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Autore: malmins    04/09/2016    0 recensioni
La strada è fatiscente, la paura è grande, la voglia di vivere è infinita.
L'arrivo all'ospedale di Tesanj, sotto colpi di granata, è riuscito. Dal furgoncino a penzoloni ci sono le gambe di Izet.
Un ragazza, una giovane infermiera guarda incuriosita la scena che le si presenta davanti agli occhi. Riderebbe se non fosse che ormai tutte le risate sono spente, come i lampioni che non vedono luce dall'aprile del 1992.
Bosnia ed Herzegovina, 1993. Nel pieno della guerra, l'amore prevarica l'odio.
È una storia di fatti realmente accaduti.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono le 15.02 del 23 agosto 2016 e io sono in viaggio di ritorno dalla Bosnia, la mia terra natale. Sto ritornando in Italia dove ormai vivo da più di 17 anni, con i miei genitori Izet e Elmedina. Due rocce salde nella mia vita, coloro che mi hanno regalato una vita interessante, piena di sorprese e gratificante. 
Non tutti hanno avuto la possibilità di andarsene, così piccoli, da un paese da poco uscito dalle macerie di una guerra senza senso. Morti e stragi inutili, prese di potere che non hanno valore, se non quello di rovinare la vita a milioni di persone innocenti.
Amo il mio paese, nei suoi pregi e difetti. Amo le mie origini, la mia cultura e soprattutto la mia famiglia. Amo il fatto che sia multiculturale, che ci si possa confrontare con tante realtà diverse ed essere affascinata ogni volta da ciò che esso possa regalare. Nuove amicizie, nuovi modi di dire e perché no, magari anche l'amore. 
Il fatto che adesso, in mezzo a confini invisibili, vivano tre cittadinanze diverse - bosniaca, serba e croata - è solo un segno di quanto l'ignoranza possa regnare sovrana. Il senso di questi confini? Il senso di voler delimitare qualcosa? Qual è la necessità di voler adesso decidere cosa è di chi, quando trent'anni fa nessuno se n'è curava?
Quanto può rendere ciechi l'odio? Un odio insensato, se si chiede il mio parere. Sono contraria a qualunque tipo di odio e guerra. Non sono questi i mezzi per mandare avanti il mondo. Basta pensare a quello che hanno fatto dei mostri di uomini più di 70 anni fa. L'umanità, non è questo. L'umanità non raderebbe a suolo una città intera solo perché credo in un Dio diverso. Quando alla fine di diverso non ha nulla se non il nome. 
Quasi vent'anni dopo sono ancora vividi i segni, i ricordi non svaniranno con il tempo. Un marchio profondo come quello di una guerra, a mio parere, perseguita l'anima finché si vive. 
Non ne sono reduce, grazie a Dio, ma la mia famiglia lo è. La forza di andare avanti dopo tre anni di puro terrore è qualcosa che stimo moltissimo. Non dubito del fatto che tra i loro vari film mentali qualche granata non risuoni ancora tra i meandri della loro mente. Al senso di smarrimento quando ormai non si ha più nulla da perdere se non purtroppo la propria vita. Sopravvivere, unico pensiero fisso. Nemmeno la fame è poi così importante, la fame si riempirà una volta sopravvissuti. Una vita persa non andrà riempita con la stessa persona. 

                                                    ***
Nel 1993, 8 luglio precisamente, nel tratto della provincia di Maglaj e Tesanj, un giovane ragazzo di poco più di vent'anni sta tornando sulla strada principale dopo aver donato il sangue a uno dei suoi più cari amici, Fuad. Un tratto che segnerà la sua vita. 
Un giovane con una carriera davanti a sè. Il basket è ciò che lo rende più felice a questo mondo. Sogna una carriera tra i più grandi del mestiere: Delibasic e Bodiroga. Due assi. Lui vuole essere il prossimo. Giocare nei massimi campionati, essere ricordato. 
Fatale è quel caldo giorno di luglio, dove sotto cecchini e granate, Izet sta tornando a casa. Dopo aver camminato a piedi, in mezzo a boscaglia e campi, per 50 km in tutto, nell'ultimo tratto di 200 metri Izet crolla a terra. Incapace di produrre alcun suono, capisce che il destino di tante altre persone ha raggiunto anche lui. 
Non crede che il suo corpo in quell'istante possa reagire allo stimolo della voglia di vivere. Resosi conto che i cecchini lo hanno colpito alla gamba destra e all'addome, lacerando l'intestino e per poco anche la spina dorsale. Con le ultime forze rimaste riassesta le viscere, sgusciate fuori dal corpo, per quel poco che gli permette di riacquistare un sussurro.
Trascinandosi in un punto della strada in cui i cecchini non avrebbero più potuto raggiungerlo, in soccorso arrivano i vicini che con fatica, a causa dei 2 metri e 3 di altezza del ragazzo, per mezzo di una brandina lo trasportano negli alto piani dove ad attenderlo c'è un malridotto furgoncino dell'ambulanza, che lo avrebbe portato nello stesso ospedale che Izet ore prima aveva visitato per altri motivi. 
La strada è fatiscente, la paura è grande, la voglia di vivere è infinita. 
L'arrivo all'ospedale di Tesanj, sotto colpi di granata, è riuscito. Dal furgoncino a penzoloni ci sono le gambe di Izet. 
Un ragazza, una giovane infermiera guarda incuriosita la scena che le si presenta davanti agli occhi. Riderebbe se non fosse che ormai tutte le risate sono spente, come i lampioni che non vedono luce dall'aprile del 1992.
I soccorsi spostano il ferito, tanto familiare alla giovane infermiera, su una barella che dovrà essere di corsa portata in una sala chirurgica. Sale in cui purtroppo altri corpi in fin di vita o meno stanno lottando. 
Dina, l'infermiera venuta in soccorso, si ricorda del giovane ragazzo. Ore prima è venuto per donare una sacca di sangue. Sacca di sangue che, per fortuna di Izet, è rimasta inutilizzata. 
La vita di Izet è nelle mani di Dina e del miglior chirurgo, tra l'altro americano, all'interno della struttura ospedaliera che prende il suo caso immediatamente, dichiarando che le probabilità di sopravvivere sono alte grazie al ritrovamento della suddetta sacca. 
Izet è cosciente, più o meno, a tal punto da pregare l'infermiera di evitargli la tragedia di strappare i suoi pantaloni della tuta preferiti. Dina è incredula di cosa possa passare per la mente di questo ragazzo, che lei trova insolitamente carino, in un momento cruciale come quello di un intervento del genere. 
Accantonando le suppliche del cestista, Dina esegue le procedure di pre operazione e, con tutta la fede in Dio che in quei attimi non è svanita e la speranza riposta nelle mani del dottore, attende senza impegno il ritorno del giovane ragazzo.
Sembrano infinite le ore che passano quando è in atto una guerra, tanto quanto quelle di attesa per qualcuno dalla sala operatoria. 
Izet è vivo, l'operazione è riuscita. Il dottore è soddisfatto. Il giovane lo ringrazierà a vita.
Dina è presente quando il ragazzo si sveglia dal post operatorio. Un leggero sorriso alleggia sulle sue labbra, tant'è che lei crede che lui sta sognando. 
Izet fa la conoscenza di Dina e non crede alle sue orecchie di cosa abbia passato e che lei sia stata la persona che lo ha salvato dalla morte. 
Tra i vari bombardamenti, qualche rimasuglio di caffè bevuto di nascosto, i due giovani parlano. E tanto, anche. Parlano di loro, della loro vita, di un futuro che entrambi sognano. 
Il giovane è affascinato da Dina; la trova intelligente, carismatica e coraggiosa. 
Contro il volere di tutti, la giovane infermiera svolge i turni all'ospedale. La sua voglia di lavorare è grande, quella di vivere lo è altrettanto. Ma è questo lavoro è la sua vita, la biologia, la chimica.. Sognava l'università, sognava una bella carriera per sè. La guerra ha stroncato queste ambizioni: aveva solo 20 anni quando tutto ciò èiniziato.
Dina sa il rischio che corre, sa che suo padre è sempre in pena, sa che sua madre piange quando lei non c'è. 
Sa anche che nella sua vita non ha vissuto quasi nulla, proprio quando doveva. Sa che Izet è la sua luce in questo profondo buio. 
Ottobre del 1993, i bombardamenti sono ancora in atto. Granate, cecchini, massacri. Tutto ciò è ancora in atto. Non riescono a prevedere la durata. Doveva durare poco. Non doveva proprio iniziare. 
Da quello che mi hanno raccontato, la razionalità non è qualcosa che viene usata in casi come la guerra. Non se ne ha la possibilità, non se ne ha la capacità a dire il vero. 
Sei appeso ad un filo, e pur di vivere, rischi. Saprai vivendo, si dice. 
Ed è così che Izet e Dina affrontano il matrimonio. Vivendo. 
In Bosnia è la sposa a dover venire a casa dello sposo. La procedura sembra semplice al giorno d'oggi, ma in un periodo come quello è pura illusione. 
Nessun trasporto, nessun mezzo di comunicazione. Nessuna certezza. 
Da Tesanj, con l'ausilio di una malandata macchina guidata da un caro amico di Izet, i due neosposi partono in direzione del paese dove lo sposo è cresciuto. 
Tra campagne deserte, qualche sparo in lontananza, l'amore prevarica l'odio. 
Si rischia la vita finché non sono tutti sani e salvi in casa. I genitori di Izet sono entusiasti. Il loro secondogenito finalmente si è sistemato. 
Dina è euforica, per la prima volta in vita sua è stata irrazionale. Per non dire stupida. Tre mesi dopo il loro incontro, l'aver detto sì ad Izet dopo la fatidica domanda l'ha resa per la prima volta libera. 
Dopo una vita passata ad obbedire e ad essere la figlia perfetta. 
Una figlia che forse adesso deluderà i suoi genitori. Non volevano questo per lei. Hanno paura che lei l'abbia fatto troppo in fretta, troppa avventatezza. 
Ma in guerra la fretta è pane quotidiano. In fretta si muore. 
Non si pensa alle conseguenze, e Dina non ci pensa. E' spaventata all'idea di presentarsi al cospetto di suo padre. La sua principessa è ormai una donna. Non più la sua bambina, come la vede lui. La sua bambina ormai appartiene a qualcun'altro. Quel qualcun'altro che suo padre vorrebbe strangolare, qualcuno contro cui punterebbe un fucile. 
Un fucile a cui non darà mai più pensiero. Izet è una benedizione. E diventerà uno dei migliori amici di suo suocero, di cui piangerà la morte nel febbraio 2001. 
Se cè una cosa che Izet ha imparato è non dare nulla per scontato. Specialmente dopo quel giorno di luglio. Nonostante l'operazione, il mondo che crolla fuori, il suo pensiero fisso è la pallacanestro. Una piccola gioia in queste tenebre. Un pallone a spicchi, un canestro e tira, tira, tira. La stanchezza non esiste, la sacca post operatoria che deve portarsi appresso non pesa, non lo ostacola. Niente ostacola questo amore.
Nessuno crede che questo mestiere possa essere una sicurezza economica. Soprattutto dopo che il proprio Paese si sta sotterrando sotto le macerie.
Dina è fiduciosa. Suo marito ha le piene capacità, il talento e la perseveranza giusta. 
È il 1997 quando la sua vita prende una via che sarà sempre di più in salita. 
Con la sua squadra di allora, nella città di Zenica, ha qualche inconveniente. Non si trovano gli accordi giusti. 
Ed Owen, allenatore americano, nota Izet. Lo chiama con sé, ma il giovane cestista non ne vuole nemmenosentir parlare.
Il basket in carrozzina non fa per lui. Non ci si vede, non è questa la carriera che desidera. 
Dina lo dissuade da questo pensiero, lo incoraggia a provarci. Un tentativo non ha mai fatto male a nessuno. 
La prima volta in una carrozzina per Izet è un'esperienza strana. 
Come si può giocare in questo modo? Come si può tirare a canestro? E i passi? I falli? Mille domande attanagliano la mente di Izet. 
Mille domande che troveranno una risposta, tutte quante, nei 20 anni a seguire di carriera nel mondo del basket in carrozzina. 
Da un allenamento, la situazione si è evoluta. Izet viaggia verso ltalia, Francia, Germania, Repubblica Ceca…Paesi che non avrebbe mai immaginato di poter vedere. Le speranze dopo la guerra erano rimaste davvero poche, se non esistenti. 
L'Italia ospita Izet e Dina con la loro figlia Alma, da ormai più di 17. Una vita che sì, è stata piena di movimento. Tra molti spostamenti, nuove amicizie e scuole. Ma piena di gratitudine, tra i vari ostacoli affrontati per arrivare dove sono adesso. 
  
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