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Autore: Milla Chan    01/09/2016    4 recensioni
Kuroo e Kenma abitano a dieci passi l’uno dall’altro. Kenma li conta ogni volta, ormai più per abitudine che per assicurarsi che siano davvero dieci, e non passa giorno senza che percorra quei pochi metri per intrufolarsi pigramente in casa di Kuroo.
Tremila parole e dieci passi nella vita di Kuroo e Kenma.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il loro è un quartiere tranquillo. Le villette indipendenti sono quasi tutte uguali, tutte con un cortiletto, e sono abitate praticamente solo da famiglie.
C’è anche qualche gatto randagio a rendere la comunità un po’ più movimentata: ogni anno c’è quel periodo in cui tutti chiedono a tutti se vogliono adottare i micini minuscoli che appaiono magicamente nei loro garage. In questo modo, in ogni casa è assicurata la presenza di almeno un felino, più molti altri che transitano quotidianamente nei cortili, senza appartenere davvero a qualcuno, ma decisamente socievoli con chiunque.
 
Kuroo e Kenma abitano a dieci passi l’uno dall’altro. Kenma li conta ogni volta, ormai più per abitudine che per assicurarsi che siano davvero dieci, e non passa giorno senza che percorra quei pochi metri per intrufolarsi pigramente in casa di Kuroo.
La madre di Kenma non si preoccupa neanche più: suo figlio non è a casa? È da Kuroo. Non torna per la notte? È a dormire da Kuroo. È la sua seconda casa. Nel dubbio, certo, telefona, ma la voce fin troppo rilassata della madre di Tetsurou gli risponde sempre con una risata bassa e graffiante, e la cornetta gracchia un po’ mentre dice, sicuramente avvolta dal turbinio del fumo della sigaretta che tiene tra le dita: “Stai tranquilla che sono qui, i due scemi”.
La mamma di Kenma ha smesso di sospirare per l’apprensione ed è passata ad essere felice di vedere che suo figlio non passa il suo tempo tutto solo, cosa che molto probabilmente farebbe se Tetsurou non esistesse.
L’unica cosa di cui ha sinceramente paura è che torni a casa con i capelli di qualche altro colore: quando si era tinto di biondo senza avvisare nessuno, santo cielo, lì sì che le si era quasi fermato il cuore. “Cos’hai combinato!?” aveva urlato portandosi le mani alla testa; “Me li ha tinti Bokuto, non ho speso nulla” aveva risposto Kenma con un borbottio, come se fosse una mera questione di soldi. Ma l’ultima cosa che importava a sua madre erano i soldi, e non aveva ben chiaro chi fosse Bokuto -ah, quanti nomi sentiti mille volte, ma ancora senza volto!-, né perché suo figlio avrebbe dovuto fare una cosa del genere. “Per non dare nell’occhio” aveva bofonchiato in risposta a quell’ultima domanda, ma l’unica reazione che ottenne fu di aumentare la confusione della donna. “Kenma, amore, così dai nell’occhio!”. Kenma aveva alzato gli occhi al cielo con una smorfia. Non ce l’aveva proprio fatta, a seguire il suo ragionamento.
 
A Kenma piace spalmarsi nel letto di Kuroo e dormicchiare su quel materasso morbidissimo, tra i cuscini soffici, dalle stampe tutte diverse e coi colori che fanno a pugni tra di loro. Gli piace non fare niente e non sentirsi in colpa per questo. Gli piace il profumo che ha quella casa, il profumo che sente tra le tende, sul copriletto, tra le coperte, sui vestiti di Kuroo e sulla sua pelle. Sono tutti elementi che lo rilassano e lui si sente sciogliere perché l’atmosfera che si viene a creare è accogliente e calda.
La casa di Kuroo è molto più disordinata della sua e le loro mamme sono persone completamente diverse, ma Kenma ama quell’ambiente in cui tutto è un po’ in bilico, appoggiato un po’ dove capita, una sorta di caos organizzato nel quale Tetsurou e sua madre -suo papà no, Kenma non lo conosce, vive da qualche altra parte a Tokyo, con un’altra famiglia- guizzano senza difficoltà alcuna e con un sorriso sghembo davvero troppo simile.
Kenma è abituato ad altro, alle lenzuola bianche e ai cibi catalogati alla perfezione nel frigorifero, ai pavimenti lucidi che vengono immediatamente puliti non appena si scorge una macchiolina opaca, e Kuroo ridacchia con una nota isterica alla sola idea di mettere sua mamma e la madre di Kenma nella stessa stanza.
 
“Vieni qui solo per scroccarmi il cibo e dormire” si lamenta Kuroo, senza davvero accusarlo mentre appoggia le due tazze di tè sul comodino accanto al letto, e non sa come fa, visto che straborda degli oggetti più disparati, matite, fogli, scatoline di carta costruite per passare il tempo, barattoli di marmellata vuoti adibiti a contenitori per le cosine carine che trova per strada, come spillette, o bottoni, o sassolini particolari per forma o per colore.
Si siede accanto a lui sul materasso. Kenma è disteso su un fianco, la faccia affondata in un cuscino a forma di hamburger che hanno miracolosamente vinto ad una di quelle macchinette dove agganci i peluche e ogni volta finisci per usare tutte le monetine che hai nel portafoglio.
Kenma si rigira su se stesso con un verso basso e gli occhi chiusi, e gli circonda la vita con un braccio. Struscia la faccia contro il suo fianco e Kuroo gli accarezza la schiena con una mano.
“Ce ne hai messo di tempo per accorgertene” dice con voce roca il più piccolo, nascondendo un sorriso tra la stoffa della sua felpa.
Kuroo ride e si mette comodo sul suo letto, ma per distendersi deve spostare Kenma più in là di qualche centimetro, e lo fa, nonostante le sue proteste che assomigliano tanto a piccoli e deboli ringhi.
Kenma, ormai decisamente scivolato verso il basso, decide di trovare la forza per sollevarsi sulle braccia e sistemarsi. Trova la posizione perfetta stendendosi per metà su Kuroo, una gamba sulle sue ginocchia per tenerlo completamente imprigionato in quella terribile tortura, ed è talmente bello che ha l’impressione di potersi riaddormentare in due secondi netti.
Kuroo sorride nel sentire il suo sospiro liberatorio e non può fare a meno di passargli le dita tra i capelli di quei colori che lo fanno assomigliare così tanto a un invitante crème caramel.
Prende il telefono dalla tasca dei pantaloni della tuta e lo sblocca per scattare una veloce foto a quello che vede davanti a sé: la confusione quasi armonica della sua camera, e le sue gambe e quelle di Kenma intrecciate. Si vede anche una parte del braccio che ha appoggiato sul suo petto, la mano stretta a pugno. Un’estetica del genere è degna di finire su Instagram.
“Si raffredda il tè” avvisa picchiettandogli la spalla non appena sente il respiro di Kenma farsi regolare, segno che si sta riaddormentando per davvero. “E non dirmi che non lo vuoi più perché io due tazze non me le bevo, e ti ho pure messo il miele, e lo sai che a me il miele nel tè non piace.”
Kenma si mette a sedere e si stropiccia la faccia con una mano mentre con l’altra prende la tazza che Kuroo gli sta porgendo. È bianca, con delle righe arancioni e verdi, mentre quella di Kuroo è a pois blu. Usano sempre quelle, ormai.
Mescola un paio di volte prima di sorseggiare e arricciare il naso, gli occhi strizzati.
“È amaro” mugola deluso, sorvolando sul fatto che si è anche scottato la lingua. “Mi hai preso in giro, non c’è il miele.”
“Sì che c’è il miele” ribatte Kuroo, sicuro. “Un cucchiaino.”
Kenma lo guarda di sbieco e soffia piano sulla tazza, il fumo che svolazza nell’aria. “È amaro.” ripete, senza cambiare intonazione.
“Che noioso!” lo rimprovera Kuroo con un ghigno storto. “La prossima volta ti rimetto lo zucchero. Rigorosamente raffinato e non di canna, così se tua mamma lo viene a sapere piange.”
“Quante cavolate dici…”
Kuroo ammira per qualche secondo la sua espressione rilassata, la testa un po’ inclinata di lato, e si china per lasciargli un bacio veloce su quelle labbra piene e che si imbronciano subito, ma solo per finta.
 
Si conoscono da una vita. Hanno sempre abitato lì, hanno sempre giocato insieme. Entrambi sono figli unici, hanno solo un anno di differenza e stringere amicizia era stato facile, perché da bambini basta un nulla per diventare amici del cuore, anche se uno dei due è Kozume Kenma, personificazione dell’introversione.
“Ti andrebbe di venire a casa mia a giocare con me?” aveva chiesto il bambino più grande, scandendo bene la frase con le mani dietro la schiena e l’espressione concentrata, come se avesse già provato a recitare quelle parole a casa. Aveva poi guardato velocemente sua madre, accanto a lui, come per assicurarsi che stesse facendo tutto correttamente. “Ho dei bei giochi!” aveva aggiunto, con un piccolo sussulto, vedendo la fronte contratta dell’altro bimbo.
La madre di Kenma aveva dovuto staccarlo dalla sua gamba contro la sua volontà, ma da lì la strada era stata tutta in discesa.
 
Talmente in discesa che un giorno della loro prima adolescenza, con le teste scombussolate dall’estate e dalla crescita, proprio su quel letto, proprio tra quei cuscini profumati, avevano trovato il coraggio di prendersi finalmente il volto tra le mani e far scontrare le labbra con un sospiro spezzato.
Per l’esattezza, era un giorno di giugno. Kenma aveva tredici anni, Kuroo quattordici. La porta della camera era chiusa, faceva caldo, l’aria era piena di risate cristalline, limpide e sincere, luminose, e Kuroo avrebbe giurato che avrebbe potuto ubriacarsi con quel suono che usciva dalla bocca di Kenma così raramente, ma che era in assoluto il più bello. Aveva allontanato la mano di Kenma dalla sua bocca, perché aveva -e ha ancora, tutt’oggi- l’abitudine di coprirsela quando ride a bocca aperta, col cuore, quando proprio non riesce a trattenersi. Forse lo fa per nascondere i denti non proprio perfetti, ma se anche così fosse, Kuroo continua a non capire, perché gli piacciono anche quelli, gli piacciono davvero e quindi lo considera come un brutto vizio, quasi quanto mangiucchiarsi le unghie.
Kenma aveva lentamente smesso di ridere ed era rimasto con la mano nella sua, gli occhi dorati fissi nei suoi, scuri ma brillanti.
Kuroo non aveva resistito a quel silenzioso invito, al sorriso che moriva piano lasciando spazio ad un’espressione più impensierita, a quello sguardo che sembrava implorarlo dicendogli con un che di melodrammatico: “Baciami e, ti prego, fallo senza perderti in domande stupide.”
Le sue labbra erano morbide e quando le dischiuse nella mente di Kuroo apparve l’immagine dei petali dei fiori che sbocciano nel suo giardino di primavera senza che nessuno li abbia piantati.
 
“Bokuto mi ha scritto che vuole tingerti ancora i capelli.”
Kuroo finisce la tazza di tè e lo rende partecipe di quella piccola ma importante informazione in tempo reale, perché ha il telefono in mano e sta usando il pollice per rispondere al commento che Bokuto ha lasciato sotto alla sua foto.
“Non se ne parla.” risponde immediatamente Kenma, incrociando le gambe.
Accenna un sorriso mentre ripensa a Bokuto coi guanti bianchi che spreme il tubetto di tinta in una ciotola, l’espressione concentrata e la lingua che fa capolino tra le labbra come un bambino che colora con le matite. Kenma aveva iniziato ad avere una certa paura quando, dopo la decolorazione, si era reso conto di avere i capelli gialli come le piume di un canarino. “È normale, ho tutto sotto controllo!” aveva strepitato Bokuto, agitando il pennello per aria con una mano e la carta stagnola con l’altra. “Non devi aver paura, l’ho fatto un sacco di volte!”
Kenma aveva pensato di non poterne uscire vivo, ma Bokuto non mentiva quando diceva di sapere quello che stava facendo e lui non era affatto una cavia destinata alla morte, o ai capelli bruciati.
Tutto era andato per il verso giusto, forse anche meglio del previsto, e i dubbi riguardo alla tinta domestica che avevano assalito Kenma durante quelle lunghe ore seduto nel bagno di Bokuto si erano dissolti non appena aveva visto il lavoro finito.
 
“Fatteli tingere tu. Rossi.” dice, tornando al presente.
“Almeno poi sembro quel tipo inquietante della Shiratorizawa?”
“Vedi che mi capisci?” Kenma si allunga a posare la tazza mezza vuota sul comodino e ne approfitta per stiracchiarsi e rimanere qualche attimo in più su Kuroo.
“Sul serio, Bokuto adora i tuoi capelli.”
“Nah, Bokuto adora i capelli e basta. Gli piacciono i miei solo perché sono un po’ più lunghi. Regaliamogli, che ne so, un manichino con una parrucca di un metro e mezzo. Credo che ne sarebbe contento.”
Kuroo sospira e strizza le guance di Kenma tra i palmi delle proprie mani, abbassandosi per appoggiare la fronte sulla sua anche se rischia di spezzarsi la schiena.
“Secondo me no. La cosa vera è sempre meglio di quelle finte, dicono.” bisbiglia con un tono vago e strano, che fa storcere la bocca e assottigliare lo sguardo all’altro.
“È una pessima allusione sessuale.”
Non è una domanda, ma un’affermazione, perché sa benissimo cosa sta succedendo: Kuroo è stupido e vorrebbe metterlo in imbarazzo. Ma non è quello l’ambito in cui ci riuscirà.
Kuroo se ne accorge e non sembra molto soddisfatto.
“Invece di fare frecciatine di questo tipo, perché non mi compri una di quelle cose finte a cui ti riferisci? Per provare.” sussurra, la testa ancora appoggiata sul suo bacino, rivolta verso l’alto, gli occhi ancora socchiusi. È gelido mentre lo dice, e dentro di sé Kuroo urla, perché sentire il suo piccolo Kenma dire quelle cose lo distrugge e lo fa sogghignare compiaciuto, contemporaneamente, ogni volta, perché è sicuro che se lo raccontasse a qualcuno nessuno gli crederebbe.
“Hai un posto dove tenerlo? Se i tuoi lo trovano è un viaggio di sola andata al cimitero.”
Kenma lo guarda come se stesse scherzando, e allarga le mani come ad indicare la stanza che li circonda.
“Kuro, tua mamma ti ha comprato i preservativi.”
Kuroo apre la bocca per ribattere, le guance rosse.
“Due volte. Solo perché le andava.” lo interrompe il più piccolo, e Kuroo non può davvero opporsi a quell’affermazione.
Piega il collo in avanti, sconfitto. Ricorda fin troppo bene il giorno in cui era successo la prima volta: era lo stesso in cui aveva deciso di dire a sua mamma di lui e Kenma, per liberarsi da quel peso enorme che sentiva sul petto.
Stava lavando i piatti e sua mamma si stava preparando per uscire a fare la spesa. Lo aveva detto con una nonchalance spudoratamente falsa, rigido come un blocco di pietra mentre passava la spugna sui piatti e teneva gli occhi sbarrati, perché tanto sua mamma non poteva vederlo, e neanche lui poteva vedere lei.
Aveva teso le orecchie per captare ogni singola reazione. Aveva sentito il rumore leggerissimo della sigaretta premuta nel posacenere sul tavolo della cucina, e il silenzio gli aveva attanagliato lo stomaco.
“Ma va?” aveva detto, sarcastica e divertita, prima di uscire di casa, lasciandolo di sasso, con stampato in volto il terrore di aver fatto una cazzata.
Quando era rientrata, Kuroo non aveva fatto in tempo ad alzarsi dal divano che aveva dovuto afferrare al volo la scatola che gli era stata lanciata contro dall’altra parte della stanza. L’aveva palleggiata tra le mani un paio di volte prima di riuscire ad afferrarla saldamente e aveva sentito l’anima uscirgli dal corpo quando era riuscito a leggere cosa fossero.
“Mamma!” aveva piagnucolato, coprendosi la faccia per la vergogna, ma lei aveva sventolato la mano in aria scuotendo la testa.
“Meglio che tu non sappia cosa facevo io alla tua età, fidati” era stata la sua risposta, data con il tono di chi la sa lunga.
 
“Va bene. Per San Valentino?” chiede Kuroo, facendo mentalmente due conti.
“Il mio compleanno.”
“Natale?”
“Natale va bene.”
Kenma gli sorride velocemente prima di voltarsi e tornare ad abbracciare il cuscino hamburger ed emettere un lungo verso pigro.
Kuroo lascia che la schiena affondi tra i cuscini e guarda le sue spalle che si alzano e si abbassano tranquillamente, e non riesce a non essere sinceramente felice nel vedere quanto stia bene.
 
“Comunque Akaashi ha di nuovo più followers di te.” commenta, tanto per parlare di qualcosa.
“Lui e il suo profilo tutto piantine e frasette filosofiche.” borbotta Kenma in risposta, senza però muoversi di un muscolo. “Aspetta solo che fotografo i micini di Miruku-chan e poi vediamo.”
Kuroo ride alla sua voce fioca e vagamente risentita, e sposta la testa per fissare il soffitto. Distrattamente, nota che sta uscendo un po’ di muffa nell’angolo della stanza. Sarà una bella fatica mettersi lì a toglierla con la candeggina.
“Se Miruku-chan ha avuto dei micini forse è ora di chiamarla Miruku-san. Un po’ di rispetto per le madri.”
“Ma è bianca e tutta pelosina, sarebbe un peccato togliere il chan…”
Kenma non usa spesso i suffissi, ma quando riguarda gli animali è in assoluto il primo ad usarli, e l’effetto è davvero comico.
“Miriku-chan-san?” propone Kuroo, ancora concentrato sulle macchioline scure di muffa.
La risata leggera di Kenma gli arriva alle orecchie come le prime note di una canzone.
“… Mi piace.”
 
Miruku-chan è una delle tante gatte che amano andare nel cortile di Kenma a prendere il sole sul vialetto.
Lui e Kuroo si  sono autoproclamati genitori di almeno cinque gatti: li riconoscono tutti al primo sguardo, hanno dato un nome a ciascuno di loro, nomi ormai riconosciuti all’unanimità da tutti i loro vicini.
Un’anziana signora, spazzando la stradina, può fermarsi e domandare alla sua amica, dall’altra parte della strada: “Com’è che si chiamava, quel micio color miele?”; “Pancake-san” risponderebbe quella, prendendo la posta. “L’han chiamato così Kenma-chan e Tetsu-chan, sai”, e così la voce gira, e tutti quanti iniziano a chiamarlo così perché, nossignore, non esiste che ognuno dia un nome diverso.
Così, quando qualcuno si ritrova un gatto sul davanzale esterno della finestra, sa qual è il modo giusto per chiamarlo e dargli gli avanzi del pesce cucinato a cena.
 
Anche sulla parete contro la quale è appoggiato il letto di Kuroo c’è una finestra, ma è al piano di sopra e lì i gatti non ci arrivano. È una finestra un po’ particolare, perché si estende più in orizzontale che in verticale, e il sole entra per la maggior parte della giornata perché la stanza è rivolta a sud. Per questo le tende sono quasi sempre tirate, e quella camera è in assoluto la più calda di tutta la casa.
Se si scostano le tende, però, si può vedere il giardino, e quello della casa accanto, e quello della casa della famiglia Kozume, dall’altra parte della strada. Si vede anche la finestra della camera di Kenma, e quello è in assoluto l’aspetto che entrambi preferiscono perché non è successo poche volte che si ritrovassero a farsi le boccacce da una finestra all’altra, e si sentissero vicini di nuovo, anche se lo erano stati fino a un quarto d’ora prima.
 
Dopotutto, i dieci passi che separano i loro cancelli sono veramente una distanza irrisoria.

 
   
 
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