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Autore: Laylath    01/09/2016    4 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1. Vecchie conoscenze

 


Quel piccolo angolo di mondo, 31 agosto 1901
 
Quell’ultimo pomeriggio di agosto era piacevolmente caldo, ma già portava i primi segni dei venti freschi che annunciavano l’autunno. Dopo tre anni in cui l’estate aveva dato il peggio di sé, finalmente il tempo aveva deciso di concedere una tregua e di regalare a quel piccolo angolo di mondo una stagione calda con temperature accettabili.
Tutta la campagna sembrava godere di quel cambiamento: le cicale frinivano, i campi brulicavano di vita con decine e decine di insetti e altri piccoli animali che, forti di quel tempo mite, operavano industriosi per accumulare cibo per i mesi più freddi. Pure loro, dopo quei tre anni di netta siccità, apprezzavano quel clima più gentile. Ma era tutta la natura che pareva festeggiare quell’estate bellissima che ormai volgeva al termine: ogni prato, albero, fiore sembrava risplendere di una vitalità del tutto nuova, con colori e profumi così intensi da inebriare persino chi stava in quei posti da una vita intera.
 
In un sentiero che costeggiava campi incolti, la cui erba ed i fiori selvatici emanavano una fresca fragranza, passeggiavano due ragazze che si tenevano amichevolmente a braccetto mentre chiacchieravano con aria complice. Una bionda, l’altra mora, erano in quella fase della vita in cui si sboccia definitivamente in donne, abbandonando gli ultimi residui dell’adolescenza: i corpi giovani e vitali avevano perso le ultime indecisioni della crescita e anche dagli atteggiamenti, a partire dal modo di camminare, si denotava una maggiore scioltezza rispetto alla goffaggine spesso presente nel delicato passaggio tra l’essere ragazzine ed essere donne.
“Ho un grande annuncio da farti” dichiarò Rebecca, stringendo ulteriormente la presa su Riza.
“Annuncio? – la bionda si girò verso l’amica con aria sorpresa – Mi devo preoccupare?”.
“Spiritosa – mise il broncio la mora, risultando adorabile persino con quell’espressione tanto era vitale il suo viso abbronzato – se non fossi la mia migliore amica mi offenderei irrimediabilmente per questa mancanza di fiducia”.
“Suvvia, non fare così – sorrise Riza con aria di scusa, consolidando a sua volta la presa sull’altra – non vorrai rovinarti questo fatidico annuncio che stai tenendo nascosto da almeno due settimane. Come se non l’avessi capito che ti stavi trattenendo: dev’essere davvero qualcosa di importante”.
Gli occhi scuri di Rebecca fissarono per qualche secondo quelli castani dell’altra e fu come se, per un collaudato meccanismo, l’armonia tornasse tra di loro.
“Va bene, va bene – annuì la mora, assumendo un’aria di grande importanza – come sempre hai ragione. Dunque, come sai tra due giorni iniziano le scuole e noi siamo delle donne libere: il nostro periodo di prigionia tra i banchi è finalmente finito”.
Riza annuì a quella premessa, ben conscia che per entrambe quell’estate aveva avuto un gusto completamente diverso: era come se fosse stata il preludio ad una nuova fase della loro esistenza, ancora in parte sconosciuta e misteriosa, ma proprio per questo piena di attrattiva e aspettative. Niente più scuola, ormai avevano diciotto anni ed erano delle donne: le loro vite erano ad una svolta decisiva, sebbene non sapessero ancora cosa avrebbero trovato dietro la nuova curva del loro personale sentiero.
“… ci ho rimuginato spesso in questi mesi – continuò Rebecca – a dire il vero da inizio anno e sono arrivata ad una conclusione. Ho deciso che come riniziano le scuole…”
“… ti prego, non dirmi che vuoi diventare insegnante che proprio non ti ci vedo!”
“Nemmeno per sogno! – inorridì la mora – se la smettessi di interrompermi… dicevo: ho deciso che a partire dalla settimana prossima inizio a lavorare! Non ti pare una cosa grandiosa?”
“Lavorare?” Riza si fermò di colpo nel sentiero, tanto che diede un lieve strattone all’amica che invece aveva proseguito allegra nella camminata.
Questa sì che era una grande novità e, proprio come la maggior parte di quelle che riguardavano Rebecca, sembrava annunciare una catastrofe. A dire il vero non c’era niente di male in quella decisione, sebbene facesse davvero uno strano effetto sentirla dichiarare così apertamente.
Il nuovo secolo era ormai iniziato e, soprattutto nell’ambiente cittadino, le donne avevano man mano preso una nuova consapevolezza di se stesse e delle loro possibilità: ormai avevano l’accesso a molti mestieri prima preclusi e sembrava che, volente o nolente, la società si dovesse adeguare a questi nuovi cambiamenti. Ovviamente nel piccolo angolo di campagna dove si trovava il paese tutto questo arrivava in maniera molto più ovattata, come sempre succedeva: nonostante rare eccezioni come Laura Breda e la sua attività di sarta, le ragazze preferivano ancora vivere nel guscio protettivo della famiglia prima e del matrimonio poi, limitandosi a lavorare nelle attività dei genitori o del marito. Solo l’insegnamento era considerato qualcosa alla portata femminile, ma solo per quanto concerneva le classi elementari. L’educazione di una fanciulla si considerava terminata con il liceo ed erano ancora pochissimi i casi di ragazze che avevano deciso di proseguire gli studi all’Università. Anzi, a dire il vero, in paese l’unica persona che avesse intrapreso gli studi in città era stata Elisa, la nipote del proprietario della piccola libreria.
“Sì, lavorare – ribadì Rebecca con aria fiera – non ho certo voglia di starmene a casa fino a quando non diventerò la signora Havoc”.
“Mi raccomando di non dirlo a Jean, altrimenti scappa fino all’altra parte del mondo. Sai bene che è particolarmente allergico alla parola matrimonio”.
“Nonostante siamo fidanzati da oltre cinque anni”.
“E tu ne hai compiuti diciotto a marzo – le ricordò Riza – non correre così, suvvia. Ne avete di tempo!”
“La questione è che non ho nessuna intenzione di passare le mie giornate a casa con mia madre. Prima tra scuola e compiti ci poteva stare, ma adesso urge fuggire via per quanto possibile”.
“Se non litigate almeno due volte al giorno non siete felici, eh?”
“Non mi capisce, tutto qui, e io mi sono stancata di essere accomodante. Sono arrivata alla conclusione che non le piaccia Jean, ma rimane fresca se pensa che rompa il mio fidanzamento con lui”.
Riza sospirò con indulgenza, ben sapendo che Jean era forse l’ultimo dei problemi nel rocambolesco rapporto tra madre e figlia. Penelope Catalina non era certo una donna semplice da gestire, tutt’altro e non si poteva dire che fosse la miglior persona del mondo: bastava pensare che, a distanza di cinque anni, era ancora una delle poche che nutriva sentimenti di astio nei confronti di Laura Breda per via del suo status di donna separata. Rebecca aveva preso molto del suo carattere rumoroso, ma per fortuna aveva una maggior dose di buon senso… nella maggior parte dei casi.
“E questo fantomatico lavoro?”
“Senti che grande trovata: da lunedì andrò a lavorare nell’emporio degli Havoc. Non solo starò lontana da casa, ma avrò occasione di passare più tempo con Jean: non sai che strazio quest’ultimo anno scolastico in cui lui non c’era”.
“Oh sì che lo so – sospirò Riza, ricordando le tragedie durante gli intervalli in cui l’amica si era lamentata della mancanza del fidanzato – ma, tornando a noi, i signori Havoc lo sanno, vero?”
“Ovviamente no, sei la prima che lo sa”.
“Fammi capire, Rebecca Catalina – la bionda questa volta si fermò saldamente sul sentiero, obbligando anche l’amica a fare altrettanto – lunedì hai intenzione di andare all’emporio e annunciare che lavorerai lì senza aver chiesto niente a nessuno?”
“Sono la fidanzata di Jean, non vedo che cosa ci sia da chiedere. Anche la signora Havoc ha lavorato all’emporio da quando era fidanzata, ce l’ha raccontato lei stessa”.
“Sì, ma sicuramente si era messa d’accordo con il signor Havoc e anche con la sua famiglia. Reby, non puoi fare di testa tua: devi prima chiedere il permesso”.
“Ho diciotto anni, sono maggiorenne”.
“Non si direbbe dal tuo atteggiamento – sbuffò Riza – Insomma! Rischi di creare un sacco di problemi. Per prima cosa devi parlarne a casa e vedere se per i tuoi va bene e poi ne devi parlare anche a Jean e alla sua famiglia”.
“Sciocchezze, o meglio ne parlerò con chi di dovere al momento opportuno. Tu stai sentendo la notizia in anticipo solo perché sei la mia migliore amica e confido nel tuo silenzio”.
Come spesso accadeva durante richieste simili, Rebecca puntò l’indice contro la fronte dell’amica e la squadrò con aria sicura, come se la sfidasse a tradire la loro storica fiducia e amicizia.
“E sia – concesse la bionda con aria contrariata – so benissimo che non riuscirò a farti cambiare idea. Ma non venire a piangere miseria quando tutto andrà a rotoli”.
“E’ un bene che ci sia almeno una ottimista tra noi due – dichiarò Rebecca con spavalderia, mentre la incitava a riprendere a camminare verso il paese – Forza, andiamo, non avevi un appuntamento con il tuo fidanzato? Domani parte per la città, dovete salutarvi come si deve, no?”
“Finiscila!” arrossì con imbarazzo Riza, cercando di non pensare a tutte le conseguenze che avrebbe portato la decisione fin troppo all’avanguardia dell’amica.
 
Nello stesso momento pure Roy era in una situazione leggermente imbarazzante, sebbene per tutt’altro motivo. Osservava infatti la signora Falman che gli mostrava il contenuto di un pacco che stava preparando davanti a lui.
“Cinque maglie di cotone, tre paia di calzini puliti – elencò Rosie con aria pensosa – ah, e mi raccomando: se hai bisogno di qualcosa non devi esitare a farmelo sapere: ti posso anche spedire tutto via posta”.
“Signora – la bloccò Roy – sul serio, non c’è bisogno di tutto questo disturbo”.
“Disturbo – Rosie lo squadrò con sorpresa e poi sorrise – Oh, caro, nessun disturbo, ma quando mai! Per me è un piacere pensare a queste cose. Comunque credo che ci sia tutto: finisco di impacchettare così puoi mettere tutto quanto in valigia già stasera”.
Mentre osservava la donna che iniziava ad avvolgere tutto nella carta velina, Roy dovette fare uno sforzo per restare con l’espressione leggermente indignata piuttosto che lasciarsi andare ad un sorriso grato nei confronti della donna. Non era un mistero che la signora Falman lo trattava ormai come un secondo figlio da anni e questo voleva dire venir sottoposto anche a queste piccole torture, proprio come era successo a Vato per tutto il periodo in cui era stato all’Università.
“A dicembre finisco l’Accademia, così non si dovrà più prepararmi tutte queste cose ogni volta che parto”.
“Già, finisci l’Accademia – Rosie alzò lo sguardo dal pacco ormai legato e lo puntò su quel ragazzo alto e snello che nel corso degli anni si era fatto sempre più bello. Quel viso affilato, quegli occhi scuri e sottili, i capelli nerissimi erano completamente diversi da quelli di qualsiasi altro giovane di campagna – prima Vato con l’Università e ora tu con l’Accademia…come crescono i miei ragazzi”.
“Suvvia, signora, non faccia così – Roy si alzò con imbarazzo dalla sedia e si accostò alla donna, incerto su come gestire questo momento di sentimentalismo materno – non si commuova”.
“Commuovermi, io? – lo prese bonariamente in giro Rosie, posandogli una mano sulla guancia fresca di rasatura e ancora profumata da una colonia che ormai Roy era solito usare – Dici così solo perché mi sono messa a piangere la prima volta che ti ho visto con la divisa da cadetto. Ma è passato un anno e mezza ormai”.
“A gennaio torno con quella da soldato, mi devo preoccupare di reazioni simili?”
Sorrise in maniera tremendamente affascinante tanto che Rosie, se non l’avesse conosciuto sin da giovane e non avesse nutrito per lui sentimenti materni, si sarebbe trovata ad arrossire come una ragazzina nonostante i suoi quarantasei anni.
Il carisma e la sfacciataggine di Roy Mustang si erano smussati negli ultimi tempi, complice anche la vita cittadina, e ne era venuto fuori un uomo decisamente affascinante, capace di intrappolare il mondo con il suo magnetismo. In lui c’era qualcosa di nobile che lo differenziava dal resto dei suoi amici: che fosse con la divisa dell’Accademia o in vestiti borghesi, i suoi atteggiamenti denotavano qualcosa di diverso rispetto al resto dei coetanei del paese. Eppure, nonostante fosse chiaro che Roy fosse consapevole di questa sua peculiarità, non assumeva atteggiamenti di superiorità nei confronti dei suoi amici: restava il leader del gruppo perché era il suo ruolo naturale, ma niente era cambiato nei suoi rapporti con gli altri, sebbene, una volta finite le scuole, le loro strade avessero preso vie diverse.
“Suvvia, mamma – commentò Vato, raggiungendoli nel salotto – non intrappolare ancora Roy. Abbiamo delle commissioni da fare”.
“Già, è vero – Rosie si affettò a terminare il pacco e lo consegnò all’interessato – allora domani fai in tempo a passare per un saluto, vero? Ti preparerò qualcosa per il viaggio”.
“Come sempre, signora – rassicurò Roy – a domani”.
“Ci vediamo dopo, mamma” salutò Vato, mentre assieme all’amico usciva di casa.
Rimasta sola in quel salotto che le sembrava improvvisamente vuoto, la signora Falman rimase a fissare per qualche secondo la porta appena chiusa, mentre rievocava l’immagine di due ragazzi che, ancora a scuola, correvano fuori per andare a giocare con gli amici. Le sembrava una vita prima, eppure erano passati appena cinque anni.
Adesso suo figlio Vato di anni ne aveva ventuno ed aveva appena terminato l’Università con il massimo dei voti, laureandosi in materie umanistiche e con estrema stima dei suoi docenti che già gli richiedevano collaborazioni. Storiografo e filologo… a Rosie sembravano delle cose così astruse rispetto alla vita di tutti i giorni, ma non aveva mai avuto dubbi che suo figlio avrebbe seguito una strada simile. Forse nell’adolescenza Vato aveva avuto qualche indecisione se seguire la sua passione, ossia i libri, o diventare poliziotto come il padre, ma alla fine la sua vera vocazione aveva prevalso.
Proprio due giorni prima aveva ricevuto una lettera di un suo docente che gli richiedeva uno studio su un qualcosa che Rosie nemmeno riusciva a ricordare. Metà della chiacchierata durante la cena era stato su quell’argomento, ma per lei e Vincent era come se Vato parlasse un’altra lingua.
Oh, ma che importa – pensò con una scrollata di spalle – basta che lui sia realizzato.
E per quanto riguardava l’altro suo ragazzo, Rosie non aveva alcun dubbio che si sarebbe fatto onore in questi ultimi mesi d’Accademia. Ma mentre Vato era tornato in paese per restare, dichiarando che poteva tranquillamente lavorare a casa per la maggior parte del tempo, era destino che il secondo uccellino volasse lontano dal nido.
“No no – si disse, asciugandosi col grembiule una piccola lacrima che le pizzicava l’occhio sinistro – niente lacrime, Rosie Falman, l’hai promesso. Sei proprio un disastro”.
Trasse un profondo respiro, respingendo il groppo in gola che si faceva avanti, e si avviò in cucina per iniziare a preparare la cena. Lavorare le avrebbe impedito di farsi prendere dalla commozione, almeno fino al ritorno a casa di Vincent.
 
“Mi raccomando di scrivere qualche lettera a casa – stava dicendo Vato in quel momento, mentre con l’amico si dirigeva verso la libreria del paese – lo sai che mamma e papà ci tengono”.
Non disse i miei, non lo faceva ormai da anni. Per un tacito accordo erano i genitori di entrambi, sebbene fosse rimasta quella strana forma di orgoglio adolescenziale per cui certe cose, per quanto ovvie, non andavano mai dette a voce alta. Del resto non c’era nessuna nota legale che diceva che Roy, orfano di entrambi i genitori, fosse stato adottato dalla famiglia Falman: no, lui continuava ad avere la sua stanza sopra il locale di sua zia, Madame Christmas, continuava a tenere il suo cognome e a non aver ufficialmente niente a che vedere con la famiglia del capitano di polizia.
Però era un dato di fatto che il tempo passato con l’amico ed i suoi genitori fosse aumentato col passare degli anni. Così come era vero che i legami con i due adulti si fossero mano a mano rafforzati, tanto che le figure sbiadite dei defunti genitori erano state man mano sostituite da Vincent e Rosie Falman. Della madre Roy conservava solo una vecchia foto e ancora si cullava nella certezza che, se non fosse morta, l’avrebbe amato con tutta se stessa, mostrandosi fiera di lui e delle sue scelta di vita. Ma ormai Katherina Berriel Mustang era sfumata in una figura mitica, quasi un’icona di valore religioso a cui si è legati per principio: nella vita reale, nei momenti difficili così come quelli quotidiani, il conforto e l’affetto materno, da oltre cinque anni, provenivano da Rosie Falman. Del resto sua zia, da quel gran personaggio che era, non aveva mai instaurato con lui un rapporto di confidenza tale: per quanto lo conoscesse più del previsto l’aveva sempre lasciato agire come meglio credeva, dandogli pochi e fondamentali insegnamenti.
A volte Roy pensava che Madame Christmas avesse trovato parecchio divertente il momento in cui il capitano Falman aveva deciso di sua iniziativa di prenderlo sotto la sua ala protettiva e di metterlo in riga.
“Certo che scriverò – sbottò Roy con aria rassegnata – so bene che il capitano mi farebbe una ramanzina infinita sulla mia mancanza di tatto”.
A quella rimostranza Vato ridacchiò con malizia, a dimostrazione di come in tutti quegli anni il rapporto in parte burrascoso tra il giovane Mustang e Vincent Falman non fosse molto cambiato. Certo, il tempo delle bravate era terminato, ma il punzecchiarsi a vicenda era rimasto una costante a cui ormai tutti erano abituati.
“In realtà lo sai bene che lui aspetta le tue lettere con la stessa aspettativa di mamma – commentò ancora Vato, le sue ciocche bicolori mosse leggermente dalla brezza pomeridiana, mentre arrivavano davanti alla piccola libreria gestita dal nonno di Elisa – mi aspetti qui? Me la sbrigo in un paio di minuti: devo solo prendere alcuni accordi col signor Meril”.
“Vai pure: tra poco dovrebbe anche arrivare Riza e nel caso la intercetto piuttosto che farla andare inutilmente al locale di mia zia”.
Osservando il ragazzo alto e snello, fin troppo, che entrava dentro l’edificio dalla vetrina piena di libri, Roy rifletté su quanto era cresciuto quella strana forma di fratello adottivo così diverso da lui. Forse era una suggestione dovuta al fatto che avesse terminato l’Università ad inizio estate e dunque quella fase del suo percorso di vita si fosse conclusa, immettendolo ufficialmente nella fase adulta, eppure c’era qualcosa di nuovo in lui. Come se avesse preso una nuova sicurezza di chi sa perfettamente come andranno le cose; del resto era proprio così: avrebbe lavorato nella libreria a partire dalla settimana prossima e poi c’erano tutte quelle collaborazioni con l’Università di East City. Sebbene il paese fosse abbastanza perplesso sull’avere uno studioso, dato che l’unico esempio che conoscevano era lo strambo Berthold Hawkeye, Vato non si lasciava minimamente scoraggiare. E poi a breve sarebbe tornata anche Elisa che, finalmente, aveva terminato i suoi mesi di tirocinio all’ospedale della città, diventando una dottoressa a tutti gli effetti.
Sì, effettivamente la sua vita si sta pienamente realizzando – pensò Roy, guardando con aria distratta lo spago che teneva assieme il pacco che teneva in mano – niente male per un ragazzo d pensiero.
Scosse il capo e cacciò via la lieve malinconia che faceva capolino nel suo animo.
Non doveva farsi prendere dalla nostalgia per quel paese, non era proprio il caso. Terminata l’Accademia sarebbe entrato ufficialmente nell’esercito: la sua vita era destinata ad essere in città, nel fronte, ovunque tranne in quel posto che, per tanti anni, gli era sembrato troppo stretto.
In quell’anno e mezza di Accademia aveva provato, seppur in maniera limitata, l’ebbrezza della vita cittadina ed era stato un qualcosa di incredibilmente affascinante. Il ritmo era molto più rapido, una danza più vivace e complessa rispetto a quella della vita paesana… una danza i cui passi lo attiravano sempre di più e che scopriva di saper ballare alla perfezione.
Restava però il paese, con quelle persone che erano tanti fili che lo tenevano legato a quella realtà. Fili sin troppo belli e dolci e per questo a volte scomodi, quasi gli impedissero di prendere davvero la rincorsa per il suo volo. Perché Roy Mustang era caparbio e voleva diventare un alto grado dell’esercito ed un alchimista di stato, coerente fino all’ultimo con le sue scelte di vita fatte quando era ancora un ragazzino. Eppure una parte del suo cuore era rimasta intrappolata in quel piccolo angolo di mondo e così quei mesi di Accademia che ancora lo attendevano gli apparivano quasi come una piccola grazia. Un piccolo rimandare una separazione forse definitiva.
Sei un vigliacco – si rimproverò amaramente.
“Ciao, Roy” salutò Riza, interrompendo quei pensieri.
“Vi lascio soli, piccioncini – strizzò l’occhio Rebecca, rivolgendo appena un cenno di saluto al moro – mi aspettano a casa. Ci vediamo domani, Riza”.
“Piccioncini? – commentò sarcasticamente Roy, osservandola allontanarsi – Sempre simpatica…”
“Non farci caso – scosse il capo Riza, le guance rosse per l’imbarazzo di quel nomignolo – rispetto a quello di cui mi ha parlato sino a poco prima è ben poca cosa”.
“In che senso?”
“Diciamo che parti giusto in tempo per evitarti un periodo alquanto movimentato”.
I due fidanzati si guardarono in silenzio per qualche secondo e poi riuscirono finalmente a sorridere. Al contrario di altre coppie non si diedero un bacio o si presero per mano: se da una parte Riza era molto timida per simili cose in luogo pubblico, dall’altra Roy le riteneva non necessarie. Non che quando fossero soli il romanticismo tra loro mancasse, ma tendevano ad essere parecchio riservati. Era come se il loro essere diversi rispetto agli altri ragazzi del paese, con le loro vite normali, si dovesse riflettere anche in questi dettagli.
“La signora Falman ti ha preparato qualcosa per l’Accademia? – chiese Riza, spezzando quella pausa e accennando al pacco – E’ davvero gentile con te”.
 “Già. Comunque sto aspettando Vato che è entrato qualche secondo per parlare col nonno di Elisa”.
“Lo aspetto volentieri pure io. Non vedo l’ora che lei torni in paese… ci pensi? Una dottoressa! Sono così fiera di lei”.
“Allora è proprio intenzionata ad esercitare qui, eh?”
“Beh, del resto il dottore ha una certa età – annuì la ragazza, squadrando il fidanzato con curiosità – mi pare più che ovvio che torni in paese se ha la possibilità di farlo”.
“Spero sia pronta a quanto la aspetta” scrollò le spalle il moro con fare enigmatico.
“Oh, sono sicura che è bravissima e se la caverà alla grande”.
“Sai bene di cosa parlo. La diversità non piace molto a buona parte della gente…”
“… ma lei è Elisa – lo bloccò Riza – e sarà un medico fantastico, superando qualsiasi stupido preconcetto. Oh, ciao, Vato. Come stai?”
“Tutto bene – salutò l’altro, uscendo dalla libreria – allora, vogliamo andare a fare le ultime commissioni?”
“Ci conviene passare anche da Heymans – propose Roy – dato che domani parte con me, tanto vale chiedergli se vuole unirsi alle compere dell’ultimo minuto”.
Annuendo allegramente il terzetto si avviò per le vie del paese, chiacchierando di quell’estate appena trascorsa, del tempo, della vita quotidiana. Preferivano ancora cullarsi nel presente prima di lanciarsi nella sfrenata stagione che li aspettava dietro l’angolo.
 
Circa un’ora dopo, Roy e Riza entravano nel cortile trasandato della villetta degli Hawkeye, poco fuori dal paese.
Il tempo sembrava essersi fermato in quel posto così isolato, con quel piccolo raduno di salici a nascondere buona parte della casa alla visuale della gente. La facciata era sempre cadente, in parte coperta da edera e rampicanti, con calcinacci che ogni tanto cadevano sul terreno dove le erbacce la facevano da padrone. Le imposte erano come sempre tutte chiuse, tanto che sembrava un’abitazione abbandonata da tantissimo tempo e appariva inverosimile che qualcuno ci abitasse.
In realtà, a ben guardare, le imposte della cucina, nella parte laterale del cortile, erano solo gentilmente accostate e lasciavano entrare nella stanza un piccolo spiraglio di luce. Un accorgimento di Riza per evitare che l’ambiente si riscaldasse troppo nelle ore più calde delle giornate estive.
“Scommetto che troverò la cucina invasa di piatti sporchi così come il suo studio – sospirò la ragazza, aprendo la porta e portando le buste della spesa in cucina – E’ sempre un disastro venire qui. Papà, siamo Riza e Roy! Sistemo la cucina e ti preparo qualcosa per i prossimi giorni, va bene?”
“Ti serve una mano?” chiese Roy, liberando il tavolo dalle stoviglie sporche dove già alcune mosche svolazzavano fameliche e portandole nel lavabo.
“No, ci penso io – scosse il capo la bionda, andando ad aprire del tutto la finestra e facendo entrare l’aria fresca del tardo pomeriggio – tu vai pure da lui. Nel caso poi portami le stoviglie sporche che sono lì: ho svariata roba da fare e vorrei tornare a casa prima di cena per aiutare la mamma”.
Mentre la ragazza si metteva all’opera aprendo il rubinetto ed iniziando a lavare i piatti, Roy si avviò per i corridoi polverosi della casa. Per quanto Riza venisse una volta alla settimana a fare le pulizie era come se in quella villetta ci fosse qualcosa che impedisse all’ordine e al pulito di avere ragione.
Sebbene Roy fosse estremamente razionale, non poteva fare a meno di pensare che il cupo proprietario avesse in qualche modo intessuto un incantesimo per lasciare il suo regno in quello stato di decadenza in cui sembrava trovarsi così a suo agio. Sotto quel punto di vista era davvero felice che la sua fidanzata già da cinque anni non vivesse più in quel posto, ma in una casa accogliente e pulita, con delle persone che si interessavano davvero a lei.
Proprio questo pensiero gli fece tornare i soliti, fastidiosi, pensieri poco produttivi.
Un giorno lui e Riza si sarebbero sposati, questo era chiaro. Avrebbe sofferto molto nel seguirlo in città, abbandonando i Fury e quella vita tranquilla che sembrava adorare così tanto? Oggettivamente, per quanto pure lei fosse diversa rispetto alle altre ragazze del paese, Riza aveva trovato una sua perfetta dimensione in quel posto. Forse la città con i suoi ritmi ed il suo caos non facevano per lei, senza contare che per i primi tempi la vita di un soldato non era certo stabile ed i trasferimenti potevano essere all’ordine del giorno. E poi c’erano le guerre: per quanto la situazione sui fronti fosse momentaneamente tranquilla, si sapeva benissimo che le ostilità si potevano riaprire da un momento all’altro. Quel mondo ovattato che era il paese sembrava dimenticarsi che esistevano scomodi vicini che per qualche chilometro di confine in più scatenavano guerre decennali che insanguinavano le trincee.
“Maestro, perdoni se la disturbo – salutò Roy, entrando in quello studio polveroso e lasciando da parte quei pensieri – sono venuto a salutarla, domani parto per terminare l’Accademia”.
Berthold Hawkeye alzò lo sguardo su di lui per qualche secondo e poi tornò a scrivere degli appunti su dei fogli. Una vecchia lampada illuminava la scrivania, mentre il resto della stanza era praticamente in penombra: le pesanti e polverose tende erano tirate, quasi fosse un’eresia far entrare la bella luce di fine pomeriggio, come se quella stanza, quei libri, avessero bisogno del buio per non rovinarsi. Alla faccia delle muffe e della polvere che distruggevano piano piano pagine e copertine.
“Finalmente termini quell’inutile perdita di tempo – commentò l’alchimista – spero tornerai a dedicarti agli studi veramente importanti. Saresti già a buon punto se non avessi fatto quella stupida scelta di entrare nell’esercito”.
C’era una componente aspra di rimprovero, ma Roy se la fece scivolare addosso come ogni volta. Non era più spaventato da lui come quando era un quindicenne, più che altro provava un misto di rispetto e pietà per il suo maestro: gli riconosceva di avere una delle menti più brillanti che avesse mai incontrato, ma allo stesso tempo si riprometteva di non diventare mai e poi mai come lui. Roy voleva seguire le sue ambizioni, certamente, ma il tempo gli aveva fatto capire di voler anche una famiglia, una vita vera e propria: non si sarebbe mai ridotto a quello stato di sporco e logoro eremitaggio, dimenticandosi della propria figlia, lasciandola a se stessa.
Rispetto e pietà, certo, ma anche una strana forma di rabbia per come quell’uomo aveva trattato Riza, specie dopo la morte della moglie.
“Finita l’Accademia conto di prendere il titolo di alchimista di stato”.
“Non sei ancora pronto, lo sai bene”.
“E quanto ci vorrà ancora? – chiese Roy con uno sbuffo, mettendosi a braccia conserte: lo odiava quando giocava a dargli il sapere con un lento e logorante stillicidio, quasi a punirlo di non essersi dedicato anima e corpo all’alchimia – Studierei anche in città se mi desse l’occasione, lo sa bene”.
“Sul serio tu vuoi diventare un semplice alchimista? – gli occhi azzurri di Berthold si puntarono di nuovo su di lui – Eppure potresti avere ben altro se avessi la dovuta pazienza, allievo”.
Roy annuì, ben sapendo di cosa parlasse: l’alchimia del fuoco era ancora in fase di perfezionamento, ma la sua formula era già ben avviata. Il maestro gliene aveva parlato più volte, riferendosi ad essa come lo studio della sua vita, ma gliene aveva mostrato solo una minima parte. L’aveva costretto a marcire anni ed anni sulle basi della scienza piuttosto che farlo andare avanti, facendogli sempre intravedere quello spiraglio esaltante della vera ricerca.
“Sono il suo unico allievo, signore – scrollò le spalle con aria sicura – presumo voglia che la sua ricerca non vada perduta. Come tornerò dall’Accademia ne parleremo ancora, ma personalmente io non vorrei che i frutti di una vita andassero perduti”.
Gli occhi scuri e quelli azzurri si squadrarono con sfida per qualche secondo, ma Roy sapeva di godere di una posizione di vantaggio. In quegli anni aveva imparato che, per quanto geloso delle sue ricerche, Berthold Hawkeye era anche tormentato dall’idea che andassero perdute. Probabilmente l’aveva accettato come allievo anche in previsione di lasciargli quest’eredita al momento giusto dato che Riza aveva preso del tutto le distanze da lui e tornava a fare le faccende di casa solo per senso del dovere.
Sì, non puoi fare a meno di me, maestro. Mi dispiace, ma non eserciti più l’ascendente di una volta.
“Parti pure – lo congedò sbrigativamente l’uomo – ne riparleremo come torni con quella tua sciocca divisa da cane dell’esercito”.
“Allora la saluto – annuì Roy, recuperando i piatti che stavano impilati ad un lato della scrivania – tornerò ad inizio anno venturo”.
Nessun accenno a Riza, come sempre: poco importava se la ragazza gli stesse preparando da mangiare e stesse rendendo decente almeno quella cucina. Era come se Berthold si fosse completamente dimenticato di aver avuto una figlia.
Decisamente non la meritavi, non l’hai mai meritata. Se non avesse trovato i Fury ti avrei odiato per sempre, che tu sia dannato.
 
“Non era necessario che mi accompagnassi fino al bivio – commentò Riza un’ora dopo – devi ancora finire di preparare la valigia”.
“Figurati, mi fa sempre piacere passeggiare con te”.
A quella dichiarazione la ragazza sorrise compiaciuta, sentendosi veramente felice: ora che aveva compiuto la sua missione settimanale a casa del padre sembrava che un peso fosse stato levato dalla sua persona. Per quanto fosse un compito che svolgeva ormai da anni, provava sempre una strana forma di magone a stare in quella casa con quella presenza inquietante e niente le era più gradito di andare via.
E poi passeggiare con il suo fidanzato era sempre fonte di gioia, specie in previsione della partenza del giorno successiva. Per quanto sapesse che si trattava solo di pochi mesi prima del suo ritorno, si sarebbe comunque trattato di un periodo di tempo parecchio lungo.
Il loro rapporto a distanza non aveva causato problemi, tutt’altro: non sentivano nemmeno il bisogno di scriversi tante volte. Un paio di lettere al mese bastavano, come se fosse presente un legame impalpabile che li assicurava a prescindere che tutto procedeva alla perfezione.
“Domani ti accompagno alla stazione: passo a prenderti alle due davanti al locale di tua zia, va bene?”
“Va bene, allora dopo dico ad Heymans che ci vediamo direttamente lì, così facciamo la strada assieme”.
Riza annuì e si mise con le mani dietro la schiena.
Era diventata davvero bella in quei cinque anni e ricordava molto la sua defunta madre. I capelli biondi erano cresciuti e le arrivavano a metà schiena, sebbene lei adorasse fermarli sulla nuca con un fermaglio che Roy stesso le aveva portato dalla città. Al contrario di Rebecca che aveva il viso leggermente affilato, quello di Riza era morbido, con teneri occhi castani ad illuminarlo in una maniera del tutto particolare. Erano occhi estremamente comprensivi, pronti a prestare attenzione a chiunque, come se la sua turbolenta infanzia l’avesse portata ad essere estremamente solidale nei confronti di chi voleva bene.
Roy si sentiva estremamente confortato in sua presenza, come se fosse certo che assieme a lei avrebbe risolto qualsiasi problema.
Spostando il pacco della signora Falman sotto il braccio sinistro, con l’altra cinse la vita sottile della fidanzata, accostando il viso al suo, sentendo quel lieve profumo di violetta che ormai si metteva da un anno dopo che la madre di Elisa gliel’aveva fatto provare.
La ragazza rispose a quel gesto e gli cinse le braccia attorno al collo.
“Gli ultimi quattro mesi – mormorò – come vola il tempo”.
E poi…? E poi? – la sua mente impazziva a quell’idea. Paura, aspettativa, non sapeva nemmeno lei come definire il caos di emozioni che vorticava nel suo cuore.
Osservò il suo fidanzato e le parve che fosse sul punto di dirle qualcosa, ma poi le labbra sottili di lui si schiusero in un lieve sorriso.
“Mi aspetterai?”
“C’è da chiederlo?”
“No, ma voglio sentirtelo dire”.
“Certo che ti aspetterò – sorrise Riza – come sempre”.
Non si dissero ti amo o altre romanticherie. Le altre cose furono tutte sottintese nel lungo bacio che si scambiarono nella campagna illuminata dal rosso del tramonto dell’ultimo giorno di agosto.




*Al contrario dell'Università che segue i normali semestri ed inizia l'anno accademico a settembre (come succede da noi), per l'Accademia Militare ho sempre messo l'inizio dei corsi a gennaio per poi finirlo a dicembre. Di conseguenza se Vato ed Elisa hanno conseguito la laurea ad inzio estate, Roy diventerà soldato a inizio nuovo anno.



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Bene, eccoci arrivati a questo seguito tanto atteso: come promesso a settembre sono qua, puntualissima.
In primis scusate per il titolo, non è un granchè, tanto che mi sono trovata anche a riprendere quello della storia originale. 
Allora, a che punto eravamo rimasti?
Come ben ricordate, Un anno per crescere, epilogo escluso, si concludeva il 9 settembre 1897, in occasione del dodicesimo compleanno di Kain. Sono passati cinque anni e la maggior parte dei nostri amici ha concluso la scuola e preso la sua sua strada. Questo comporta la prima grande novità di questa storia, ossia il fatto che le vicende non si svolgono tutte stabilmente in paese, ma l'azione si sposta anche ad East City.
In questo primo capitolo ho introdotto soltanto alcuni dei nostri eroi, piano piano arriveranno pure gli altri: non vi preoccupate se non vi ricordate cosa diventavano nell'epilogo della storia principale, verrà spiegato piano piano per ciascuno di loro cosa è successo in questo lasso di tempo.
Proprio a questo proposito ci tengo a fare una piccola precisazione su Riza. 
Forse sarà il personaggio con il maggior "cambiamento" rispetto al manga/anime a livello di IC: qui infatti siamo proprio davanti a quello che spesso ci siamo chiesti, ossia come sarebbe diventata se non avesse avuto sulla sua anima e sul suo corpo il peso dell'alchimia del fuoco. Fortunatamente in questo AU la nostra amica si è affrancata da Berthold prima che succedesse quello che ben sappiamo.

Come sempre vi auguro una buona lettura.
Ringrazio in anticipo chi leggerà, recensirà, metterà tra le preferite, seguite ricordate e così via... che siano nuovi recensori o vecchi. Un ringraziamento speciale a Benni non solo per l'entusiasmo che ha dimostrato per questa serie, ma anche perché col suo punto di vista slegato dal mondo di Full Metal Alchemist, mi ha sempre dato spunti di riflessione molto interessanti.

Questo è quanto.
Enjoy!



 
  
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