno poteva commentarle il fondoschiena, fare apprezzamenti sulla sua camminata, sulle sue gambe, sul modo in cui le stavano i jeans attillati.
Ma la bicicletta era sparita. Quella mattina era scesa di casa, l'aria fredda immersa completamente dalla nebbia, aveva guardato la grata lungo il palazzo dove di solito la lasciava e... Niente, non c'era niente.
Per un momento avrebbe voluto piangere, non tanto per il furto in sè o la stizza, ma proprio per panico. Il pensiero di dover camminare per strada la terrorizzava ogni volta. Ma non poteva tornarsene a casa, chiudersi dentro e permettersi di non andare a lavoro.
Ne aveva parlato tanto con la psicologa, non doveva permettere ai suoi pensieri, alle sue paure di prendere il sopravvento sul normale svolgimento della sua vita. Era migliorata tanto da quando era stata presa in cura e di questo era sempre più sollevata, ma il percorso era arduo e fastidiosamente lento.
Sapeva da sempre che c'era qualcosa ''che non andava'' in lei, nel rapporto con gli altri, nel vivere serenamente la sua vita, ma fino a quando non era andata a vivere da sola, non era cresciuta e aveva fatto le prime esperienze, questo non le era pesato poi molto.
Poi era esplosa, credeva di essere pazza ed incurabile, era certa che non sarebbe mai stata una ragazza normale, senza il terrore di mettere piede fuori casa. All'inizio tutto per lei era una sfida, persino andare a comprare il giornale, parlare con l'edicolante, dovergli rivolgere parola la paralizzava.
Ma adesso stava meglio, anche se attraverso i colloqui con la psicologa non erano ancora arrivate ad individuare il nocciolo del problema, molti dei sintomi e delle paure immotivate che le avevano condizionato la vita si erano attenuate o erano scomparse.
Strisciò il biglietto della metro ed oltrepassò le barre, sollevò un lembo della tracolla controllando che avesse preso tutti i libri e poi si avviò verso il sottopassaggio.
Era mattina presto, l'orario in cui di solito la gente va a lavorare, perciò tutt'intorno era molto affollato.
Fino a qualche anno prima Costanza avrebbe provato fastidio e angoscia anche nel camminare in mezzo a tutte quelle persone perchè aveva la percezione, la sensazione che tutte stessero guardandola, giudicandola.
Ma adesso riusciva tranquillamente a non farci caso, anche se era comunque infastidita da certe occhiate, magari indifferenti, ma che lei scambiava per morboso interesse.
Comunque, odiava ancor più trovarsi in luoghi deserti, perchè aveva la quasi certezza assoluta che le sarebbe successo qualcosa, che qualcuno sarebbe balzato dal nulla proprio sopra di lei e che le avrebbe fatto del male.
Allontanò quei pensieri infilandosi le auricolari in fondo alle orecchie e lasciò che la musica la tranquillizzasse mentre osservava la metro arrivare, aprire le porte e ripartire. Salì.
Trovò un posto in mezzo a due signori, ma la cosa non la infastidì per niente, cosa che la fece esultare internamente e farle venire un sorrisino timido sulle labbra.
Un ragazzo davanti a lei, appoggiato al tubo verticale la guardò, sorridendo a sua volta.
Costanza si pietrificò, non riuscendo assolutamente più a sbattere le palpebre, ma durò un istante. Riprese a respirare regolarmente, il cuore le smise di pompare come un forsennato e il giovane uomo stava guardando da un'altra parte.
''Era solamente gentile, ha risposto al tuo sorriso... Non vuole farti del male''
Si ripetè per il resto del viaggio, anche quando lo vide oltrepassare il tappo di persone che ostruivano le uscite e scendere a due fermate prima della sua. Lo seguì con lo sguardo, con interesse. Aveva un bel paio di occhi scuri e le labbra sottili ed espressive.
Era carino. Sorrise.

Paradossalmente lavorare a scuola non era mai stato un problema, anzi.
Era entrata nel mondo dell'istruzione da relativamente poco, ma aveva sempre accettato ogni incarico che le avessero offerto anche se questo voleva dire spostarsi sempre più lontana. Quello dell'andare via, a differenza di molte altre cose, non era mai stata una paura quanto più un desiderio.
Ricordava vagamente la sua vita da bambina, i primi ricordi che poteva richiamare alla memoria erano relativamente recenti: gli anni delle scuole superiori o al massimo delle medie. Aveva sempre attribuito questo gap mnemonico alla sua innata sbadataggine, alla testa fra le nuvole che non aveva perso mai, neppure ai tempi dell'Università. Ma effettivamente si ritrovava a pensare che fosse molto strano il fatto di non ricordare nulla o quasi di quando era stata una bambina.
L'unico pensiero vivido che poteva rievocare era quel sogno di andare via lontana, scappare via dal paesino nella campagna toscana nel quale era nata e vissuta. Non era mai stata un cuor di leone, per quanto potesse ricordare, nè un'incredibile avventuriera, perciò questa inclinazione che sentiva di possedere le pareva al tempo stesso affascinante e poco adatta, come se appartenesse ad un'altra e non a lei.
Sta di fatto che c'era riuscita, era andata via ormai da tempo e non aveva mai avuto nostalgia di casa, probabilmente anche perchè non aveva nessuno di cui provare mancanza, visto che i suoi genitori erano morti quando ancora andava a scuola.
Era vissuta fino alla maggiore età con una zia e poi aveva preso la sua strada, senza ripensamenti nè paure.
Una volta allontanatasi dal paesino natale, Costanza aveva iniziato a mostrare quei sintomi che l'avrebbero accompagnata più o meno assiduamente per tutto il periodo universitario e oltre.
Iniziò a manifestarsi un'acuta paura degli estranei, che ovviamente intaccava irrimediabilmente la sua vita sociale. Non era mai stata una ragazza estroversa e spigliata, aveva sempre fatto molta fatica nel crearsi nuove amicizie, ma si rese conto che qualcosa non andava quando già il solo uscire di casa le provocava crisi d'ansia sempre più ingestibili.
Tra mille peripezie e scontri con sè stessa, però, era riuscita a laurearsi brillantemente in Storia dell'Arte e ricevendo quasi immediatamente un incarico in un Liceo di provincia.
Per un periodo di tempo molto limitato fu felice, si sentiva libera e anche molto più sicura di sè: aveva finalmente trovato la sua dimensione e l'ignoto sembrava spaventarla molto meno. Purtroppo però questa condizione di benessere non durò a lungo.
Prima delle feste di Natale Costanza era sprofondata nuovamente in quelle paure che la tormentavano ormai da anni e, se possibile, in maniera ancora più grave e disperata. Sentiva di non avere il controllo sulla sua vita, percepiva di correre costantemente un pericolo, ma quale esso fosse rimaneva un mistero anche per lei. L'ansia e la preoccupazione nella quale viveva sembrava riuscire a condizionare la vita di tutti i giorni, impedendole di viverla normalmente.
Chiese un periodo di aspettativa, che fortunatamente le fu concesso. Inizialmente non credeva di avere bisogno d'aiuto, era convinta che si trattasse di un semplice esaurimento e confidava nell'assoluto riposo. Continuava a ripetersi la storiella dello stress, della stanchezza, del fatto di essere sempre stata un po' troppo debole e ansiosa per non poter incappare ogni tanto in un periodo di black-out: durante l'Università riteneva che fosse stato lo studio e l'agitazione per gli esami a farla scapocciare, poi era arrivata la ricerca di un'occupazione a metterla K.O e adesso... Adesso la responsabilità di una classe di studenti tutta sua, l'ansia di non essere all'altezza, il dover avere a che fare con persone che non conosceva, con un luogo che a tratti le pareva ostile.
Ma dentro di sè Costanza sapeva bene che quelle erano solamente delle fragili obiezioni destinate a cadere nel vuoto.
Quando gli attacchi di panico aumentarono e si presentò anche un'immotivata agorafobia, la giovane donna decise di correre ai ripari.
Non solo la sua vita le appariva ormai come un incubo, ma non aveva un rapporto sano con l'altro sesso da tempi immemori. Aveva avuto qualche fidanzato, ma mantenere una relazione con tutti quei problemi era così difficile e dispendioso in energie che si era sempre ritrovata sola nel giro di breve tempo. Chi avrebbe voluto avere a che fare con una del genere, dopotutto?
Non era mai riuscita ad approcciarsi facilmente agli uomini da quando aveva memoria, perchè, nella maggior parte dei casi, ne aveva un terrore paralizzante. Non riusciva a trovarne una spiegazione, ma spesso e volentieri era spaventata a morte al pensiero di trovarsi da sola con un uomo, per non parlare del pensiero che qualcuno potesse approcciarsi a lei ed arrivare persino a toccarla.
Anche il solo parlare con loro era per Costanza una tortura peggiore di qualsiasi altra.
Era ormai convinta che portare avanti un'esistenza soddisfacente e libera dagli incubi fosse per lei impossibile.
Poi però aveva conosciuto la psicoterapeuta che era riuscita a sollevarla, almeno parzialmente, dal baratro nel quale stava sprofondando sempre più.
Era in cura dalla dottoressa ormai da un anno ed i primi tempi non erano stati per nulla facili...
Costanza, infatti, non credeva che sarebbe mai potuta guarire da quegli incubi, perciò il suo approccio alla terapia era stato sempre scettico e ai limiti del mutismo.
Poi, anche grazie alla bravura della sua psicologa, Costanza era pian piano uscita dal guscio e ad ogni appuntamento riusciva a migliorare sensibilmente.
C'era ancora moltissima strada da fare, come le aveva detto la stessa dottoressa, ma con impegno e assiduità sarebbero riuscite insieme a sciogliere il bandolo della matassa, fino ad arrivare ad una completa guarigione.
Costanza era emozionata già solo all'idea, anche se la diagonsi preliminare che la psicologa le aveva presentato non riusciva a coincidere con ciò che credeva fosse il ''quid'' scatenante di tutto quel processo.
La dottoressa le aveva chiaramente spiegato che il suo spettro di sintomi poteva essere associato ad un disturbo post-traumatico da stress, il che implicava che ci fosse stato, appunto, un trauma dal quale Costanza non era mai riuscita ad uscire completamente e anzi, la sua mente e il suo corpo avevano reagito all'accaduto mascherandolo con una serie di sintomi che le stavano rovinando l'esistenza.
In casi molto rari, aveva aggiunto la dottoressa, alcuni pazienti presentavano persino delle amnesie parziali dell'avvenimento traumatico, così da rendere l'analisi molto più complicata e l'individuazione della causa ai limiti dell'impossibile.
La dr.ssa Lotti, però, non riteneva che questo fosse il caso di Costanza e continuava a ripeterle che il suo era semplicemente il classico meccanismo di difesa che emerge successivamente ad un evento traumatico, ovvero la rimozione e il successivo mascheramento delle cause lampanti in sintomi che possono fungere da metafore dell'evento stesso. Sta allo psicologo il compito di interpretare tali ''mimetizzazioni'', lei in quanto paziente doveva semplicemente avere la forza d'animo di continuare con la sua analisi e portare avanti minuziosamente ogni compito che la dottoressa riteneva potesse essere d'aiuto.
Il pensiero di questo ipotetico ''trauma'', però, iniziava ad ossessionarla.
Spesso passava il suo tempo libero nel vano tentativo di riportare alla mente ricordi, sensazioni, momenti di vita passata, senza però di fatto giungere mai a nessun risultato soddisfacente. Anzi, spesso quel pensiero finiva per portarla dritta verso uno stato di angoscia che sfociava in vecchie abitudini e antichi terrori.
- Ciao Costanza!-
Lei si voltò, stringendo forte il bicchiere di carta che aveva in mano. Il caffè all'interno le cadde tutto sulla camicetta.
L'insegnante di ginnastica si affrettò a tamponarle la macchia con un fazzoletto, ma lei si ritrasse quasi spontaneamente portandosi le braccia chiuse davanti al petto. Lui rimase interdetto per una manciata di secondi, poi, le porse un fazzoletto che lei accettò con un cenno del capo.
- Mio Dio, mi dispiace... Non volevo spaventarti così, nè combinare questo disastro!-
Era mortificato e continuava a grattarsi la testa con un gesto buffo e goffo e che, malgrado la situazione, la fece sorridere.
- Non preoccuparti... Ero...Ero solo sovrappensiero, non è colpa tua!-
Costanza fece una fatica immane per mettere assieme quelle quattro parole, ma lui non sembrò accorgersene visto che le sorrise imbarazzato.
Rimasero per qualche istante in silenzio, lei che inumidiva la punta del fazzoletto di lui con la lingua e poi lo strofinava con forza e lui ad osservarla come un cane bastonato, senza saper bene cosa fare o dire.
Poi prese coraggio, sia perchè quella ragazza le era piaciuta dal primo momento che l'aveva vista ad inizio anno (forse anche perchè erano gli unici under 50 di tutto il corpo insegnante), sia perchè aveva un'aria tenera e spaurita che risvegliavano in lui sia una forte eccitazione, che un istinto protettivo.
Se ne stava sempre per i fatti suoi, anche durante l'intervallo, nessuno sapeva dove vivesse nè da dove venisse... Attorno alla graziosa insegnante di Arte dagli occhi scuri e un po' tristi erano iniziate a girare voci d'ogni sorta. Ma lui non ci badava, perchè era sicuro che dietro quel visetto dolce e smunto nascondesse solamente una profonda solitudine. E avrebbe fatto di tutto per colmarla.
- Permettimi di offrirtene un altro, almeno!-
Costanza sentì il cuore batterle forte nel petto. Continuava a ripetersi che quella non era una situazione pericolosa, che non poteva succederle nulla di male, che era solo un caffè... Ma le mani iniziarono comunque a tremarle e la gola le divenne arsa e dolorante.
Il professore di ginnastica Federico Giuliani intanto se ne stava ad osservarla in attesa di una risposta, che sperava fosse positiva.
Costanza annuì con uno scatto deciso e meccanico che non doveva apparirgli poi tanto incoraggiante, eppure le labbra di Federico si inarcarono in un sorriso. Il tamburo che aveva nel petto sembrò perdere vigore e una sensazione di assoluta calma si prese possesso di lei. Riuscì a sorridere anche lei, come sollevata da un peso enorme.
Il professore di ginnastica mise una mano nei pantaloni, ne estrasse una moneta e la inserì nel distributore senza mai toglierle gli occhi di dosso. Costanza avvertì una vampata violenta alle guance e un tremolìo sommesso all'altezza dello stomaco, ma era tranquilla, felice... Quasi... Emozionata.
- Senza zucchero, vero?-
Le domandò, l'indice in attesa sospeso a mezz'aria.
- Senza zucchero!-
Confermò lei con un sorriso disteso.
Lui rise con gli occhi bassi, appena appena imbarazzato, poi conscio dello sguardo interrogativo di lei si affrettò a spiegarsi.
- Non sorridi spesso, ma quando lo fai... Bhe, è splendido...-
Il cuore non le batteva più, le si era proprio fermato... E per un attimo ebbe come la sensazione che il groviglio di pensieri negativi, paure e angosce si fosse sciolto, svanito nell'aria con tutto il resto.
Era come se nell'intero Universo esistessero solo loro due, i timidi sorrisi e quell'odore pungente di caffè amaro.
  
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