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Autore: chi9453    01/09/2016    1 recensioni
Dopo la morte di Margaret e il pensiero di aver trattato William come spazzatura, Scully ha bisogno di Mulder per poter tornare a casa
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fox William Mulder
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se qualcuno mi avesse chiesto perché negli ultimi quattro anni non fossi mai stato a casa di Scully non avrei saputo cosa rispondere. Probabilmente la cosa più ovvia, perché non mi aveva mai invitato. Se poi a questo punto questo stesso qualcuno mi avesse chiesto perché…beh quello era un’altra questione a cui davvero non avrei saputo cosa rispondere. Scossi la testa mentre avanzavo per l’ampio soggiorno con passo felpato, tentando di memorizzare ogni dettaglio nel più breve tempo possibile per poterlo elaborare in seguito, magari sdraiato sul divano di casa mia mentre provavo inutilmente a prendere sonno. Da quando in qua avevo avuto bisogno di un invito per bussare alla sua porta o presentarmi davanti a lei negli orari più strani?

“Da quanto vi siete lasciati, idiota. Da quando hai rovinato la relazione più importante della tua vita” La voce della mia coscienza rispose per me mentre continuavo ad osservare piccole parti di quella casa che mi sembrava essere poco frequentata, nonostante tutto appartenesse a Scully, odorasse di lei e raccontasse piccole parti della sua vita.

Le riviste mediche impilate in modo quasi maniacale sulla libreria, due file di dvd delle peggiori commedie americane di fianco al televisore, la giacca lasciata dietro la sedia in modo che non si sgualcisse, un bicchiere di vino ormai vuoto abbandonato sul tavolino davanti al divano…e una cornice, con una nostra foto. Quella cornice. Quella che i Pistoleri Solitari le avevano regalato per la nascita di William, sorprendendo entrambi con un regalo così dannatamente normale. Ero sicuro che per un lungo tempo ci fosse stata una foto di William lì, una delle pochissime che avevamo, e se la mia memoria non mi ingannava, potevo giurare che quella cornice fosse sul comodino della nostra camera da letto. La nostra camera da letto, dannazione. Ora c’era una foto che ci ritraeva durante un’indagine, non avrei saputo dire quale, entrambi impegnati ad osservare degli indizi, gli occhi che si cercavano appena come se avessero voluto comunicare in quel semplice modo un pensiero e lei che di fianco a me sembrava più piccola di quanto in realtà non fosse. Eravamo giovani, molto giovani…troppo giovani rispetto ad ora. Dal taglio di capelli di Scully avrei giurato fosse stata scattata qualche mese prima che scoprissimo del suo cancro, quando ancora non eravamo consapevoli di quanto gli X-files avrebbero invaso le nostre vite, nonostante avessimo già perso entrambi più di un membro della nostra famiglia. A prima vista poteva sembrare una foto totalmente impersonale, un ricordo di lavoro, uno dei tanti di uno degli infiniti viaggi a spasso per le contee americane o a ridosso degli squallidi motel in cui spesso ci ritrovavamo a soggiornare. Eppure le mie gambe si paralizzarono e la saliva rimase in gola per qualche secondo più del normale, senza che riuscissi a buttarla giù. Un sospiro uscì dalle mie labbra e ringraziai il cielo che lei fosse troppo occupata dietro ad altri pensieri per prestarci attenzione. Quella foto ci rappresentava. Eravamo noi, era la nostra essenza, ciò che ci aveva sempre contraddistinti. Era quella sorta di telepatia che ci aveva consentito di uscire vivi dalle situazioni più impensabili. Era il suo scetticismo che mi riportava con i piedi sulla terra e il modo in cui sussurrava il mio cognome anche quando pensava che le mie teorie fossero assurde. Era la nostra convinzione che ci saremmo sempre stati l’uno per l’altra, nonostante tutte le divergenze. Era la fiducia cieca che ognuno aveva nei confronti dell’altro. E questa, forse, era l’unica cosa che davvero non era cambiata. Del resto poche ore prima ero stato l’unico ad essere presente in quell’ospedale, ad asciugare le lacrime di Scully e a lasciarmi bagnare la camicia mentre il cuore mi bruciava nel petto. Ero ancora la sua famiglia, ero l’uomo di cui si fidava e a cui poteva confidare tutto. Magari non ero stato bravo come amante, ma nonostante tutto ero ancora lì, su quella cornice al centro del soggiorno. Ero l’unico che le era rimasto e penso che anche lei sapesse che la situazione era reciproca. Avevamo perso tutto e tutti nel nostro viaggio con gli X-Files, Samantha, mio padre, mia madre, Emily, suo padre, Margaret, Frohike, Byers e Langly…e nostro figlio. Era l’amore della mia vita anche se non glielo avevo mai detto, e io speravo silenziosamente di essere ancora il suo.

Eravamo simili a due vecchi cani randagi che avevano bisogno di condividere la stessa tana per difendersi dagli attacchi degli altri e per spartire un po’ di cibo quando l’altro era troppo stanco o troppo sfortunato per procurarselo. Non mi piaceva il paragone, ma era l’unica cosa che alla fine di quella giornata mi venisse in mente. Un po’ triste, devo ammetterlo, per nulla romantico, ma perfettamente in linea con l’umore delle ultime ore.

“L’ho trovata quattro anni fa in uno scatolone” Dana sembrò leggermi nel pensiero, per l’appunto, e inchiodò a sua volta lo sguardo sulla foto senza aggiungere niente altro. Non ce n’era bisogno. Quattro anni fa, avrei giurato di sentire il suo tono di voce soffermarsi su questo numero, come se volessi farmi notare da quanto tempo avevamo smesso di condividere le nostre giornate insieme. Ero davvero riuscito a sopravvivere quattro anni senza stringerla tra le mie braccia e sentire la sua voce ogni mattina? E se sì, come diavolo avevo fatto?

Eppure ho contato ogni singolo giorno da quando ci siamo lasciati, Dana, anche se sicuramente non ci crederesti mai. Dana. Nella mia testa la chiamavo così centinaia di volte anche se dalle mie labbra facevo uscire il suo nome raramente, quando dovevo attirare la sua attenzione per lo più, o impedire a me stesso di dire qualcosa di tremendamente fuori luogo.

“Ehi Scully, portavo davvero delle cravatte così orrende?” le chiesi come se fosse l’unica cosa che mi importava sapere, nonostante il mio cuore avesse guadagnato parecchi battiti in pochi secondi. 

“Certi giorni eri imbarazzante Mulder” mi confidò allora lei con un sorriso, con la mente che si immerse nei ricordi.

“Avresti dovuto regalarmi qualche cravatta in più” protestai fingendomi offeso, nel goffo tentativo di non permettere che si soffermasse su ricordi passati troppo tristi. Arricciai il naso confuso. Effettivamente non avevo ben idea di dove potessero essere collocate le mie cravatte variopinte degli anni ’90, se tra i ricordi orridi, tristi o esilaranti. 

“In definitiva sì, avrei dovuto” Scully sfiorò la foto prima di allontanarsi con uno sbuffo e sparire verso la camera da letto.

Ecco, forse rientravano in quelli tristi pure quelle. Alzai le spalle e capii che quel momento distensivo era già finito, maledicendomi per non essere stato in grado di prolungarlo. Avevo visto abbastanza lacrime sul suo viso per quella giornata e avrei voluto vedere solo sorrisi, ma probabilmente non ero più in grado di farla ridere come una volta, il che mi procurò un fastidioso bruciore alla gola. Davvero quei vent’anni insieme, gli X-Files, tutto ciò che avevamo affrontato, ci avevano fatto perdere il piacere di guardarci negli occhi e sorridere? Ero riuscito a farle questo, a rendere quegli occhi blu così tristi e rassegnati? L’avevo costretta a togliere una delle poche foto di nostro figlio da lì perché era troppo doloroso vederla ogni giorno e riflettere sul perché le fosse rimasta solo quell’immagine di un neonato?

“Hai fame?” urlai ancora fermo in mezzo al soggiorno, indeciso se proseguire l’esplorazione di quella casa estranea o aspettare che lei mi invitasse. Non avevo più alcun diritto di muovermi per casa sua, non da quando quella fantomatica diagnosi di depressione era stata messa nero su bianco e tutto aveva iniziato a sgretolarsi più del solito. Dopo il nostro ultimo caso, la morte di Padre Crissman e l’operazione riuscita al piccolo Cristian, le avevo promesso di portarla lontano dall’oscurità ma non ne ero stato capace. Ci avevo provato, io solo sapevo quanto. Eppure c’era sempre qualcosa che mi rendeva insoddisfatto e che non mi permetteva di essere felice, come se fossi incapace di smettere di rincorrere i fantasmi e godermi il presente. L’avevo fatto per venticinque anni con mia sorella…e ora continuavo a farlo nella speranza di ritrovare mio figlio.

Il vuoto lasciato da William ci avrebbe mai permesso di far trovare pace alle nostre anime o avrebbe continuato a perseguitarci ogni singolo giorno e ogni singola notte della nostra esistenza? 

“Ho bisogno di credere che non lo abbiamo trattato come spazzatura”. La sua frase di poco prima ancora mi rimbombava in testa. Ne ho bisogno anche io, Dana. Ho bisogno di credere che non sarebbe cambiato nulla se io fossi stato lì con voi quando tu sei stata costretta a darlo in adozione. Ho bisogno di credere che lui ora sia felice come non lo siamo noi e che un giorno lo rincontreremo. Ho bisogno di credere che non avessimo altra scelta e lui ci voglia bene anche se non ci conosce.

“Sto bene Mulder” gracchiò lei con un leggero affanno, probabilmente dovuto al fatto che si stesse spogliando e mi resi conto che quasi mi ero dimenticato che cosa le avessi chiesto. Un tempo sarei stato lì con lei a sfilarle quella camicia celeste e a stringerla tra le mia braccia, impedendole di piangere anche se diceva di star bene. Un tempo non avrei avuto dubbi sul da farsi e non mi sarei sentito così tremendamente in imbarazzo come invece mi sentivo in quel momento.

“Ho bisogno di credere che non lo abbiamo trattato come spazzatura”. Ancora quella frase, ancora il tono di voce con cui me l’aveva confidato.

No che non stava bene. Quando Scully diceva che stava bene non era mai così, mi erano bastate poche settimane di lavoro al suo fianco per capire questa regola elementare che negli anni mi avrebbe aiutato a decifrare le sue frasi. Era quello che un qualsiasi studente di psicologia avrebbe definito come un meccanismo di difesa, quello della negazione, talmente radicato da essere diventato un tratto della sua personalità. Ok, forse non proprio uno studente qualsiasi, ma io potevo farlo. 

“E quando sarebbe l’ultima volta che hai ingurgitato del cibo?” continuai a guardami attorno sentendomi sempre più un idiota, con la giacca in mano e i piedi ancorati al quel pavimento, nemmeno fossi vittima di una paresi.

“Ho preso un caffè qualche ora fa” la voce di lei si fece più nitida, sebbene fosse oscurata dal rumore dei cassetti che si aprivano e chiudevano.

“Scully ho detto cibo” risi trovando finalmente la forza di muovermi e dirigermi verso quella che doveva essere la cucina “Spero abbia fatto la spesa recentemente” continuai sullo stesso tono andando ad aprire il frigo, con la stessa sicurezza che hanno i concorrenti dei programmi di cucina.

“Sto bene Mulder” ripeté lei fermandosi all’ingresso della cucina e poggiando un braccio sullo stipite della porta.

Sì, certo, stava bene. Stavamo bene entrambi. Margaret era morta, Bill e Charlie non le avevano più fatto una telefonata, il caso dello spirito tibetano Tulpa era stato archiviato e lei era così disperata che aveva lasciato che l’accompagnassi a casa senza batter ciglio. In effetti quest’ultimo dettaglio bastava da solo per rendere il quadro della situazione e dello stato d’animo di Scully. La osservai per qualche secondo prima di inclinare il capo e sorriderle dolcemente “Lascia che mi prenda cura di te, anche se stai bene…” mi ritrovai a sussurrare senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla maglia lunga che aveva indossato e che le cadeva informe sulle ginocchia. 

“Di solito questa è la mia battuta” non poté fare a meno di farmi notare lei “Anzi, negli ultimi anni lo è stata”.

Non mi rimase che annuire con un nuovo sorriso senza riuscire a staccare gli occhi dalla sua figura. Touchè. Negli ultimi anni era stata la Dott.ssa Scully che si era occupata del paziente Fox Mulder, l’aveva tenuto a riposo, aveva vegliato su di lui e sul suo umore, gli aveva firmato tutte le prescrizioni e l’aveva convinto a fare chiacchierate settimanali con una psicoterapeuta. Io, uno psicologo, che andavo a discutere della mia vita con un collega. Era diventata il mio medico e aveva smesso di essere la mia partner, avevamo smesso di ridere e le conversazioni si erano ridotte a un promemoria sulle pillole da prendere o sulle cose da fare e da non fare. Si era presa cura di me ottimamente, dovevo riconoscerglielo…almeno come medico. 

“Allora direi che è tempo che venga ripristinato l’ordine delle cose, dove io mi prendo cura di te” scherzai aprendo il primo cassetto della cucina giusto per darmi un tono.

“Ciò potrei accettarlo se effettivamente TU sapessi cucinare” mi punzecchiò lei “A meno che nella tua idea di cucina non sia compreso del cibo fatto portare a domicilio”.

Per la miseria, nonostante la stanchezza, le lacrime delle ultime ore, la tensione, il dolore, i capelli scompigliati…era bellissima. Era bellissima come sempre, come la donna con cui per anni avevo diviso più di metà delle mie giornate negandomi di guardarla con occhi da uomo e non da collega. Come la ragazza che quella prima notte in Oregon era comparsa nella mia camera da letto terrorizzata per delle punture di zanzara. Come la donna che mi aveva salvato il cu*o talmente tante volte da averne perso il conto e che non aveva mai smesso di cercarmi anche quando tutti mi davano per disperso, credendo in me e per me anche quando io non potevo. Come la donna che avevo amato per anni senza però mai dirglielo a parole. Dana Katherine Scully era bellissima. Infilai la mano nella tasca dei pantaloni ed estrassi qualche seme di girasole, porgendoglielo con un sorriso. Lei inarcò il sopracciglio in quel modo che solo lei sapeva fare, quello che mi mandava il sangue al cervello, mi faceva arrotolare lo stomaco e non mi faceva ragionare.

“Mi sono mancati…” mormorò sincera lasciando scivolare il guscio tra i denti e socchiudendo gli occhi mentre il sapore familiare le invadeva la bocca.

 “Consideralo un antipasto…” le feci l’occhiolino rubandole uno dei semi che le avevo appena dato e addentandolo soddisfatto. “Ti stupirò Scully…” aggiunsi raggiante con un sorriso a trentadue denti.

“Tu è una vita che mi stupisci Mulder” mi rispose arruffandomi i capelli in un gesto tenero.

Non ero sicuro che fosse esattamente un complimento ma decisi di prenderlo come tale, tanto più che lei si era accomodata sulla sedia e mi fissava aspettandosi da un momento all’altro di essere delusa o strabiliata. Aprii la confezione di pollo che avevo recuperato dal frigo e ringraziai il Cielo che fosse già tagliato e mi evitasse potenziali figuracce con coltelli, cerotti e sangue, dove Scully sarebbe stata costretta ad essere, per l’ennesima volta, il mio medico. Lo misi a rosolare ingoiando in silenzio un’imprecazione quando l’olio rovente mi schizzò sulle dita a tirai fuori i due peperoni abbandonati nel cassetto del frigorifero, lasciandolo così desolatamente vuoto.

“Devi fare la spesa, il frigo di casa mia è più fornito di questo e non è un buon segno” scherzai con le mani che erano già sotto l’acqua, meravigliato dalla disinvoltura con cui mi stessi muovendo in quella cucina in cui non ero mai stato.

“Bisogna vedere di cosa è fornito” Touchè. Colpito e affondato per la seconda volta in pochi minuti. Mi conosceva troppo bene del resto. “Scommetto trenta dollari che è pieno di the freddo!” mi tentò, cercando di apparire allegra ma con lo sguardo sofferente che la tradiva.

“Perderesti Scully” a mia volta rimasi vago mentre iniziavo a tagliare i peperoni. Percepii il fruscio alle mie spalle prima che un brivido di freddo mi desse la certezza che ero rimasto solo. Sospirai e mi concentrai sulla nostra cena senza muovere un muscolo o dire nulla. Ero un narcisista, uno schifoso egocentrico talvolta, un paranoico e, a giudicare dalle ultime diagnosi, persino un depresso. Ma sapevo perfettamente quando era il momento di parlare e quando quello di star zitto, quando lei voleva essere lasciata in pace e quando dovevo seguirla. Lo sapevo sempre, anche se in certe circostanze decidevo di ignorare il tutto preferendo godermi lo spettacolo di Dana arrabbiata, irritata e furente con il sottoscritto. Oggi non era uno di quei giorni. Oggi sua madre era appena morta. E l’ultima parola che aveva detto prima di chiudere gli occhi per sempre, era stata per nostro figlio.

“Ho bisogno di credere che non lo abbiamo trattato come spazzatura”.

Lottai contro un’improvvisa ondata di nausea che mi travolse quando buttai nella spazzatura gli scarti delle verdure che avevo appena fatto scivolare assieme al pollo e che ora stavano sfrigolando inondando la cucina di un piacevole aroma.

“Hai ragione, preferisco non rischiare i miei trenta dollari”

La voce di Scully mi fece sollevare lo sguardo, seguita da un qualcosa di freddo a contatto con la pelle. Sorrisi non appena riconobbi la bevanda e accettai l’offerta con un sorriso. Non so se fosse riuscita a decifrare la mia espressione di qualche secondo prima, non so da dove avesse tirato fuori quelle due bottiglie né come facessero ad essere fresche…ma era davvero ciò di cui avevo bisogno.

“Non ti riconosco più agente Scully” la presi in giro dopo il primo abbondante sorso, con la schiena poggiata contro il piano cottura “Frigo vuoto, birre fresche…non mi dirai che hai iniziato a credere anche negli extraterrestri?” ammiccai tornando a cercare il collo della bottiglia con le labbra e lasciando scivolare nuovamente il liquido freddo nella mia gola.

“Potrei dire lo stesso agente Mulder” lei sollevò nuovamente il sopracciglio sporgendosi verso la pentola “Pollo e peperoni?” rise divertita “Dov’è finita la vecchia cara cucina cinese?”

“Avevo promesso di stupirti…” le feci notare dopo un nuovo sorso di birra. Forse lo stavo facendo davvero. Forse no. Ma almeno la stavo distraendo da quella giornata infernale.

“Quindi hai aspettato la vecchiaia per mostrare le tue doti nascoste?”. Ancora quel sopracciglio inarcato, ancora il mio cuore che perse un battito.

“Niente vecchiaia…sono i nostri giorni migliori, mi sembra di avertelo già detto” replicai dandole le spalle con la scusa di verificare la cottura di ciò che stava diventando l’argomento delle nostre conversazioni e per evitare di stringerla tra le mie braccia come avrei voluto. In definitiva non mi sentivo vecchio. Non più di tanto per lo meno. Mi sentivo stanco, disilluso e tremendamente solo, questo sì. Certi giorni mi svegliavo arrabbiato per tutto quello che mi era stato negato…ci era stato portato via. Certi giorni mi mancavano tutte le persone che avevo perso in quel lungo cammino forse senza un reale perché. Certe notti credevo ancora che la verità fosse là fuori ma io ero lì, dentro a quel letto, circondato dal nulla. Eppure da quando avevano riaperto gli X-Files erano tutti giorni migliori e mi sembrava di essere cambiato molto meno di quanto in realtà non fossi.

“Credi che riusciremmo a riconoscerlo?”

Strizzai gli occhi fino quasi a farli lacrimare. Mer*a. Nonostante non avesse messo il soggetto avrei potuto sapere con certezza a chi si riferiva quella frase solo sentendo il suo tono di voce o guardando i suoi occhi. Per una buona mezz’ora eravamo stati bravi a fingere, a ignorare l’unica cosa di cui avremmo voluto parlare, a scherzare e fingere che andasse tutto bene.

“William dico…” proseguì lei con un soffio di voce, convinta che il mio silenzio fosse dovuto alla perplessità o stessi cercando di elaborare la frase.

“Maledizione Dana, lo so che ti stavi riferendo a lui.” Mi morsicai il labbro fino a che il dolore non fu talmente forte da costringermi a rilasciare i denti dalla pelle, con il tono di voce che uscì più arrabbiato di quanto non avessi voluto. Mi capitava di vederlo nei miei sogni almeno una volta a settimana, quando mi svegliavo con gli occhi umidi, un braccio che pendeva dal divano e la fronte sudata ma con una strano sorriso sulle labbra. Nei miei sogni aveva le sue lentiggini, i miei occhi e per fortuna il suo naso. Era felice. Eravamo felici. E mi piaceva credere che questo fosse un segno che lui in realtà stesse bene. Volevo crederlo.

“Mi piace credere di sì” risposi dopo qualche secondo di silenzio alzando lo sguardo e incontrando i suoi occhi lucidi. Cos’altro avrei potuto dirle? Cosa potevo fare per rassicurare lei su un argomento che faceva perdere il sonno anche a me? ”Voglio crederlo” aggiunsi con quella frase che per un attimo le fece dilatare le pupille, ricordandole probabilmente quante volte l’avesse già sentita.

“Devo sapere che sta bene” proseguì lei con un filo di voce “Sono ore che penso a quando mi troverò nelle condizioni di mia madre…e so che vorrei anche io sentire la voce di William, esattamente come lei ha fatto con Charlie.”

“Dana” la interruppi con l’esclamazione del suo nome che mi uscì prima ancora che potessi riflettere “Prima di tutto tu non stai morendo” le feci notare stizzito per quel pensiero “…e in secondo luogo…”

“Ho bisogno di sapere che sta bene” ripeté Scully senza lasciarmi finire la frase.

La vidi tremare e tutto quello che le stavo per dire perse d’importanza. Aveva ragione, del resto era la stessa necessità che avevo io. Lo stesso desiderio che mi rendeva inquieto e che mi faceva andare avanti allo stesso tempo. Allungai una mano fino a coprire la sua e mi sorpresi dalla facilità con cui lasciò che le nostre dita si intrecciassero e si muovessero in una carezza leggera. 

“Ti prometto che lo troveremo” mi sentii di assicurarle stringendola contro il mio petto e accarezzando la sua fronte con un bacio leggero “Crediamo ancora nelle stesse cose, Scully” le rivelai con un mezzo sorriso, sentendo, esattamente come quindici anni prima, che avevo appena trovato la forza per salvarci.

  
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