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Autore: FRAMAR    03/09/2016    28 recensioni
Gli avevo raccontato la mia vita: la povera solita storia di una ragazza sedotta e abbandonata, ma senza vittimismo, così semplicemente, e lui ascoltava.
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Vincitore premio Mamma Coraggio
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La luce si è accesa




 
Umberto spolverò velocemente tutto quello che gli avevo preparato in ore di lavoro, le lasagne di pesce, il salmone con il pepe verde e i gamberoni con la salsa rosa di cui andava matto. Poi bevve il caffè in silenzio, aprì il giornale. Ma non leggeva, intuivo l’inquietudine che lo tormentava come tutte le sere.

Ad un tratto lui s’alzò, staccò il soprabito dall’attaccapanni, aprì la porta e s’immobilizzò sulla soglia.

“E allora ci hai pensato?”, disse.

“No. Non ho pensato proprio a niente”, esplosi, “non c’è niente da pensare, niente da decidere”. Avevamo fatto un patto, noi due …”.
Il tonfo della porta sbattuta con violenza aveva troncato le parole sulle labbra, e a me era venuto perfino da sorridere: la solita, vecchissima e stupidissima scena del marito incavolato  che andava ad affogare amarezze e contrarietà in un bicchiere di rosso al bar all’angolo.

“Papà è arrabbiato, vero?”.

Graziamo, apparso a piedi scalzi sull’uscio, perduto nel pigiamino a righini, glieli prendevo sempre qualche misura in più perché  non scappassero subito, mi ricordò Cucciolo, il nanetto di Biancaneve.

“Ma no, tesoro. Torma a letto, da bravo”.

Mio figlio ubbidì di malavoglia, si avviò con un’aria sconsolata che mi strinse il cuore.

Graziamo: Quattro anni. L’innocenza della sua età, e a volte una consapevolezza da adulto. L’avevo voluto, quel figlio, con ostinazione, con amore e disperazione, contro tutto e tutti, a dispetto delle difficoltà, delle critiche della gente. E a dispetto di Enrico. Enrico che avevo tanto amato, e che mi aveva anche amata ma non al punto da sposarmi, da accettare il cosi detto incidente. Come se un essere umano che si annunciava alla vita potesse essere definito un incidente.

Di lui ricordavo solo una squallida dissertazione sull’avvenire in uno squallido bar di periferia, e le sue mani lunghe e nervose posate come oggetti sul tavolino, vicino alla bottiglia di scotch.

Di colpo, l’amore che avevo sempre nutrito per lui era caduto come una febbre terzana. Ero rimasta a osservarlo con occhi diversi, come lo vedessi per la prima volta e gli avevo scoperto un mucchio di difetti, ma soprattutto mi ero stupita di non sentirmi più frustrata dalla mia condizione di ragazza-madre, come se la rivelazione della vera natura di Enrico mi avesse infuso un coraggio nuovo, una nuova dignità.

“Andiamocene, Graziano,  non è posto per noi, questo”, avevo detto silenziosamente. Perché io, dal primo giorno, da quando mio figlio non era ancora niente, soltanto un grumo di vita grande come un’unghia, avevo stabilito che sarebbe stato un maschietto, e l’avrei chiamato col nome del nonno, che da piccola mi portava cavalcioni sulle spalle, e poi mi regalava le monetine perché comprassi le carrube. Erano dolci e scure, così buone, allora le carrube. Adesso le  mangiavano soltanto i cavalli, forse, erano diventate indigeste, meglio additivi, coloranti, conservanti e surrogati vari sotto forme di merendine.  Sentii di odiare la stupidità che  caratterizzava quest’epoca, le sue ipocrisie, la sua violenza.

“Andiamocene Graziano”.

Avevo raccolto le mie cose lentamente, con una calma di cui mi stupì per prima. Fuori aveva preso a piovigginare, e il mondo mi era apparso tutto grigio, e sporco come le facciate delle case, le pozzanghere in cui affondavo i piedi di proposito, e l’avvenire.
E invece l’avvenire non è possibile ipotecarlo, l’avvenire può riservare un’infinità di sorprese. Quasi come per miracolo avevo subito trovato, attraverso un’inserzione, una coppia di coniugi senza figli  piuttosto in là con gli anni, disposta a ospitarmi, ad aiutarmi a mettere al mondo il mio bambino in tutta tranquillità.

Erano delle buone persone, e anche se io cercavo di prodigarmi in ogni modo per dimostrare la mia riconoscenza, sentivo che non avrei mai potuto estinguere il debito d’amore contratto con loro, col signor Nereo e sua moglie Elisabetta. Con quest’ultima specialmente. Insieme avevamo confezionato il corredino per Graziano, ne avevamo atteso l’arrivo con gioia e trepidazione.

In seguito, quando mio figlio aveva cominciato a parlare, la sua prima parolina era stata nonno, due sillabe casuali, magari senza significato, per lui, ma non per il signor Nereo. Gli occhi gli erano diventati di colpo lustri, enormi, e la faccia tutta rossa dalla commozione.

Poi era apparso Umberto. L’avevo conosciuto per caso, un giorno che avevo portato il mio bambino ai giardini, infagottato come un’astronauta. Era un pomeriggio invernale, illuminato da un sole freddo, e lui s’era messo a giocare con quel giovanottone che l’assecondava come un ragazzino, seduto sul bordo della vasca che d’estate ospitava i pesciolini rossi e che adesso era asciutta, sporca di foglie secche e di rifiuti. Sembrava che Graziano l’avesse eletto per suo compagno di giochi, perché la prima volta che l’aveva visto gli era corso incontro difilato, facendogli grandi feste, e io avevo dovuto rincorrerlo, malgrado lui fosse ancora così piccino e traballante sulle gambe grassocce.

“Mi scusi…”, avevo balbettato prendendo mio figlio in collo.

“Lo lasci fare, signora”,  aveva protestato Umberto, “io adoro i bambini”.

Da allora c’eravamo ritrovati quasi tutti i giorni.

Che Umberto amasse i bambini era un fatto da provare, anche se per Graziano dimostrava un attaccamento particolare e io gli avevo raccontato la mia storia come a un  vecchio amico, semplicemente, senza atteggiamenti vittimistici, senza voler apparire la povera, solita fanciulla sedotta e abbandonata. Lui era stato ad ascoltarmi in silenzio, e col tempo aveva avanzato proposte serie, di sposarmi, riconoscere il bambino e affrontare la vita insieme, tutti e tre.

Certo era stato sempre il mio sogno segreto quello di dare un nome, un padre e una casa a Graziano, però volevo essere certa dei suoi  sentimenti, e poi c’erano cose che mi lasciavano perplessa: A volte, per esempio, sorprendevi Umberto guardare mio figlio in modo strano, e ne intuivo le ragioni, forse la sofferenza che Graziano  non gli assomigliasse per niente era un fatto. Tanto lui era bruno e con gli occhi scuri, quanto io bionda, solare,  con le pupille chiare. Inutile negarlo, il mio piccolo era il ritratto vivente di Enrico, solo che a me il fatto non faceva nessun effetto perché Enrico era come se fosse  mai esistito, era morto perfino mei miei ricordi. E così, al momento di prendere la grande decisione, ero stata chiara, con Umberto.

“Ti voglio bene”, gli avevo detto. “e sarò una buona moglie, però ricordati che mi separerò da Graziano soltanto quando sarà sposato, perché un figlio viene dal cuore, è più importante di chiunque altro”.

“Non ho mai pensato di separarmi da lui”, aveva risposto, però si era rabbuiato in viso, per quell’essere catalogato in una posizione secondaria.

C’eravamo sposati poco tempo dopo, con una cerimonia semplice e intima, alla presenza dei testimoni e di un’amica d’infanzia che non aveva fatto altro che piangere per tutto il tempo della funzione.

Eravamo stati anche felici, i primi mesi, poi le cose avevano cominciato a complicarsi. Umberto mi accusava spesso di viziare  mio figlio, di dedicargli troppo tempo, di sentirsi trascurato per colpa sua. E poi c’era il fatto di non poter mai programmare niente, di dover sacrificare tutto alle sue esigenze, come l’andare a vedere un buon film, alla sera, uno spettacolo interessante, o ad ascoltare qualche concerto di musica, di cui lui era un patito.

“E’ possibile che non ci si possa mai muovere?”, mugugnava.

Precipitai del tutto, il giorno in cui rivetti la visita del signor Nereo e della signora Elisabetta. Erano arrivati inaspettati, le braccia ingombre di fiori e di cioccolatini, e io ero stata così contenta della sorpresa.

Mi ero sentita gelare quando il signor Nereo aveva cominciato a dire che sentivano la mancanza di mio figlio.

“Perché non ce lo affidate”, se n’era uscito, guardandomi dritto negli occhi, “siete giovani, avrete altri figli, e per noi sarebbe un raggio di sole che riscalderebbe la nostra vecchiaia”.

“Mio figlio non è un orfano!”, mi ero ribellata.

“Non dire subito di no”, mi aveva interrotta la signora Elisabetta, “non pretendiamo che prendiate una decisione su due piedi. Rifletteteci con calma. Graziano starebbe bene, con noi, e potrebbe vivere agiatamente, per tutta la vita. Di questi tempi, non è poco”.

“Ci sono tanti bambini che non hanno nessuno, che cercano una famiglia”, aveva insistito.

“Ci penseremo, si vedrà”, era intervenuto Umberto.

Da allora Umberto era cambiato tanto che gli avevo perfino nascosto d’essere  in attesa di un secondo bambino. Glielo avrei detto quando non sarebbe più stato possibile nasconderlo, perché ero certa che la situazione  si sarebbe ulteriormente aggravata.

Poi accadde che aprirono un nuovo asilo-nido proprio vicino casa, e vi iscrissi subito Graziano. Vivere e giocare con altri bambini della sua età gli avrebbe fatto bene,  l’avrei sottratto all’atmosfera di tensione che si era andata creando, e nello stesso tempo il fatto di poter disporre di maggior libertà e di tempo da dedicare alla casa avrei contribuito a migliorare le cose. Forse. Del resto, Graziano andava all’asilo molto volentieri. Al mattino cominciava a strillare perché io lo preparassi per tempo, usciva di casa tutto elettrizzato, la manina stretta nella mia, e nell’altra Cicolino, un cagnetto di peluche che gli era stato regalato quando  aveva compiuto due anni.

Anche in quella circostanza  Umberto aveva trovato il modo di piantare una nuova grana.

“Sono soltanto quattro passi” aveva detto, “dovresti abituarlo ad andare da solo”.

“C’è da attraversare la strada e tu sai quanto sia fifona, io. Vedo pericoli dappertutto”, avevo ribattuto, stancamente.

“Non mi pare il caso. C’è sempre un vigile di servizio, nelle ore di punta”.

“D’accordo, da domani andrà da solo”, avevo troncato. Tanto, avrei fatto a modo mio. Durante l’orario di entrata e di uscita di Graziano dall’asilo, Umberto era sempre in ufficio.



 
Successe proprio il giorno dopo. La notte aveva dormito poco e male, Umberto si era svegliato all’alba con la bocca amara e un gran mal di testa.

Mi aveva attribuito la colpa alle troppe sigarette fumate, e al vino nuovo che quello stupido di barista l’aveva quasi costretto a bere.

“Passerà”, si disse. Non poteva certo permettersi di restare a casa ,  in ufficio troppe pratiche aspettavano di venire evase. Durante la mattinata aveva ingollato un paio di pastiglie miracolose che avrebbero dovuto rimetterlo in sesto nel tempo di un amen, senza alcun risultato. E così aveva deciso di rincasare in anticipo. Provò a telefonarmi per avvertirmi, ma il telefono di casa squillava a vuoto.
“Sarà uscita per qualche commissione”, brontolò

Chiuso nella Cinquecento si chiese cosa gli stesse accadendo. Provò ad analizzare i fatti, senza venire a capo di niente. Eppure, la vita gli aveva dato tanto: un buon lavoro, una moglie affettuosa e un bambino adorabile che aveva accettato in partenza, che gli voleva bene. O forse no, non gliene voleva, che ne sapeva lui. E poi? Cos’era successo? Perché si sentiva eternamente così confuso e irritabile? E che cosa aveva dato, in definitiva, a Graziano e a me? Soltanto malumore, sgarberie. Niente ci viene regalato, anche l’amore andava conquistato, ricambiato giorno dopo giorno, altrimenti si rischiava di inaridirlo, di giocarselo irrimediabilmente. Sotto casa notò un capannello  di gente.

Mentre parcheggiava, udì l’urlo lacerante di un’ambulanza che arrivava a tutta velocità, a sirene spiegate.

In un attimo, il mezzo della Pubblica Assistenza si fermò, caricò qualcuno e ripartì altrettanto velocemente di come era arrivato.

Impressionato, Umberto si avvicinò al gruppo di persone.

“Che è successo?”, chiese a una donna.

“E’ stato investito un bambino dell’asilo”, rispose quella, e subito si allontanò col borsone della spesa appeso al braccio.
E fu allora che la sua attenzione fu attirata da qualcosa che gli fece gelare il sangue nelle vene: il cagnetto Cicolino giaceva sull’asfalto, semi sventrato, con la coda mozzata.

Si chinò a raccogliere i due pezzi del giocattolo, cominciò a rigirarsi tra le dita inebetito.

“E’ mio figlio”, gridò, “mio figlio, mio figlio…”.

Sembrava non sapesse dire altro. Gli furono intorno molti, a cercare di confortarlo.

“Può darsi che non sia niente di grave”, disse un uomo, “è stato un attimo. È sfuggito alla madre, ha attraversato all’improvviso…”.

“E’ mio figlio…”, ripeteva Umberto scuotendo il capo, in un tragico ritornello”.

Poi si sentì posare una mano sulla spalla. Si girò e si trovò davanti me. Aveva un’espressione  infinitamente triste,  nei begli occhi azzurri.
“Forse ho ucciso nostro figlio”, si disperò, cercando rifugio tra le mie braccia.

“Graziano è a casa”, spiegai, “aveva prestato Cicolino a un amichetto.

Poi gli tesi un fazzoletto, perché si asciugasse le due lunghe lacrime che gli rigavano il viso.

Era la prima volta che mio marito chiamava Graziano, mio figlio. E fu proprio attraverso quelle due parole e quelle due lacrime che io capii che una luce s’era accesa, e che la lunga attesa era finita. La nostra unione non sarebbe stata mai più una convivenza, una coabitazione, ma da quel momento s’era finalmente trasformata in una famiglia vera, unita e felice. E per l’avvenire, anche numerosa.
 
 
 
 

   
 
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