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Autore: Michan_Valentine    12/09/2016    0 recensioni
Dedicata al legame che intercorre fra Ruvik e Leslie. La mia interpretazione di come abbiano trovato their way out.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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  Capitolo 1 - Leslie Withers

“Male, male, male…”
Continui a ripeterlo sottovoce, a capo chino. A volte il tono è più acuto, più urgente. Altre è un sussurro quasi indefinito.
Il sangue ti cola giù dal naso e ti arriva in bocca. Scorre negli spacchi sulle labbra, ti sporca i denti e il mento. Gocciola sul collo bianco del camice del Beacon Mental Hospital. Il sapore sulla lingua è terribile.
Scuoti il capo, serri le dita tremolanti ai capelli e ti rannicchi contro la parete, dondolando su te stesso. Il muro bianco ti accoglie, ma non ti conforta. È freddo, come il pavimento su cui poggi i piedi nudi.
Gli assistenti del Dottor Jimenez sono stati più cattivi del solito, ti hanno fatto male. Non vuoi più tornare in quella stanza, non vuoi più toccare quella macchina. Non vuoi che lui ti veda e ti entri dentro. Né vuoi entrare dentro di lui. Vuoi tornare a casa, invece, prendere il treno tutto da solo e sorprendere i tuoi famigliari.
“Non puoi scappare, Leslie,” ti dice una voce alle spalle.
È sicura, profonda, esattamente come la ricordavi – non potresti mai confonderla – e ti ferisce dove sei più vulnerabile. T’irrigidisci e il sudore ti scivola gelido lungo la schiena. Gli occhi pungono.
“Non puoi scappare, Leslie, non puoi scappare… non puoi scappare, Leslie…” ripeti stupidamente, agitando le mani attorno al capo.
Ti mordi il labbro già spaccato. L’incisivo rotto pulsa e diventa lama nella carne martoriata.
È un incubo, ma il dolore non serve a dissiparlo. Non sai dove inizia e non sai dove finisce. Ci sei dentro e non sei il solo, tanto basta. Deglutisci e sa di ferro. Lentamente volti il capo e guardi in direzione del piccolo, spoglio letto d’ospedale.
Ad attenderti ci sono due occhi di ghiaccio che ti fissano di rimando dalla penombra del cappuccio. Spiragli pieni d’odio che si aprono su di un viso divorato dalle fiamme. È un predatore quello che siede compostamente sul materasso, in attesa; ma sai che la sua preda non sei tu.
Distogli rapidamente lo sguardo, non puoi – non vuoi – sostenerlo. Punti le iridi a terra e congiungi le mani al petto. Affondi le unghie nella carne, strappi via piccoli pezzi di pelle dai polsi e dalle dita. Nuovi graffi si aggiungono ai vecchi, mentre il nervosismo ti chiude in una morsa più stretta delle cinghie del Dottor Jimenez.
“Non puoi scappare, non puoi scappare, non puoi scappare…”
“Precisamente,” conferma lui, Ruvik, “non puoi andare da nessuna parte. Non senza di me, piccolo Leslie.”
Lo stesso vale per lui, gli hai visto dentro e non può nasconderlo. Non sai se sia un bene o un male, ma sei sicuro di una cosa: ti spaventa. Perché Ruvik è dolore. È buio perenne e odio che brucia, consuma; è labirinti e trappole e mostri annidati nell’ombra. Distorti e pericolosi come la sua mente.
Il tono della tua voce si fa più impellente, più acuto, ma le parole che scandivi diventano un indistinto mormorio. Alle tue spalle lui ti guarda e ti vede. Ti curvi maggiormente verso la parete, a capo chino. Vorresti sparire, ma non puoi sottrarti al suo sguardo. Nessuno può.
“Hai paura di me.”
Non è una domanda, lui sa.
Automaticamente ti appropri del suggerimento, del concetto che meglio esprime il tuo stato d’animo. Lo riproduci, perché la tua piccola mente non sa fare di meglio.
“Paura, paura, paura…” confermi.
Segue un verso sprezzante, forse di beffa. Ti stringi maggiormente nelle spalle e continui a fissare il suolo, sotto il peso dell’inadeguatezza. Ed ecco che accade. Sapevi che sarebbe successo, potevi già percepirlo perché è anche nella tua mente.
Le piastrelle bianche del pavimento tremano, le fughe incrostate sbiadiscono, l’intera stanza pulsa attorno a te. Serri nuovamente le dita ai capelli e trattieni il respiro, perché non sai dove lui ti porterà, cosa ti farà conoscere. Luoghi, immagini e pensieri – non tutti tuoi – che ti riempiono la testa e ti tengono sveglio la notte.
I confini che conoscevi scompaiono. Non ci sono più mura a trattenerti, nessuna porta di metallo a rinchiuderti o feritoia da cui spiare il mondo. La brezza ti accarezza la pelle, ti fa ondeggiare i capelli. Non sa di disinfettante né di sangue. Il tepore che avverti sulla schiena ricurva è la carezza del sole, la sensazione di ruvido sotto i piedi è quella dell’asfalto.
Batti le palpebre, sorpreso, e rilassi i muscoli di braccia e gambe. Sollevi il capo dalle spalle e ti guardi attorno.
Gli occhi si colmano di meraviglia quando scorgi la banchina del treno, coi segni gialli a delimitare la zona sicura e i binari scintillanti che s’intravvedono oltre il margine, fra la ghiaia spessa. Le panchine verdi sono allineate lungo i muri color mattone della stazione, esattamente come le ricordavi, e dall’alto il grande orologio segna le dieci e un quarto di mattina.
Di lì a poco, lo sai, arriverà la corsa che agognavi: quella che ti condurrà a casa.
Per un lungo, fatale istante cedi all’entusiasmo, alla reminiscenza di un abbraccio. Perfino le labbra si stendono e si arricciano verso l’alto, strappando piccole punture d’agonia alla pelle arsa e lacera.
Ingenuamente raddrizzi la schiena, le gambe, non sei più un animale ferito. Corri da quella parte, verso la banchina, e mandi lo sguardo da una parte all’altra delle rotaie. Ti manca il fiato e il cuore ti rimbomba nel petto per l’emozione.
Non te ne accorgi, ma bolle di sapone scendono dall’alto e riempiono l’ambiente, donando all’atmosfera una sfumatura quasi magica. Una tonalità di colore che non gli appartiene. Non a Ruvik.
Tuttavia la stasi e il silenzio sono irreali. E sei l’unico passeggero in attesa.
Soltanto allora intuisci l’inganno. La trappola che s’annida nelle pieghe dei ricordi, dei tuoi stessi desideri. Il semaforo sul fondo del binario lampeggia di rosso. Fai un passo indietro, curvi le ginocchia e incassi nuovamente la testa fra le spalle. Da qualche parte i passaggi a livello si abbassano, ne percepisci il ritmico ticchettare. Ti ritrai ancora, barcolli oltre la linea gialla. Il tintinnio improvviso e prolungato del campanello ti fa sobbalzare, assordante e premonitore. Strilli, ti porti le mani alla testa; e le bolle di sapone si fermano a mezz’aria.
Sta arrivando.
Allo sferragliare in lontananza si aggiunge il fischio del convoglio, un lungo, acuto avvertimento. Tremante scorgi la sagoma del treno delinearsi all’orizzonte, sui binari. Segue un altro segnale, più stentoreo del precedente, semplicemente più vicino. Imminente.
Chiudi gli occhi, mentre la locomotiva entra in stazione. Lo stridio dei freni t’investe come pioggia di lame, ti trafigge le orecchie, ti perfora il cervello. Il lungo serpente di metallo s’arresta innanzi a te, puoi percepirne il calore, puoi sentirne gli effluvi di macchina risalire dal basso.
Con uno sbuffo le porte si spalancano e cedono l’accesso agli agognati vagoni, ma ciò non ti alletta come speravi. Sollevi appena lo sguardo, temi ciò che incontrerai, ma non puoi farne a meno.
Ruvik è lì, ti aspetta, fermo nel varco.
Le bolle di sapone esplodono e scrosciano al suolo come pioggia.
“Non puoi scappare… non puoi scappare, Leslie… non puoi scappare,” dici; e compi un altro malfermo passo indietro.
Le labbra deturpate di Ruvik s’increspano leggermente in un sogghigno compiaciuto. Un’istantanea che si dissolve quando batti le ciglia. Un brivido ti risale la schiena: non puoi più vederlo, non nel senso fisico del termine, ma sai che è vicino. Lo senti.
È dietro di te, realizzi troppo tardi. Ti giri di scatto, ma il braccio scarnificato si protende, le dita si serrano come ganasce sulla tua mascella e spingono così forte da spianare qualsiasi difesa.
Il dolore ti trafigge le gengive marce e le lacrime corrono ad annebbiarti la vista, mentre annaspi a bocca aperta sotto la stretta e lo sguardo impietoso di lui. Non riesci a respirare perché il tuo naso è troppo gonfio e livido, è un grumo di sangue che pulsa.
Ti aggrappi alla stoffa sdrucita che gli copre l’arto, sbatti, graffi, e torni ad aggrapparti in un blando tentativo di liberarti. Ciò non basta a suscitare tentennamento nell’oppressore. Né ad ammorbidire il filo di quegli occhi che dall’alto ti dilaniano come bisturi.
“Sei sempre stato sotto il mio naso,” dice Ruvik, e nel farlo solleva il mento con sprezzo, “insignificante… patetico…”
Cerchi di ripetere l’ultimo aggettivo, ma il suono che ti risale la gola è più simile al guaito di un cane.
“Non sei stanco, Leslie?” ti chiede, peraltro senza aspettarsi risposta. Non da te, incapace di formulare frasi di senso compiuto da che hai dieci anni. E ciò ti fa sentire solo più patetico, proprio come ha detto. “Resistere non ha senso, io sono la sola alternativa che possiedi. Loro non ti permetteranno di prendere quel treno e tu lo sai. È una bugia che racconti a te stesso….”
Le gambe tremano e le ginocchia si piegano sotto la pressione delle dita e delle parole. Lui ti legge dentro, sa tutto di te e ti capisce come forse nemmeno tu potresti, non quando la paura e il dolore ti paralizzano in ogni più insignificante recesso la maggior parte delle volte.
Ciononostante la verità è inaccettabile. E ti spaventa più dell’illusione in cui vivi, in cui ti crogioli in cerca di rassicurazioni. La speranza di un abbraccio, il calore di una famiglia e un luogo sicuro cui fare ritorno sono le uniche cose che ti permettono di sopportare il tavolo, la macchina e i trattamenti del dottor Jimenez.
Cerchi di scuotere il capo, di negare le accuse paventate e le immagini della strage che trattieni fin dall’infanzia nel subconscio, ma il dolore e il tocco dell’aguzzino t’impediscono di riprendere il controllo. E Ruvik è tormento, è buio e freddo e scale che salgono e scendono. Se ti sforzi abbastanza puoi vedere – non con gli occhi, dove ti trovi non sono che una rappresentazione della mente – il luogo remoto in cui è nato e si è alimentato d’odio.
Un grande palazzo, una discesa nelle profondità della terra, una porta spessa quasi quanto quella della tua cella al Beacon Mental Hospital. Potresti metterlo maggiormente a fuoco, dargli forma concreta, ma è anche nella sua mente. Non puoi prenderlo alla sprovvista, sa che hai guardato. Ed è più forte di te, si tratta del suo mondo dopotutto.
Perseverate sull’orlo della banchina, ma il tentativo lo affascina e lo soddisfa al contempo. A dirtelo è l’espressione del suo viso, il sorriso meno aspro, lo sguardo più assorto. È per questo che ti vuole. È per questo che sei diverso dagli altri.
“E bravo Leslie,” concede, ma non è impensierito. Sa di averti in pugno nella stessa misura in cui tu ne sei convinto.
Il pollice della sua mano ti passa sulla bocca spaccata senza delicatezza, ti fa sibilare di dolore, ti fa strizzare le palpebre e lascia dietro di sé strie rosso acceso. Un colore che spicca sulla pelle pallida del tuo viso come un’altra ferita nella carne viva.
“Ti hanno rinchiuso e picchiato, ti hanno legato, ti hanno ascoltato urlare e non hanno mosso un dito. Sei solo un pezzo di carne. Una cavia atta a raggiungere lo scopo che era mio,” continua Ruvik, mentre il tono diviene greve, quasi minaccioso. Nei suoi occhi c’è un’ombra che cresce e ti spaventa, c’è risentimento e qualcosa di ancora più distruttivo. “E questa… questa… è la fine che farai,” dice.
Un senso di vertigine preannuncia il cambiamento. Lo stomaco sussulta, la gola si stringe e i peli ti si rizzano sulle braccia. Il muro di mattoni rossi vibra, le panchine sbiadiscono e il verde di cui sono dipinte vira al nero, il treno si deforma e si dissolve man mano, inghiottito dall’oscurità. Perfino sotto e sopra perdono di senso e d’improvviso non sei più in piedi sulle gambe.
Le tenebre ti circondano. Strilli, ma il suono è attutito dalla stretta di Ruvik. Ti taglia la bocca, ti blocca le braccia e le gambe, ti costringe contro il freddo del metallo. Allora serri istintivamente i denti su quanto ti ostacola, l’incisivo rotto pulsa da impazzire, ma la consistenza è quella del cuoio. E a bloccarti sul tavolo operatorio sono le cinghie del dottor Jimenez.
Sgrani gli occhi, il cuore ti batte così forte nel petto da assordarti. Mugugni inutili e disperate suppliche, parole sconnesse che non riescono a sopraffare né la confusione della tua mente né il morso imposto fra le labbra.
L’umido ti scorre dalle palpebre alle tempie e ancora più giù. Inarchi la schiena, pieghi le ginocchia e i gomiti, tiri con la forza che solo la paura e la disperazione possono darti, ma ciò che ottieni e altro dolore perché le costrizioni affondano nella carne. E tagliano.
Tre soli spiccano nell’oscurità sopra di te, ti accecano e illuminano le tue membra indifese. L’aria è satura di disinfettante, ti fa girare la testa e ti suggerisce scenari di cui non vorresti mai essere protagonista.
Volti coperti da mascherine si affacciano su di te, anonimi e privi di espressione. Ti studiano in ogni insignificante dettaglio e innanzi a loro sei improvvisamente nudo, non solo nel corpo. Sei carne esposta per gli arnesi della scienza. Gli stessi che una volta ti appartenevano.
Saetti con lo sguardo da una parte all’altra, le membra rigide nell’impotenza. Scorgi una siringa fra le dita di uno degli infermieri, ma è il baluginio argentato del bisturi nelle mani del dottore a strapparti definitivamente il fiato dai polmoni. Improvvisamente sei lucido e sai esattamente cosa stanno per farti: privarti del tuo bene più prezioso – l’unico che ti resti – e usarlo a proprio piacimento. Ma se credono di sottrarti anche il controllo si sbagliano di grosso. È una promessa – una minaccia – che ruggisce nel tuo cervello.
La puntura sul braccio inietta fuoco nelle vene. La lava ti avvolge, corrobora il fisico e l’odio che provi verso coloro che ti circondano… le persone che ti hanno tradito. Conosci i loro nomi, sai chi sono anche senza scorgerne effettivamente i volti. E vorresti vederli annaspare. Stringere le mani sui loro colli, privarli dell’ossigeno, osservare con sistematico e asettico interesse il livore propagarsi sui loro tratti, il barlume della vita intensificarsi nei loro occhi per lunghi, esasperati istanti e poi spegnersi per tuo volere.
Quelle immagini, quei pensieri ti spaventano quanto e più del resto, perché non ti appartengono. La rabbia, l’odio smisurati e quello stesso dolore che ti squarcia il petto assieme al bisturi piantato nella carne non sono i tuoi.
 
They killed me. They ripped me apart and took what they needed.
 
Non vorresti e ne hai terrore, ma le sensazioni di Ruvik ti travolgono… e ti accorgi con apprensione crescente che ciò che desidera è ciò che desideri. Che l’idea di liberarti e d’infliggere dolore – di essere predatore anziché preda, anche per una sola volta nella vita – ti solleva dal tormento come una boccata d’aria fresca dopo l’apnea.
Perciò quando il braccio ustionato di Ruvik fuoriesce dal buio e si protende insperato verso di te, offrendoti l’alternativa al tavolo – alle cinghie, alle percosse e al terrore perenne – non ti soffermi sulle conseguenze. Allunghi la mano da quella parte, schiudi le dita con urgenza e ti aggrappi all’unico appiglio che hai. L’unico che possa contrapporsi a loro, al destino che hanno in serbo per te. Per il mondo intero, ti suggerisce una voce dentro.
La trazione impressa dall’arto è come un vortice, ti risucchia e ti conduce altrove. Non sai dove finirai né cosa lui ti farà vedere, ma qualsiasi posto ti sembra migliore di dov’eri. 
“Male, male, m-male,” ripeti, “Alternativa… f-fine, fine, paura, alternativa, Ruvik,” balbetti ancora, disorientato, le mani screpolate che tornano ad avvinghiarsi ai capelli in un gesto ormai istintivo.
Soltanto allora ti accorgi di essere nuovamente solo, rivolto verso il muro fatto di piastrelle bianche e fughe incrostate della tua cella, al Beacon Mental Hospital. Come se non ti fossi mai mosso da lì.
Tuttavia non ti fai illusioni. Fa parte di un incubo, il suo, non sai dove inizia e non sai dove finisce. Ci sei dentro. E il tuo naso è una massa livida e tumefatta. Pulsa ed è caldo e così pesante da sfiancarti. Il sangue ti scorre lentamente giù dalle narici, scivola fra gli spacchi nelle labbra e si spande sulla lingua. Il sapore in bocca è terribile… quasi quanto il trionfo che hai visto negli occhi di Ruvik allorché hai afferrato la sua mano.
Note: La fic consta di due capitoli, il prossimo esplorerà il punto di vista di Ruvik e concluderà la storia. Il banner non è mio, ma della persona che l'ha realizzato e che potete trovare QUI. Non esitate a farmi notare eventuali errori. Alla prossima!
   
 
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