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Autore: Nirvana_04    29/08/2016    12 recensioni
"La vita è piena di fatiche, spesso ha il sapore del sale e del ferro. Assapora attentamente i momenti dolci."
Suo padre glielo disse quando ancora era un bambino, ma quella frase ha accompagnato l'intera vita di Kira; e lo fa anche quando, ferro alla mano, conquista Svea.
Il suo passato è sofferenza, il suo futuro è rosso come il sangue e bianco come la roccia che serpeggia nel cratere, al centro di Menrva. Sono i colori della vendetta e del dolore, e non troveranno ragione né riscatto se non negli occhi smeraldo della fanciulla con i capelli in fiamme e gli echi della Dea nel nome.
A volte, però, questo non basta...
Prima classificata a pari merito e vincitrice del premio "Stella d'oriente", per il miglior stile, al contest "Stelle d'Oriente" indetto da Dollarbaby e valutato da missredlights sul forum di Efp
Prima classificata al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La prima crepa




Svea è la capitale. Sita in un cratere sedimentato di roccia lavica, il suo cuore batte sospeso al centro di una spirale di mesolite. Il candore del minerale si dirama in mezzo al bruno della pietra circostante, formando il motivo perfetto dell’aurea figura e raggiungendo con le sue spire più esterne perfino le rupi che la circondano.
Kira ne è affascinato. I saggi Ban’gh raccontano di come sia la tangibile visione della magia che tiene intrappolati i Demoni sotto gli strati di roccia e che garantisce agli sveani e alle città-stato del regno di Menrva di prosperare nella pace da più di milleduecento anni, ma a lui interessa solo perché gli ricorda la forma dell’ammonite che sua madre tiene legata al collo. Ogni volta, quando deve seguire il padre nel lungo pellegrinaggio da Darsta fino a Svea, per prendere parte al grande serraglio che si tiene annualmente nella capitale, eccitazione e nostalgia si accapigliano in fondo allo stomaco. Il viaggio è lungo e noioso, e Kira non fa che pensare agli alberi di pesco e alla voce di sua madre. Così, quando finalmente arrivano in prossimità del cratere, il bambino si tende oltre il bordo del carro alla ricerca di quel simbolo; e quello, puntualmente, appare cangiante di brillanti riflessi sotto l’irta rupe. Kira ne segue le linee curve nascoste sotto i tralicci della città, mentre, sbatacchiando assieme alle merci, discendono la stradina serpeggiante che degrada verso il cratere.
La città è stata costruita sopra tralicci di ferro e ossidiana, i quali la sostengono alcune braccia sopra la fragile roccia. Trentadue ponti, ognuno costruito verso un punto indicato dalla rosa dei venti, conducono verso altrettanti portoni d’ambra, infissi tra le mura in mattoni e rivestiti da quarzite gialla. La città stessa sembra fatta di pietre preziose: lo scheletro di ferro e ossidiana sostiene grandi e sottili muri dagli ampi serramenti; non ci sono altre porte per le vie, solo tende che si gonfiano e veleggiano sotto la forza di un vento imperituro, violento. Sembra che tutti i profumi del mondo confluiscano lì.
Il mercato si tiene per le vie del centro, in prossimità delle grandi quattro piazze della città, e coinvolge l’intero cuore di Svea. I mercanti giungono da tutta Menrva per fare i loro affari e condurre i loro scambi; gente di ogni ceto sociale urla a gran voce e intavola lunghe trattazioni. Il banco delle leccornie è il suo preferito; come ogni volta, prega suo padre di sistemare la merce vicino a quella dei dolci. È un uomo gentile suo padre, ma ogni volta scuote il capo, seccato. Kira mica vuole comprarli, sa che costano troppo per loro. Eppure il loro profumo inebriante stimola i suoi sensi e interagisce con le voci della folla e i liuti degli artisti di strada, partecipando a quella sinfonia che inebria il corpo e gli riempie l’anima.
Suo padre ferma il carro nel solito posto, tra la verdura dei contadini del sud e i falegnami del nord. Poco oltre Kira sa esserci i mandriani con i loro destrieri nei recinti improvvisati e poi ancora, sulla via a est, gli artigiani di Lirth; tra questi ultimi, proprio a ridosso della piazza dei mercanti di Canbel, c’è la bambina con i capelli rossi. L’anno scorso ha scoperto il suo nome: Demera, derivato da quello della dea Demel. Anche la bellezza che possiede è paragonabile solo a quella divina. Kira ha deciso che quest’anno le parlerà; chissà, forse giocheranno pure assieme.
Suo padre lo tiene con sé ancora un po’: il bambino lo aiuta a sistemare le merci e ad attirare a gran voce i clienti. I primi si accostano al carretto con sguardi critici. Suo padre vende frutta buonissima, succosa e dolce; ma i signori tentennano nel comprarla, a sentir loro non ha un bell’aspetto come quella del carretto accanto. Le trattative vanno per le lunghe, suo padre ne è completamente assorbito, e Kira teme di invecchiare ascoltando i discorsi sul colore che dovrebbero avere le pesche mature e sulla giusta consistenza delle nespole. Vorrebbe tirare un calcio a quel vecchio bacucco che la sta tirando da mezz’ora sul prezzo e del suo punto di rassegnarsi quando suo padre si gira un attimo verso di lui. È determinato suo padre, deciso a vincerla quella battaglia, ma al figlio regala un sorriso veloce e un cenno d’intesa: è libero.
Kira esulta e corre in mezzo alla folla. Getta uno sguardo intorno, sempre incuriosito da tutta quella caotica, festante agitazione, e in un attimo si sente invincibile, ingigantito da quella surreale prospettiva: con uno sguardo, gli sembra di poter abbracciare l’intero mondo. Lancia un’occhiata piena di desiderio ai dolci, ascolta da sopra un basso muretto i suonatori di strada provenienti da Karass. Si fa largo tra le gambe della gente e riesce a rubare qualche immagine fugace di una danzatrice di Vilant e ad assistere alle acrobazie dei saltimbanchi di Ur. Finalmente giunge nella piazza dei mercanti di vesti, gli apprendisti dalle divise rosse che invitano con un sorriso la clientela ad avvicinarsi alle loro mostre. Quella parte del grande mercato è più silenzioso, il brusio più effimero e dolce, quasi come uno strumento accordato: nessun suono acuto, alcuna voce stridente. I passi della gente sono più felpati, la folla più ordinata; persino i bambini ridono con toni sommessi, un po’ falsati dalla compostezza.
Kira rallenta il passo e vaga quasi casualmente tra le stoffe e i veli colorati tesi tra un tendone e l’altro. La gente cammina nella fresca penombra, i sandali calpestano basoli lisci, e persino il vento acquieta la sua grassa voce. Tutto appare delicato e sereno, sospeso. Da lontano, Kira tiene d’occhio la figura di Demera: la bambina sta ridendo mentre improvvisa qualche passo di danza. È una figura sottile, dai gesti leggiadri, accennati in punta di piedi; e ha un bellissimo sorriso, dolce come quello di sua madre.
È pronto. Prende un respiro profondo, si stampa un sorriso in viso e si avvicina con passo sicuro. Ma qualcosa lo fa inciampare e rovinare a terra. Sente la loro risata sghignazzante prima ancora d’incontrare i loro visi. Un gruppetto di tre ragazzini, più grandi e meglio vestiti di lui. Gli stanno dicendo qualcosa, forse commentano i suoi sandali sporchi di terra, o le sue mani sbucciate, a lui non importa. Kira ha occhi solo per la bambina dai capelli rossi e la pelle d’ambra; anche lei lo sta guardando. Sente il viso infiammarsi e un cocente rimescolio allo stomaco dargli la nausea. Si alza di slancio, i bambini si ritraggano sorpresi, ma lui li ignora e corre via. Vaga, controvento e senza una meta, infastidito dal brusio e dalle note discordanti che fischiano nelle sue orecchie.
Quando finalmente torna al bancone della frutta, suo padre sta sospirando, ma appena lo vede subito ricompone sul suo viso un’aria gioviale. «Già di ritorno?» Il suo babbo si piega verso di lui, ma Kira si siede malinconico sopra a una cassa riversa, la testa china.
Non dice un’altra parola, suo padre. Lo lascia lì e si allontana. Nessuno si avvicina alla loro merce, il bambino è libero di crogiolarsi nel ricordo della sua figuraccia. Per un anno aveva aspettato quel momento, ed era riuscito a rovinarlo. No, non lui, quei ragazzini coi vestiti di seta e i bracciali d’ambra. Kira avrebbe dovuto picchiarli, di sicuro sarebbe riuscito a batterli. Era stato un vigliacco, Demera lo avrà visto scappare e avrà pensato che era stato un vigliacco.
Quando suo padre torna, ha in mano un piccolo dolcetto. Lo spezza e dona la parte più grande a lui. È serio in viso quando gli sussurra: «La vita è piena di fatiche, spesso ha il sapore del sale e del ferro. Assapora attentamente i momenti dolci.»
Kira annuisce e morde con rabbia il pezzetto di dolce: sa di malinconia ed è un po’ salato, ma forse quella è colpa delle sue lacrime. Il suo sguardo è attirato di nuovo dal loro bancale; quasi tutta la merce è ancora lì. Guarda il suo babbo e, un po’ dispiaciuto, lo ripaga con un mesto sorriso; il resto del dolce lo mordicchia con parsimonia, assaporandone appieno la croccantezza e l’aroma caramellato. Quasi non si accorge che la bambina dai capelli rossi si è avvicinata al loro banco. Ne ode la voce – è così melodiosa – mentre si rivolge a suo padre. Vuole compra una pesca, una pesca gialla, quella preferita anche da Kira. Demera sorride e nel farlo guarda Kira con un’espressione incoraggiante; poi se ne va.
Mentre, con il tramonto alle spalle, lui e suo padre mettono via la merce, Kira pensa allegramente di aver assaporato il sale della vita, ma più di un momento dolce.
 
 
Kira ha quattordici anni quando scopre il sapore del ferro: sua madre non sta bene. La sua pelle è pallida e traslucida; il viso è incavato e sotto gli occhi due ombre violacee ne abbruttiscono i lineamenti. Suo padre tentenna per alcuni giorni; poi, disperato, decide di affrontare il lungo viaggio verso la capitale.
Non sono gli unici: gente di tutto l’est sta emigrando verso Svea in cerca dell’aiuto dei saggi Ban’gh. Kira vede donne malate sui carri e uomini che si appoggiano a dei bastoni per avanzare. Un nuovo nemico, infine, è giunto a colpire Menrva: la malanera. La sua avanzata è subdola e la sua forza inarrestabile; gli uomini cadono e i più muoiono lungo il pellegrinaggio, agonizzanti.
Kira lancia occhiate alle sue spalle, impaurito per la sorte della madre; ma è quando il padre inizia a mostrare i segni della stessa malattia, che il giovane inizia a temere il peggio. Dapprima, l’uomo rallenta il passo, il suo respiro si fa affannoso e chiede più volte di sostare un po’ ai margini della grande arteria principale, l’unica strada diretta che taglia i monti e giunge diritta fino al cuore del regno. Kira gli trova un bastone con cui sorreggersi e si prende la responsabilità di guidare il carretto e la mula che lo traina. Ma poi l’uomo non riesce a stargli dietro e incespica più volte; allora il ragazzo lo aiuta a distendersi accanto alla moglie e guida la mula al passo, tirando le briglie e macinando a piedi le leghe che rimangono dinanzi a loro.
Una fiumana di volti pallidi e stanchi scorre tra le rupi e si riversa nel cratere. Sembra che l’est si sia svuotato della sua gente, tanto che Svea viene sommersa come un formicaio straboccante di formiche. La processione di malati intasa i ponti a est e innervosisce gli animi; e quando le guardie sbarrano i portoni d’ambra, il panico attanaglia le viscere degli uomini e rompe la patina ovattata che li ha avvolti fino a quel momento. Kira si ritrova a tenere la mula dalla capezza e a condurla indietro: Svea sta cercando di isolarsi ed evitare il contagio.
Stringe i dente, ma non vuole arrendersi, non ora che a un passo dalla sua meta. Comincia a trafficare con i finimenti che legano la mula al carro di legno. Poi aiuta il padre a montare sull’animale, e con uno sforzo fa lo stesso con la madre. Li guida verso i ponti dell’ovest. Lì, la vigilanza è ancora al minimo e, nascondendo i genitori sotto i grandi mantelli, ottiene l’ingresso in città. Il padre riesce ancora a tenere la schiena dritta e, avvolgendo la moglie con le braccia, dissimula la loro spossatezza.
Kira lancia uno sguardo indietro quando sente le urla: altri hanno cercato di fare lo stesso, ma sono stati bloccati dai soldati. Un reparto armato sta correndo lungo la via per dare manforte ai commilitoni. Kira si avvolge la stoffa di lino attorno alla testa e prosegue dritto, dando mostra di sicurezza, mentre dentro, invece, brividi di terrore lo assaltano a più ondate. Le mani gli sudano e la paura cresce, ma in mente ha solo un viso, ed è quello che insegue tra le vie e i quartieri della città. Finalmente giunge al tempio della dea e i suoi occhi scartabellano i gradini, in cerca di Demera: la fanciulla è stata accettata tra gli adepti e da un anno a quella parte vive nel tempio. Ma ora non è lì; probabilmente è chiusa nella sua cella o forse si trova nei giardini dell’edificio o nella mensa con le consorelle. Dopo alcuni momenti di esitazione in cui teme di attirare l’attenzione, decide di legare la mula a una vecchia staccionata e risalire la gradinata. Dentro, le sacerdotesse della dea Demel si aggirano confabulando fittamente tra loro, ma nessuno fortunatamente lo ferma. Nella grande navata del tempio, molti uomini e donne della città si sono riuniti per cercare conforto e chiudersi nel loro silenzio di preghiera. Kira non ha mai avuto modo di affidarsi alla dea; forse perché nell’est il loro dio Kam ha legato la loro fede ai campi e alla bruta forza ed è attraverso il lavoro che lo pregano e lo venerano.
Demera è alla fonte, nei giardini interni. Seduta ai piedi della piccola statua della dea posta al centro della vasca e traboccante spruzzi d’acqua, la sua amica d’infanzia lascia che il vento le scompigli capelli rossi e che gli ultimi raggi del sole ne infiammino i riflessi. In quella visione, sembra proprio il ritratto di una creatura celeste.
«Demera!» Pronuncia il suo nome come un’invocazione.
La giovane sembra attenderlo. Non appena lo individua, si alza e gli corre incontro, gettandosi tra le sue braccia. «Kira, ho temuto per te. Come hai fatto?»
«Ho usato i ponti occidentali» spiega, e nonostante la fretta si ferma ad ammirare l’azzurro limpido dei suoi occhi. «Ho bisogno del tuo aiuto. La mia famiglia…»
Una ruga di dispiacere compare sulla perfetta fronte di lei. «I Ban’gh hanno già invocato l’aiuto della dea.»
«I miei genitori hanno bisogno di una cura» sbotta incollerito. Paura e stanchezza lo fanno delirare, mentre vorrebbe solo lasciarsi andare a un pianto consolatorio.
Demera apre la bocca senza emettere alcun suono. Lo stringe forte a sé e gli asciuga le lacrime con la tunica. «Le sacerdotesse e i Ban’gh hanno parlato. Non c’è cura mortale che possano usare sulla malanera, poiché essa è la maledizione scagliata dai Demoni che dalle propaggini della terra cercano di ribellarsi.»
«Scuse, solo dannate scuse!» inveisce. «Quali Demoni? Non ci sono Demoni! Né Dei! Solo uomini!» La scosta da sé e cammina su e giù per un pezzo di sentiero pietroso. Sente la calura del sole a picco ingannare i suoi occhi, vede i contorni della fontana sbiadire. «La malanera è una malattia degli uomini. Può essere curata dagli uomini. Deve esserci un modo!» La sua voce attira gli sguardi di alcune adepte, che corrono via impaurite.
«Se c’è» gli dice dopo alcuni secondi di silenzio, «io non lo conosco.» E poi sussurra a denti stretti, spaventata dalle sue stesse parole: «E nemmeno i saggi Ban’gh.» È spaventata, glielo legge nella voce, da come respira, da come lo guarda. Demera è nata e cresciuta in una di quelle città in cui il culto della dea Demel è radicato. Lei ha sempre pregato e avuto fede. Chissà quanta forza deve esserci in lei, adesso che i saggi Ban’gh hanno mostrato la loro fallace conoscenza.
Kira vorrebbe calmarsi, ma a lui pare di rassegnarsi. «Si può guarire col tempo? C’è una… speranza?» chiede, al limite del pianto.
«Nessuno è guarito finora.» Abbassa lo sguardo, non riuscendo più a sostenere il suo, e altre lacrime le rigano il viso.
A un tratto la stanchezza di quei giorni lo ghermisce, e Kira crolla a terra. Sente le mani di Demera, la sua amica d’infanzia, stringergli un braccio, tastargli il petto, ma non riesce più a vedere il suo volto, il suo bellissimo volto. Quel volto che ha inseguito lungo la strada, per anni, nei momenti duri, faticosi, disperati, adesso quel volto è ancora una volta a poche spanne dal suo, eppure non riesce ad afferrarlo. Vorrebbe stringerlo, toccarlo, sfiorarlo, ma non ce la fa. La vista è appannata, il fiato si è fatto raschiante, incerto. Per un po’ esiste soltanto il calore di Demera, ma neanche quello è in grado di dargli sollievo dai brividi che lo attraversano.
A riscuoterlo sono le urla che giungono dal tempio. Si piega su un fianco, incerto.
«Aspetta» cerca di fermarlo.
«Devo andare dai miei genitori. Restare qui non serve.» Le sue parole sono incolori, la sua voce riecheggia come proveniente da lontano.
«Ti prego, Kira» lo supplica, afferrandolo per la tunica. Il suo strattone è violento e per un attimo lo fa barcollare. «Resta con me. Non uscire. Io… resta qui ancora un po’. Il tempo che si calmano.»
Calmarsi? Chi si deve calmare?
Quelle voci confuse nella sua testa iniziano ad acquisire un senso.
I suoi genitori!
Kira si libera dalla presa e corre fuori, ma ormai è troppo tardi. La malanera è un male insidioso che ha infettato gli abitanti di Svea ancor prima del suo arrivo in città. La paura del contagio ha incattivito le genti e fatto dilagare la follia per le strade. Kira vede il sangue sulle gradinate, quello della mula sgozzata; suo padre è agonizzante sotto il suo peso, l’elsa di una lama che sbuca dal petto, mentre sua madre è colpita a bastonate dagli uomini avvolti nell’armatura, incitati dalla folla.
Kira urla, prova ad avvicinarsi, ma la gente ha serrato i ranghi e non gli presta attenzione, la psicosi degenera nei loro sguardi spiritati. Qualcuno si apre un varco verso il centro della massa; regge una torcia accesa.
«Kira!» urla Demera nelle sue orecchie, raggiungendolo.
Ma lui non si gira, i suoi occhi guardano fissi l’uomo dare fuoco alla madre e poi al padre, entrambi ancora vivi. La madre, pensa confuso, non parlava da giorni ormai; eppure adesso sta urlando. Urla, come il padre bloccato sotto la carcassa del quadrupede; ma lei è ancora in piedi, e il fuoco e il dolore atroce la spingono a dimenarsi e a correre fin quando anche l’ultima scintilla di forza non la consuma; allora resta a terra, preda di convulsioni e gemiti.
Geme, in fiamme. E il calore di quelle fiamme brucia anche Kira, sfregiandone irreparabilmente il cuore.
 
 
Stringe in mano l’ammonite, la sua forma si riflette tra le trame della mesolite sotto i suoi piedi. Kira è ai margini del cratere, sotto la rupe, e il suo sguardo cerca di imprimersi a fondo la visione di Svea.
È malato, lo sente. La malanera ha colpito anche lui, lo ha capito dallo sguardo di Demera. È stata lei a recuperare il guscio del mollusco dal corpo della madre, e sempre lei è riuscita a nasconderlo una notte in una cantina, e ancora lei a farlo uscire indenne dalla città.
«Resta con me» gli ha detto, stringendogli il viso.
«Ti contagerei.»
«Fammi venire con te» lo ha supplicato, tenendolo per il mantello.
«Il tuo posto è qui, è sempre stato questo. Io… questo lo capisco, ha senso. Tu sei bella come lei.» Solo la febbre è riuscito a farglielo confessare. Ma quando lei gli si è aggrappata, lui l’ha allontanata. «Tornerò. Io… ti voglio rivedere.»
«Troverai una cura» gli ha detto, e i suoi occhi hanno pianto, mostrando i segni dell’illusione a cui lei stessa si voleva aggrappare.
«Certo» le ha tenuto il gioco, «tornerò da te.»
«Ti aspetterò. Pregherò.»
Pregherà…
Adesso Kira si lascia cadere contro la roccia, il guscio vuoto stretto in mano; stranamente è rimasto illeso, senza uno sfregio, ma questo non fa che beffeggiare il suo stato d’animo. I suoi occhi sono lucidi, ma nessuna lacrima gli bagna il volto, la pelle le ha assorbite tutte quante.
L’amore e la speranza a cui si è aggrappato in quei giorni di esodo vengono lentamente sostituiti dalla rabbia e dall’odio. I suoi genitori sono stati messi al rogo, lui non ha potuto salvarli. La malanera sta per prendersi anche lui, ma nel frattempo l’odio cresce in lui e con esso la voglia di vivere ancora un po’. Vuole vivere per vendicarli; vuole vivere per vederla bruciare, le gemme dorate di quella città finalmente scarlatte. Ma è stanco, sente che non riuscirà a fare molta strada; probabilmente morirà per fame prima che per la malattia.
È la rabbia che gli fa scagliare l’ammonite contro la pietra, e quella, quasi per ripicca, finalmente si spezza contro uno dei più sottili tentacoli della spirale bianca, quello che quasi sfiora la parete verticale. L’ultimo legame con la madre, l’ultimo ricordo della sua famiglia, s’infrange contro la dura roccia, liberandolo dall’ultima catena. L’odio dirompe.
E mentre la sete di sangue ribolle nelle sue vene, una nuova forza cresce in lui, insieme alla consapevolezza di un domani di caos e terrore. Perché, gli risuona nella testa mentre avanza a ridosso della rupe, se la paura li ha fatti insorgere contro di lui, il terrore li avrebbe sepolti vivi.
   
 
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