Disclaimer: i personaggi utilizzati non
sono di mia proprietà, ma della sensei Hoshino.
Le
parti in corsivo, fatta eccezione per il dialogo finale, sono © del manga
(volume 1), così come il quadro a cui si fa riferimento (quel coso
assolutamente inquietante a fine volume 1).
Note: e dunque, ormai mi arrendo. O scrivo oneshot pov Allen, o non se
ne fa nulla .___.
Comunque.
Ho scelto di proposito di non collocarlo cronologicamente nel manga: perché mi
sarei dovuta dannare a rileggermi tutti i volumi e siccome voleva essere una
cosa... "naturale", conoscendomi avrei fatto piani e congetture e
avrei rovinato tutto.
Perciò,
sottolineo che quando si parla di "pagliaccio", non sto parlando per
forza dell'Innocence di Allen (e nemmeno sto sottilmente facendo notare che
Walker faccia ridere i polli XD *fissa moyashi/makoto*)
Dedica:
al mio
"Mana Walker".
Neither this
Né l'uno, né l'altro
La
prima volta che aveva messo piede all'interno dell'Ordine Oscuro, Allen Walker
se la ricordava bene.
C'è
chi dice che sia normale, che tutti gli Esorcisti, o i Finder e persino la
Sezione Scientifica lo ricordino con precisione; molti sostengono che
trattandosi dell'inizio di una nuova vita sia ovvio ricordarlo.
Allen
aveva in mente, in maniera piuttosto nitida, l'incontro subito precedente al
suo arrivo alla sede dell'Ordine: il bambino di nome Jean, per esempio. Quello
affrontato in quella città non era stato né il primo combattimento contro un
Akuma, né tanto meno l'ultimo.
Eppure
era vivido nella sua mente, più di altri.
All'inizio
Allen si era detto che la causa era il secondo incontro con il Conte del
Millennio: trattandosi del nemico degli Esorcisti per eccellenza, era
comprensibile che il combattimento in sua presenza fosse più semplice da
ricordare.
Ma
la verità Allen la sapeva: non era l'aspetto del Conte o la sua voce, quel
qualcosa che gli riportava alla mente quell'incontro forse voluto dal destino o
forse dettato dalla pura e semplice casualità.
E
non si trattava nemmeno di un Akuma particolarmente ostico; erano state le
parole del Costruttore a colpirlo, più di un proiettile o di un'intera arma.
«Tu sei
Allen Walker. Sei quel moccioso che fece di suo padre un Akuma!»
Non
era una rivelazione, per lui; e i ricordi, quelli erano sempre lì, nella sua
mente, anche senza bisogno di qualcuno che glieli riportasse a galla.
Forse,
ricordava il suo ingresso all'Ordine per la tristezza su cui aveva rimuginato
nel tragitto da quella città alla sede principale.
A
volte ancora oggi, quando pensava a quell'episodio così lontano che il tempo
avrebbe dovuto annebbiare, rendendolo sempre più vago, tremava un po'. La voce
di suo padre che lo malediva, il dolore all'occhio sinistro e l'odore
fastidioso del sangue che gli oscurava quella vista che - ma allora non poteva
immaginarlo - non avrebbe comunque perso.
Sarebbe
solo cambiata.
La
figura del Conte così grottesca e spaventosa per un bambino che, tuttavia, gli
era apparsa semplicemente come la salvezza, come la possibilità di scappare da
quella tristezza e da quella solitudine a cui la morte di Mana aveva lasciato
campo libero.
E
poi la paura, la Dark Matter che lo sovrastava, e parlava - e le urla di quel
padre che voleva a tutti i costi salvare.
Infine...
quella mano disgustosa, che si muoveva e lo trascinava, contro la sua volontà,
contro le sue grida di disperazione e paura; agli occhi dell'Allen Walker
bambino, un mostro che non riusciva a fermare e che era apparso all'improvviso
stava per uccidere il padre a cui voleva tanto bene.
Quell'arto
mai desiderato, quell'arma inconsapevole, strisciava e si muoveva, in maniera
così innaturale e così nauseante, seguendo il sangue, seguendo il terrore.
Ed
arrivava a suo padre, quel padre che non lo era per legami di sangue e che non
era più umano ma che lui, Allen, voleva ugualmente accanto a sé.
La
preghiera per essere distrutti.
La
richiesta di fuggire.
Un
rumore metallico, e una marionetta vuota che sussurra "ti voglio
bene" poco prima di rompersi definitivamente.
Il
desiderio di morire. Le lacrime.
Ed
un uomo che ti concede una via di salvezza che non vuoi e non meriti; vuoi solo
tuo padre. E loro non ti permettono di stare con lui.
Era
solo questo, che Allen Walker vedeva davanti ai suoi occhi.
«A quanto pare, anche tu sei un apostolo posseduto
da Dio.
Non diventeresti un Esorcista?»
Allen
ricordava bene il suo ingresso all'Ordine Oscuro.
Gli
erano rimasti in mente i commenti fatti dalle guardie poste all'ingresso,
quelle viste una volta entrato: dopo il trauma di un portone parlante che lo
accusava di essere un Akuma e di un Kanda che tentava di affettarlo - anche se
quello, lo faceva ancora.
Non
le aveva guardate direttamente quelle guardie, eppure aveva colto, sentito.
L'incredulità,
la sorpresa e la curiosità.
E
una buona dose di scetticismo.
Con
quella totale assenza di tatto - a quanto pare è stato maledetto! - e la
conferma che cercava per appartenere ad un luogo che non era "casa" e
non era "estraneo".
Era
solo un posto come tanti altri, con persone come tante altre e una stanza per
sé; impersonale come un albergo, freddo come una prigione.
Lo
chiamavano "Home", lo chiamano ancora in quel modo e forse ora ci
riesce anche Allen; ma prima no. Non c'era casa, per lui - perché quella era
con Mana, e se suo padre era morto, allora la sua casa era come distrutta.
E
non poteva essere ricostruita.
Col
tempo era cambiato tutto.
Le
"persone" erano diventate "compagni". La
"prigione" una "casa"; i commenti non c'erano più, le
guardie non lo osservavano neanche quando passava.
Perché
l'abitudine rende familiare anche l'insopportabile o quello di cui si ha paura.
Forse,
si era detto Allen a volte, era destino.
O
forse, molto più semplicemente era il modo più comodo di lasciar scorrere le
cose - anche se Kanda era insopportabile esattamente come il primo giorno.
A
volte accadeva che alcuni nuovi arrivati, specie fra i Finder, dessero vita a
quelli che in qualche modo potevano essere chiamati "pettegolezzi".
Allen
non dava più peso a quelle chiacchiere, perché c'era dell'altro; pensava sempre
a Mana, ma ormai non piangeva più.
Era
brutto, quando se ne rendeva conto, chiuso nella sua stanza tra una missione e
l'altra.
Si
sedeva per terra, appoggiandosi al bordo del letto con la schiena e guardava
alla parete, proprio come il primo giorno.
Pensava
a Mana, anche ora - specialmente ora.
Ricordava
quando avevano creato quel codice, quel gioco fatto solo per loro, quel loro
piccolo grande segreto. Qualche volta, si intristiva.
Pensava
al fatto che era un tempo che non sarebbe tornato più.
Però
poi, Allen piegava la testa all'indietro e posava lo sguardo su quello strano
quadro che aveva trovato lì appeso alla parete e che non aveva mai tolto.
Quello
strano giullare incatenato, con quell'enorme bara sulle spalle e quella grande
croce disegnata su di essa.
E...
sorrideva; sfiorava con attenzione la superficie della tela, i colori appena
raggrumati in alcuni punti che rendevano il contatto leggermente irregolare. Lo
toccava come si tocca qualcosa di estremamente fragile e prezioso.
Sorrideva
perché conosceva tutto di lui, dopo averlo osservato silenzioso e impassibile
lì nella sua stanza, dove Allen non era "Walker", non era "il
distruttore del tempo".
Dove
lui era ancora quel bambino che pregava, pregava, aveva fede in Dio ed ogni
sera chiedeva a quel Signore misericordioso di ridargli il suo papà.
O
di permettergli di svegliarsi e dire che sì, era stato solo un brutto sogno.
Sorrideva
perché lui era proprio come quel quadro.
Un
pagliaccio che, da dietro la maschera, non mostra mai il suo vero volto.
Un
pagliaccio incatenato al suo passato senza possibilità di fuga.
Un
pagliaccio che piangeva per il peso della morte che aveva sulle spalle.
Forse,
quella era l'unica cosa che sapeva fare bene: era stato evidente fin da quando,
raccolto dalla strada da Mana, ne era diventato l'assistente negli spettacoli
da artista di strada che l'uomo faceva.
Gli
piaceva far sorridere le persone - ed ora c'era sempre e solo così tanto
dolore.
Amava
il sorriso di Mana, e quel suo scompigliargli con gentilezza i capelli,
complimentandosi per quei piccoli trucchi riusciti che ai suoi occhi sembravano
elogi per una grande impresa.
Adorava
il calore della sua mano sulla propria testa, un calore così umano e familiare,
così rassicurante che Allen ne era sempre stato sicuro: lui e Mana sarebbero
stati insieme per sempre.
Ma
con l'ingenuità di un bambino non aveva considerato quel dettaglio, quella
piccola, forse insignificante ma devastante verità.
I
"per sempre" non esistono.
Vorrebbe
piangere, Allen, quando pensa a Mana. Vorrebbe piangere come il giorno della
sua morte.
Anche
ora che è cresciuto, che sa che può combattere.
Vorrebbe
sedersi, anche a terra, non ha importanza; portare le gambe al petto,
circondarle con le braccia, come quando si è bambini e si ha paura o si sta
male.
E
piangere, piangere, senza controllo; urlare tutta la disperazione, e la
spossatezza che sente addosso ogni volta che pensa a suo padre.
Vorrebbe
ricordare il suo sorriso, il sorriso di Mana che non potrà più rivedere e
provare le stesse cose sentite il giorno che lo hanno sepolto, sotto la terra
fredda che poi li ha divisi; e a quel punto, piangere proprio come allora.
Per
il dolore, e la paura della solitudine.
Ma
Allen non riesce più a farlo: sente solo quel fastidioso nodo alla gola, che a
volte si stringe così tanto che gli mozza il respiro e lo costringe ad aprire
bocca come per parlare e prendere aria che altrimenti non arriverebbe ai
polmoni.
Lo
trova irritante, ma di arrabbiarsi non ha la forza; si rende conto che ancora
pensa che potrebbe incrociare il volto di Mana e si dice che è uno stupido.
Che
non è ancora davvero un Esorcista lui, e non è più un essere umano.
Troppo
debole per riuscire a pronunciare: "mio padre è morto".
Troppo
forte per piangere quando pensa a lui.
«Allen-kun,
cosa stai guardando?»
Si
volta verso la propria sinistra, Allen, e osserva la figura di Linalee, in
piedi e che gli sorride. Lo fa anche lui, di rimando - per riflesso, per
abitudine - e scosta lo sguardo dalla finestra: «Nulla, guardavo fuori. Mi sto
un po' annoiando, in realtà.» replica, e mente.
Ma
in fondo, lui ha mentito spesso.
«E'
bello, vero? Nevica proprio ora che siamo quasi a Natale.» gli fa notare lei,
con l'entusiasmo di una bambina nella voce.
Lui
sorride - solo perché non sa quale altra espressione adottare in quel momento,
come un attore che ha scordato le battute e tenta un'improvvisazione.
«Già.
Ti piace la neve, Linalee?» chiede, per non fare cadere il silenzio o forse per
non smorzare l'entusiasmo di lei.
«Molto!
A te, no, Allen-kun?»
«Mana, Mana guarda! Sta nevicando!»
«Ti piace la neve, Allen?»
Sorride, stringendosi sotto la coperta che
utilizzano entrambi.
Fa un po' freddo, in verità, ma va bene lo stesso.
E' così bella e bianca, la neve.
E quando cade dal cielo, Allen ha imparato che Mana
lo prende,
lo lascia sedere sulle sue ginocchia,
e gli permette di addormentarsi a quel modo.
«Sì, moltissimo!»
«Sì.
Piace molto anche a me, Linalee.» replica - e stavolta no, non ha bisogno di
mentire.
Note
finali
Semplicemente
qualche riga di cui approfitto biecamente per ringraziare chi ha letto
"Say it to me".
Un
grazie quindi a makotochan (in arte, moyashi XP); Mistral (mi ha
fatto davvero tanto piacere >w<); Aki_ (grazie di seguirmi sempre
>*<).
Un
grazie speciale a Kodamy (perché mi è preso un mezzo colpo quando ho
visto la recensione per i motivi che ti ho detto e perché sei una santa donna
che risolleva il mio ego ù_ù/).