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Autore: Restart    29/08/2016    0 recensioni
1934, Montereau Fault Yonne
Jean Lucas stringe un patto con Marion Rousseau, a causa della partenza di lei per Parigi: si dovranno sposare diciotto anni dopo.
La guerra, le perdite, i chilometri di distanza li divideranno inesorabilmente. E la loro speranza di rivedersi si affievolisce ancor di più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Enya – Only time
 
Bordeaux, Francia, 
26 agosto 1944
      
      Cosette spense l’ultima sigaretta nel portacenere rosa che conservava davanti alla finestra di cucina. Quando il mozzicone fu definitivamente spento, chiuse le persiane verdi scrostate e stinte dalla luce del sole. La stanza era crollata in una gradevole penombra e non si sentiva più il caldo soffocante gravare sulle spalle come un macigno. Cosette girò un po’ attorno al tavolino, guardandosi attorno e costatando uno squallore non indifferente.
       La piccola casa era divisa in due stanze: la prima era una sorta di cucinotto, dove si ergeva una catasta di piatti da lavare che dava subito nell’occhio. Il tavolino da quattro persone era stato appoggiato alla finestra della cucina per sfruttare meglio la luce naturale la sera per cenare; le sedie erano tre, e nel complesso erano i mobili più nuovi che si poteva trovare in quella casupola. C’era ancora, sopra la tavola, la tovaglia a fiori macchiata di vino rosso e tre piatti sporchi di cibo e bicchieri mezzi pieni di liquido nero.
       La seconda stanza era quella da letto, dove un letto con un materasso da una piazza e mezzo catturava l’attenzione di un ospite; le lenzuola, una volta bianche, ora erano sgualcite e sudice, come se non vedessero il sapone da mesi; i cuscini, bassi e consunti, erano a terra, come reduci di una feroce guerra; la rete e il bandone erano incrostati da un lieve rossore che con la fievole luce che filtrava dalle persiane si riusciva a vedere malapena. Un mobile di legno da quattro soldi era rifilato in un angolo; i cassetti larghi e profondi erano aperti e da essi uscivano abiti dozzinali e scadenti e tutti di colori smorti. Sopra il mobile poggiava una cornice elegante e preziosa che nel contesto in cui si trovava stonava e non poco. Aveva i bordi decorati da girandole in argento e ritraeva quella che all’apparenza sembrava una famiglia felice. Un padre, una madre, una figlia e un figlio neonato. Cosette si avvicinò al mobiletto e sfiorò il bordo della cornice con tristezza e malinconia. Il viso di suo padre, che nella foto aveva poco più che trentaquattro anni, era bello e fresco come quello di un ragazzo. Benché la fotografia non lo permettesse, lei poteva vedere il blu dei suoi occhi di lui brillare davanti all’obbiettivo. Le stesse identiche iridi di quando l’aveva incontrato due giorni prima. Aveva i capelli striati di grigio e non portava più i baffi come vent’anni prima. Il viso era solcato da leggere rughe, ancora troppe poche e lievi per un uomo di cinquantaquattro anni. Aveva addosso abiti eleganti e lussuosi e la ragazza che gli camminava accanto, col suo vestito rosso stretto in vita (un vitino da vespa che Cosette le invidiava e non poco) e scarpe nere lucide. Lo aveva visto dalla vetrina della bottega dove lavorava da due anni. Lui si era fermato sul marciapiede perché la ragazza lo stava supplicando di entrare. Alla fine aveva ceduto e non appena messo piedi nella stanza piena di stoffe colorate, aveva incrociato lo sguardo chiaro di Cosette e si era bloccato. Lei aveva sentito lo stomaco stringersi per i ricordi, per i dolori, per la memoria di Nathalie, sua madre, morta nella sua piccola casa a Montereau, mentre abbracciava una fotografia, l’unica rimasta della sua famiglia. Sua madre morta nel silenzio, nell’attesa di un uomo che non la meritava, senza nessuno vicino che potesse vederla un’ultima volta.
       Insomma, mentre la ragazza volteggiava felice tra le stoffe colorate, ascoltando consigli da Madame Lacourt, l’allegra vedova proprietaria della bottega, l’uomo, che si era appurato fosse suo padre, guardava sottecchi l’altra figlia, quella povera e illegittima che cuciva un delizioso abito azzurro in maniera così scrupolosa e precisa che pareva una macchina. Si avvicinò silenziosamente alla ragazza, con le mani dietro la schiena e gli occhi puntati sul pavimento.
      “Buonasera” aveva detto a bassa voce, continuando a guardare le mattonelle bianco ghiaccio pulitissime. Le aveva lavate Cosette poche ore prima, quando doveva tornare a casa per mangiare, ma era rimasta lì volutamente per evitare di entrare in quel buco pulcioso che era casa sua. La ragazza alzò lentamente gli occhi dal suo lavoro e lo fissò.
      “Buonasera” rispose meccanicamente. “Desidera?” L’uomo sorrise lievemente, facendo arricciare le rughe ai lati degli occhi e della bocca.
      “Cosette? Cosette Lucas?” chiese con un filo di voce. La ragazza annuì leggermente, sorpresa dal fatto che lui l’avesse riconosciuta. Anche lui la imitò, continuando a sorridere. Si avvicinò e fece per prenderle la mano, ma lei si ritrasse velocemente impaurita dalle intenzioni dell’uomo. Ma lui non si fece scoraggiare dalla diffidenza della giovane e continuò nel suo intento. La appoggiò le labbra sulle dita gelide della mano destra e si ritirò su subito dopo con un sorriso stampato sul volto leggermente abbronzato.
       “Sei identica a Nathalie” pronunciò il nome della donna con somma malinconia. Lo sguardo celestiale si era rabbuiato. Il sorriso si era fatto meno largo e gioviale. Anche il solo pronunciare il suo nome gli era costato uno sforzo immenso, un dolore indicibile. Cosette non immaginava quanto avesse sofferto a lasciarli, quante notte insonni avesse passato a pensare i capelli corvini di Nathalie, gli occhi neri sempre sorridenti, il naso delicato e la bocca aperta in un sorriso pieno d’amore.
      Nathalie che parlava nel sonno;
     Nathalie che gli baciava la punta del naso prima che partisse per i viaggi di lavoro che in realtà erano solo visite alla moglie Jacqueline e i figli che lo credevano in un lungo viaggio di lavoro in Germania;
    Nathalie che si lavava le mani continuamente e che si toccava il naso ogni volta che parlava;
   Nathalie che teneva in casa decine di libri ma non sapeva leggere nemmeno una parola;
   Nathalie che amava con più di lui stesso, ma che aveva abbandonato al suo destino in quella casa grande come un buco.
  Nathalie che ora era solo un ricordo e niente più.
     “Come sta?” Cosette sprofondò in un doloroso sconforto. Sentì la bocca secca e gli occhi umidi.
   Due parole, sette lettere per mandarla in tilt.
      “Nathalie, mia madre, è morta nel bombardamento di Montereau del 1940, mentre io e Jean eravamo stati mandati qui a Bordeaux da mio zio Pierre.” L’uomo era visibilmente sconvolto. Aveva la faccia di uno a cui erano appena state tagliate le gambe.
      Distrutto.
     Gli tremavano le mani e sulle guance abbronzate erano segnate da rigoli di lacrime amare. Non riusciva ad accostare una figura così piena di vita come era quella della donna, a l’immagine della morte. Guardò Cosette che continuava a fissarlo in viso, con lo sguardo gelido che la rendeva sicuramente figlia sua.
       “Papà, tra poco ho fatto. Dopo andiamo in pâtisserie a prendere il dolce per Maman” il forte accento bretone dell’altra figlia s’insinuò nella conversazione tra i due. L’uomo rispose con un leggero sì e la ragazza tornò a discutere con Madame Lacourt a proposito del tessuto dell’abito. Nel frattempo il padre aveva estratto un fazzoletto bianco dal taschino della giacca e si era asciugato gli occhi con gesti lenti. Cosette era tornata al lavoro, perché l’abito era per la principessa Elisabetta d’Inghilterra e andava finito quella sera per poi essere spedito a Londra, insieme a quello di sua sorella. La ragazza era rimasta stupefatta quando qualche giorno prima Madame Lacourt era arrivata a lavoro con una bottiglia di vino e dei bignè per festeggiare questa importante richiesta. E aveva parlato di buona pubblicità grazie al lavoro che avevano svolto l’anno precedente quando una star di Hollywood era finita per caso nella loro bottega ed era rimasta incantata da un abito che stavano preparando per una signora del posto. L’anziana raccontava questo mentre s’infilava un dolce pieno di crema nella bocca, insudiciandosi le labbra. Cosette l’ascoltava sorridente con in mano la sua porzione di gioia racchiusa in un contenitore di pasta choux riempito di panna soffice e deliziosa che solo l’odore la faceva andare su di giri.
         Gli mancavano solo le ultime rifiniture e sarebbe stato pronto per essere impacchettato e spedito. La stoffa azzurra era morbida e scivolava velocemente sotto le sue dita abili. Quando cuciva si sentiva una superstar e niente e nessuno poteva batterla. Era il suo ossigeno. Quando dette l’ultimo punto e spezzò il filo, guardò la sua opera. E solo allora si accorse che il padre era ancora nella stanza e la fissava con orgoglio.
        “Sei brava sarta e sono sicuro che sei anche una brava ragazza. Non voglio perderti ancora, voglio incontrarti di nuovo, magari insieme a tuo fratello” fece una pausa ed estrasse dal taschino un cartoncino bianco dove battuti a macchina c’erano una manciata di numeri e di lettere. La ragazza distinse quello che era anche il suo cognome, Lucas, e il nome che lo precedeva, Xavier, il nome che sua madre non le aveva mai voluto dire. Sorrise per ringraziarlo e se lo infilò nel reggiseno. “Seriamente, Cosette, io voglio rivederti. Tu e Jean siete miei figli quanto Marjorie e Arthur. Sarebbe bello che diveniste amici. Che vivessimo insieme” un sorriso zuccheroso decorò il suo viso stanco.
         “È troppo tardi per voler vivere insieme alla tua famiglia illegittima. E poi Jean ora è impegnato nell’esercito, fa il soldato. Non lo vedo più da mesi ormai. Ci sentiamo solo per lettera. Comunque ci penserò” concluse gelidamente lei accompagnata da un veloce innalzamento degli angoli della bocca.
         “Grazie, e saluta Jean da parte mia nella prossima lettera. Ah, e dopo domani ma moglie e i ragazzi vanno a La Rochelle da mia suocera. Sono a casa da solo, quindi sarebbe un ottimo pomeriggio per vederci. Dietro al cartoncino c’è il mio indirizzo”
         “Ci penserò” ripeté secca. Con un cenno del capo Xavier incassò il colpo e si allontanò con un accenno di sorriso che illuminava il suo volto.
         Due giorni dopo, Cosette aveva ancora il cartoncino chiaro infilato nel reggiseno ed aveva paura a toccarlo. Quello era il giorno dove avrebbe dovuto vederlo, in cui si sarebbero dovuti incontrare e parlare di quei vent’anni di vuoto, di buio. Non una parola, niente. Controllò il piccolo orologio da polso e con grande frettolosità radunò gli oggetti sparsi per il pavimento e cercò di riporli nei loro posti originali. Prese la grande cesta dall’angolo dove era stata riposta a prendere polvere e ci infilò le lenzuola incrostate, le federe sciupate e le portò di corsa giù dalla lavandaia, sua unica vera amica in tutto il condominio. Era una donna di circa quarant’anni con una figlia di venti che abitava a Parigi e che aveva preso Cosette sotto la sua ala protettiva non appena aveva trovato casa in quel palazzo fatiscente. Una ventina d’anni prima doveva essere stata bella, con i suoi profondi occhi scuri e i capelli lunghi e morbidi, ora sempre raccolti in un’acconciatura rigida che lasciava intravedere qualche ciocca bianca. Le sere d’inverno, quando non erano impegnate, condividevano un unico camino per risparmiare la legna e si raccontavano le loro storie. Yvonne le raccontava di quando era stata una ballerina molto brava e popolare e a diciannove anni si sarebbe dovuta unire al corpo di ballo de l’Opera di Parigi, ma s’innamorò di un artista di New York e scappò dalla casa dei genitori per andare in America. Un anno dopo si ripresentò alla casa paternale con gli occhi gonfi dalle lacrime, il cuore spezzato e una bambina in braccio. Aveva avuto la grande fortuna di essere riaccettata in famiglia così poté crescere la figlia senza tanti problemi. Si sposò in fretta e furia con un bravo ragazzo che faceva l’artigiano a Bordeaux. Così si trasferì dove ancora stava e cominciò a lavorare come segretaria, ma fu licenziata dopo qualche anno perché venne fuori che tradiva il marito. Così lui la lasciò prendendosi la bambina e si trasferì a Parigi. Lei finì nel palazzone in periferia a fare la lavandaia e, per arrotondare, concedersi a qualche piacere. Durante l’occupazione i suoi unici clienti erano dei soldati tedeschi che avevano bisogno di sfogare la loro frustrazione per la lontananza dalle mogli. E qual miglior sistema che una puttana? In compenso loro gli facevano recapitare rifornimenti alimentari, abiti e quant’altro che lei poi dava alle persone che ne avevano più bisogno che di lei. Le bastava quello che aveva, il suo lavoro di lavandaia le aveva già beneficiato in abbondanza per una che viveva in un monolocale ai bordi di Bordeaux e poi aveva qualche soldo da parte dell’eredità che le aveva lasciato il padre, ma che conservava per potersi trasferire un domani a Parigi, dalla sua Elodie.
      Cosette la trovò avvolta in uno scialle grigio mentre leggeva un piccolo libriccino sciupato. Strizzava gli occhi e allontanava il braccio dal viso di tanto in tanto per colpa della vista che la stava lasciando piano piano. Non appena sentì i passi svelti della ragazza alzò la testa dalla lettura e le sorrise.
       “Mia cara, mi ha portato un po’ di svago?” chiese indicando la cesta piena di lenzuola. Cosette annuì appena.
        “Quello di stamattina ha fatto un disastro, non posso presentarmi con delle lenzuola così al Capitano stasera” gli occhi erano velati di lacrime. Fare quello che ormai faceva da due anni ormai era diventata una vera necessità da un anno e mezzo, quando zio Pierre era morto lasciandogli tre bambini di tre, cinque e sette anni in custodia. Il suo stipendio della bottega non bastava mai a coprire le spese e quindi quello che prima faceva per comprarsi degli abiti nuovi o dei libri, o andare al cinema, era diventato necessario per comprare cibo, legna per l’inverno e stoffe per fabbricare abiti per i bambini che erano rimasti senza niente. Così aveva preso in affitto la stanza comunicante con quella che era la sua camera da letto e ci aveva fatto mettere tre brandine, un armadio e un mobile dove riporre tutti i vestiti nuovi che aveva comprato. Quei bambini erano il suo orgoglio e quindi faceva sempre in modo che non gli mancasse nulla. Anche se questo voleva dire lavorare di più sia in bottega che a casa. Quando lei lavorava, i tre andavano da Madame Pauline che abitava al piano di sopra. La donna era una vedova di circa sessant’anni, l’unica a non disprezzare lei e Yvonne e che soffriva terribilmente di solitudine. I suoi tre figli erano nelle Americhe e avevano dei figli che lei non aveva mai visto. Quindi quando Cosette bussò alla sua porta, con quei tre marmocchi appiccicati alla gonna, lei sorrise affabile e accettò di buon grado di badare loro quando la ragazza lavorava. Aveva insegnato a Monique, la più grande, a leggere, a scrivere e a ricamare. Raccontava a Mélanie, la mezzana, tutte le storie popolari e a Valére, il più piccolo, cantava le ninnenanne del suo paese. E Cosette poteva stare tranquilla.
         Mentre Yvonne lavava le sue lenzuola peggiori, Cosette era ritornata nel suo bilocale e aveva tirato fuori dal cassettone quelle migliori, quelle color avorio, con i bordi ricamati e con le federe nuove. Quelle le teneva solo quando sapeva che sarebbe arrivato il Capitano. Era un uomo giovane, biondo, con gli occhi azzurri e un sorriso gentile. Se con i suoi uomini lui era sempre severo e rigido, ma quando era con lei, diventava un’altra persona. Più affabile, dolce e premuroso, tanto che le faceva dimenticare che fosse un tedesco, che fosse un nemico. Quando lui le raccontava dei posti che aveva visitato, dei libri che aveva letto, dei quadri che aveva ammirato, lei si scordava di tutto e tutti. E anche il sesso non era come con gli altri; non era doloroso e violento, era piacevole, come dovrebbe essere. 
       Mentre infilava i cuscini dentro le federe sentì bussare alla porta. Corse ad aprire per paura che fosse lui, ma in realtà era il giovane studente di Medicina del quarto piano.
       “Buonasera Cosette, scusa il disturbo, ma ho un grande bisogno di te. Una ragazza che ho incontrato in boulangerie oggi. È rossa, con due occhi verdi come smeraldi e una meravigliosa risata. Mi devi annodare la cravatta, per favore” la guardò con occhi supplichevoli e il labbro inferiore tirato fuori. Cosette rise appena e si avvicinò a lui. Con abilità fece un nodo perfetto e il giovane ricambiò con un affettuoso bacio sulla guancia. Girò velocemente sui tacchi e salì le scale, mentre gli giungeva la voce della ragazza alle spalle:
        “Oh, Alexandre, ricordati dei fiori!”
      Richiuse la porta e si andò velocemente a vestire. Indossò l’abito rosso, quello buono. Mancavano sì e no quaranta minuti all’arrivo del Capitano così Cosette ebbe il tempo di finire di cuocere il gratin dauphinois, che aveva preparato il pomeriggio dopo che quei due se l’erano filata, e finire di prepararsi. Tirò fuori scatolina di legno bianca, che teneva nascosta tra gli abiti da tutti i giorni. Prima di aprirla rimase qualche secondo a fissare il suo nome scritto in bella calligrafia inciso sulla parte superiore. Era una della poche cose che gli erano rimaste di sua madre. Non l’apriva da qualche mese ormai, perché dopo quell’osceno appuntamento in brasserie con quello squallido matematico, non aveva più usato né il rimmel, né il rossetto rosso. Aveva anche una cipria opaca e la matita nera che aveva utilizzato solamente una volta per farsi il neo finto sopra il labbro superiore, come quello che si facevano le dive di Hollywood. Prese la cipria e se la passò con lentezza sugli zigomi prima di prendere il rimmel e scurire le ciglia già lunghe e scure e infine il rossetto. Era rosso fuoco, metteva in risalto le sue labbra grandi e carnose. Si fissò qualche minuto allo specchio e delineò la donna che era diventata. Non era più Cosette Lucas, la povera ragazza di provincia, che aveva adottato i suoi tre cugini e che per tirare avanti faceva la puttana. No, lei era come Marjorie, la sua sorellastra, che viveva in una villa con tutti i lussi possibili immaginabili, con due genitori che l’amavano e magari un diamante grosso come una nocciola al dito. Si passò le dita tra i capelli scuri che le arrivavano appena sotto le clavicole sporgenti. Non erano setosi, morbidi e profumati come sognava, ma era lo stesso. Una volta ogni tanto aveva i boccoli scuri che scendevano delicati sulle spalle. E a lei bastava così.
         Un leggero bussare la fece sussultare. Era in anticipo. Ampiamente in anticipo e lei non aveva ancora apparecchiato, sistemato la cucina e insomma era largamente indietro. Si fece prendere un attimo dal panico, mentre guardava la sua pallida immagine allo specchio.
         Un altro bussare e questa volta più forte, tanto che riuscì a girare la testa. Ma non si mosse, neanche di un passo.
         Un altro ancora, insieme alla voce dell’uomo, che era dall’altra parte della porta, chiamare il suo nome. Ma non era il modo meccanico e gracchiante in cui lo faceva Il Capitano. No, era una voce calda, l’accento francese e il tono familiare, troppo familiare.
         A grandi falcate raggiunse la porta e con un gesto veloce l’aprì. L’immagine davanti a sé non era quella robusta del tedesco; era solo un ragazzo di appena vent’anni, coi capelli troppo corti per il suo bel viso e gli occhi blu come il cielo.
         “Jean, cosa ci fai qui?” 







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Nota autrice;
Un capitolo piuttosto lungo per i miei standard in cui ho voluto approfondire un po' il personaggio di Cosette e quello che è diventata in soli dieci anni.
Anche questa volta ho messo il finale un po' sospeso, anche se il quinto capitolo ripartirà proprio dove finisce questo.
Come sempre, se avete dei commenti riguardanti alla storia soprattutto per il discorso temporale non esitate a farmeli notare; io faccio del mio meglio per scrivere tutto storicamente corretto, ma non si sa mai. 
Un  bacio e alla prossima
Restart
   
 
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