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Autore: Kuri    03/05/2009    0 recensioni
"In fin dei conti è possibile descrivere la differenza tra un'esplosione nucleare piccola e una più vasta con un metodo molto semplice. La caratteristica principale di una bomba nucleare è il bagliore, che è molto più accecante di qualsiasi altra luce sulla terra – più forte anche della luce solare – ed è dalla durata di questo bagliore che riusciamo a determinare la dimensione dell'arma. Dopo l'esplosione una palla di fuoco risale verso il cielo, risucchiando sotto di sé le macerie, la polvere e tutte le cose esistenti nell'area dell'esplosione, e mentre questa sale, è presto riconoscibile il formarsi della famigliare nuvola a fungo. Come dimostrato dai test di durata dei flash, proviamo a contare i secondi di bagliore emessi da una bomba piccola, poi di una di medie dimensioni, e infine di una delle nostre bombe più potenti."
[tratto e tradotto da Breathing, di Kate Bush]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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TRE: Lottare



Che cosa ne è della nostra relazione.
Stupidi noi che piangiamo disperati.
Che cosa resta dei sogni che avevamo nella testa.
La nostra esperienza a che cosa servirà.
[L'aeroplano, Baustelle]



[1945, 7 agosto]


L'annuncio era arrivato al campo dodici ore prima.
Su Hiroshima era caduta una bomba.
Le notizie che erano state trasmesse sulle frequenze militari erano confuse, frammentarie, e ripetevano insistentemente fatti a cui nessuno riusciva a credere.
Il nulla. Dove prima c'era una città, adesso sorgeva il Nulla.
I contatti con Hiroshima si erano interrotti la mattina del sei agosto. Nessuno avrebbe saputo dire con precisione quando, ma improvvisamente non era più stato possibile telefonare o ricevere telegrammi.
Una squadra di tecnici inviata a controllare dove potesse trovarsi il guasto lungo le linee telefoniche, aveva dovuto constatare come fosse tutto in perfetto ordine finché... qualcuno non si era affacciato sull'orlo del Nulla, e ne aveva osservato sgomento la profondità.
Le frequenze radio avevano allora crepitato furiose: il Nulla, il Nulla! Aiuto, c'è il Nulla!
Era stata sufficiente un'ora per organizzare una ricognizione aerea, per poter trovare una spiegazione a tutto quel devastante silenzio che allungava i suoi artigli anche su Tokyo e sui quartieri generali delle forze armate.
La spedizione aveva impiegato sette ore per tornare all'aeroporto miliare di Tokyo. Giusto il tempo di andare e tornare, sul finire di una torrida giornata estiva.
Quella notte non era stato possibile dormire. Da un posto lontano, aldilà dell'oceano, una voce seria in un inglese pastoso aveva ammesso che sì, su Hiroshima era stato piantato il seme del Nulla. Non era più servito sapere con precisione ciò che i due piloti della spedizione ricognitiva avevano visto. L'evidenza era sotto gli occhi di tutto il mondo, perché il carnefice aveva mostrato a tutti con innocente orgoglio la propria bravura.[1]
L'ordine di organizzare immediatamente i soccorsi aveva vibrato attraverso tutte le radio delle basi militari, degli ospedali di campo, di ogni orecchio rimasto in ascolto. I pochi medicinali, le garze ritagliate dai kimono morbidi delle geishe, i corpi attoniti di infermiere e medici erano stati stivati in grossi aerei cargo e avevano attraversato l'aria fino all'altro capo del Giappone.
Ognuno di loro sperava ci fosse abbastanza tintura di iodio per tamponare il Nulla.


Sei fissò attonita il corpo di Yōko che si schiantava con forza contro una divisa miliare lacera color kaki. Vide le sue braccia che annaspavano nell'aria, cercando di grattare la polvere che soffocante aleggiava tutto intorno a loro, per poi affondare con le unghie nella stoffa, stringendo a sé lo sgomento del giovane uomo.
Lui sollevò le mani ferite, attraversate da lunghi tagli scarlatti, e le chiuse intorno al camice candido che indossava la donna, ma sembrava non avere più le forze per stringere nulla.
Sei sollevò il fazzoletto sul viso e se lo premette intorno alla bocca. L'aria era irrespirabile, densa e gessosa. Sentì il proprio respiro rimbombare contro la stoffa, nel naso, nelle orecchie.
Quando l'aereo era atterrato, avevano trovato una divisione dell'aeronautica della marina ad attenderli. C'era anche il capitano Kashiwagi, ma del giovane che era partito con il berretto sulle ventitrè, come il protagonista dandy di uno dei rari film occidentali che avevano visto a Tokyo, non era rimasto nulla. Gli occhi scuri si posavano sulle cose, ma non ne distinguevano i contorni. Anche quando aveva visto Yōko andargli incontro, arrancando come impazzita appena il portellone dell'aereo si era aperto, pareva non averla riconosciuta.
Sei non aveva stentato a capire perché lo sguardo di Kashiwagi facesse così fatica ad oltrepassare le ciglia delicate e la linea delle guance pallide e sporche di fuliggine.
Hiroshima non esisteva più. La devastazione era stata evidente fin dalla prima occhiata angosciata lanciata dai finestrini dell'aereo. A terra, vicino ad una delle colline erbose che chiudevano Hiroshima contro il proprio golfo, tra la polvere e il sole forte del mezzogiorno, un grande buco vuoto si apriva davanti a loro, inghiottendoli.
Gli edifici non esistevano più. Solo alcuni muri di cemento e pericolanti graticci di ferro allungavano le proprie dita annerite verso il cielo. Di tutto il resto – case, strade, ponti, persone, migliaia di persone, animali e composizioni di ikebana – non rimanevano che calcinacci bianchi come ossa che ricoprivano tutta la terra e che riflettevano come uno specchio lucidissimo i raggi del sole.
L'ampiezza di quella visione la stordiva.
Fin dove poteva allungare gli occhi, Sei vedeva solamente cenere e polvere. In lontananza si udivano le esplosioni di incendi che innalzavano colonne di fumo nero, dove qualche casa e le fabbriche di armi avevano avuto l'ardire di rimanere in piedi traballanti, seppur piagate dalla forza del colpo.
«Non avremmo mai pensato che...»
Sei si voltò verso Yōko. Cercava di reggere il corpo di Kashiwagi con tutte le sue forze, ma i muscoli di lui sembravano sfuggirle dalle mani. Alle loro spalle le infermiere e i soldati arrivati da Tokyo scaricavano dall'aereo il poco materiale di soccorso che erano riusciti a trovare nei depositi e lo trasportavano all'interno di quello che rimaneva di una piccola chiesa cristiana semi-distrutta dalla bomba. Un gruppo di case all'ombra della cappella sembrava essere scampato alla forza distruttiva della bomba. Le finestre si affacciavano cieche su quello che rimaneva delle strade, alcune tettoie erano crollate e le schegge di legno formavano un tappeto morbido sotto i loro piedi, ma le strutture sembravano reggere e offrire un riparo che ormai più nessun luogo lì era in grado di dare, sotto i raggi impietosi del sole.
Sembrava che per un richiamo ferino, spinti dal dolore delle proprie membra devastate, molti dei sopravvissuti si fossero diretti verso quel luogo. Le loro grida di sofferenza e i rantoli di agonia erano udibili sopra il trambusto delle operazioni di scarico dell'aereo e il silenzio devastante della città scomparsa.
Erano così forti, che Sei non riusciva a sentire altro.
Abbassò gli occhi verso un gorgoglio rauco che le passò accanto. Riuscì solo a vedere una bocca spalancata che chiedeva aiuto agli dei, sporca di vomito e sangue.
Quando erano fortunati, i soccorritori trovavano tra le macerie un pezzo di porta o una tavola con cui trasportare i feriti. La maggior parte delle volte, però, dovevano raccogliere con le mani nude e sporche quello che rimaneva e trasportarlo fino alla cappella.
«Sono morti tutti... la gente bruciava...» in bocca a Kashiwagi quelle parole sembrarono come cocci di vetro. Yōko lo allontanò da sé, continuando a stringergli le mani sulle spalle e voltando lo sguardo verso Sei.
Era tutto troppo grande. La voragine biancastra aperta al centro della terra, la sofferenza che riempiva l'aria di gemiti, il turbamento dei soldati che si sentivano smarriti e impotenti.
Sei arretrò di un passo sotto l'angoscia che leggeva negli occhi neri di Yōko, scuotendo la testa con un moto impercettibile. Sollevò le mani in un gesto di scusa, poi le lasciò ricadere lungo il corpo come carne morta.
In quel momento un colpo secco le scosse il braccio.
«Assassini! Assassini!»
Sei alzò lo sguardo verso il gruppo di baracche che erano ancora in piedi. Un ragazzino, il petto e il viso percorso da lunghi graffi, la osservava con odio e dolore, stringendo due piccole pietre tra le mani.
«Fermo!» Yōko lasciò andare la divisa di Kashiwagi, arrancando verso Sei che non accennava a muoversi. Rimaneva a fissare il ragazzo con rammarico e vergogna, quasi lo supplicasse di ammazzarla a sassate.
Yōko le posò una mano sulla nuca e la strinse a sé, nascondendole il volto contro la propria spalla e circondandola con il braccio. Tutti intorno a loro sembravano pietrificati. Le altre infermiere e i soldati arrivati da Tokyo conoscevano Satō Sei. L'avevano vista accomodare con cura i corpi dei loro compagni morti e aiutare Mizuno-san nel curare i malati più gravi, quelli che era necessario stringere forte a sé mentre gli si staccava le membra alla meno peggio, per concedergli un giorno in più. Tutti, al campo, avevano fatto finta di non vedere il suo viso e il colore dei suoi capelli, e tiravano un sospiro di sollievo ogni volta che li nascondeva sotto l'ombra del berretto.
Satō Sei era solo un nome. Con quello potevano parlare, vivere, lavorare fianco a fianco. Era comprensibile per loro, uguale ad ogni altra cosa che li circondava. La sua faccia no.
E quello che rimaneva di Hiroshima non era il campo del Giglio di Tokyo. I suoi abitanti feriti, coloro che non erano accecati dalla sofferenza del proprio corpo morente, non potevano capire.
Il ragazzino tirò un'altra delle pietre che stringeva in mano. Fendette l'aria bollente del mezzogiorno e colpì Sei sulla gamba. Lei non si mosse, stretta nell'abbraccio protettivo di Yōko.
«Aiutami a portarla via di qui!» gridò verso Kashiwagi che la fissava stordito. Sentiva passi che si avvicinavano, un po' curiosi, un po' timorosi, sfiniti «Aiutatemi!»
«Assassini!» il grido rotto dal pianto del ragazzino risuonò ancora più forte.
«Qualcuno mi aiuti!»
Un movimento frettoloso alle sue spalle la costrinse a voltarsi. Un uomo completamente vestito di nero le si avvicinò, facendo scricchiolare calcinacci e vetri rotti sotto le suole dei saldali. Anche lui aveva occhi tondi, che la fissavano dal centro di un viso precocemente invecchiato, con la polvere depositata tra le lievi righe della pelle attraversata di graffi. La fronte, lasciata scoperta dai radi capelli scuri era imperlata di sudore. I suoi vestiti, strappati in più punti, mandavano riflessi lucidi, come se fossero stati inzuppati di sangue fresco e vermiglio. Sul suo petto spiccava una semplice croce di legno chiaro, legata al collo da uno spago ruvido.[2]
«Cosa sta accadendo?»
«Padre, mi aiuti!» Yōko arrancò di qualche passo tra le macerie, trascinandosi dietro il corpo immobile di Sei. Quando gli fu vicino le sollevò la testa, affinché l'uomo scorgesse i tratti del suo volto.
«Oh...» sussurrò solamente lui, mentre il viso stanco si deformava in una smorfia di angoscia e comprensione «Venite, subito!» la sua voce aveva una sfumatura morbida, malgrado i suoi occhi si fissassero nervosi sulle persone alle loro spalle.
Le diede un colpetto sulla spalle, spingendola verso le casupole che resistevano ancora dietro la struttura monca della cappella da cui era uscito.
Yōko si mise a correre verso quel punto. Sentì l'uomo dirle qualcosa con un tono che voleva essere rassicurante, ma non ne colse le parole, coperte dagli schianti dei calcinacci mentre arrancavano. Sei sembrava un corpo morto. I suoi piedi si muovevano, assecondando lo sforzo di Yōko, ma tutto il resto era immobile.
Quando arrivò alla porta della prima capanna, il frate aprì la porta traballante di legno e Yōko si lasciò inghiottire dal buio, mentre la luce del sole veniva tenuta fuori dalla povera struttura da spessi pannelli di legno inchiodati alle finestre. Arrancò, inciampando in qualcosa di morbido che ingombrava il pavimento e finì a terra, trascinando Sei con sé.
Sentì le braccia dell'uomo circondarle le spalle, aiutandola a rialzarsi. Mentre i suoi occhi si adattavano alla penombra, riuscì a scorgere i contorni di alcune forme oblunghe che occupavano quasi tutto il pavimento di terra battuta della capanna, coperte misericordiosamente da teli che un tempo dovevano essere stati bianchi.
«Venite qui...» le disse lui aiutandola a raggiungere a tentoni un angolo libero della casupola. Il suo giapponese era stentato, ma la voce accompagnava i gesti con sicurezza e una dolcezza compassionevole.
«Devo nascondere Sei... devo...» Yōko lo balbettò tra i denti, mentre i suoi occhi non ne volevano sapere di staccarsi dai cadaveri adagiati a terra, nella calura insopportabile. Da sotto le lenzuola iniziava ad innalzarsi un olezzo che sapeva di carne bruciata e fiori lasciati marcire.
«Potrà rimanere qui, ma temo che appena scenderà la notte dovrà fuggire. La voce potrebbe spargersi in fretta, e qui...» si bloccò un istante, cercando di ingoiare più aria possibile «È tutto così orribile...»
«Chiederò a Kashiwagi-san di procurarci una jeep...» disse appena, spingendo dolcemente Sei ad appoggiare la schiena contro la parete di legno.
Lui annuì, chiudendo gli occhi.
«Venite... lasciamola qui. Verrete più tardi.»
Yōko si voltò per osservare Sei. Sembrava una bambola vuota, un fantoccio a cui avevano uncinato l'anima per strapparla via. Respirava affannosamente l'aria malsana della baracca, ma a parte il petto, in lei non si muoveva nient'altro.
Yōko indugiò per un attimo. Non voleva lasciarla lì. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per difenderla, avrebbe chiesto anche di essere lapidata a morte al posto suo. Però fuori le urla continuavano, facendosi sempre più forti nella misura in cui coloro che non erano morti si ammassavano intorno all'unica speranza che avevano incontrato lungo il loro cammino distrutto. Non poteva abbandonarli nelle mani del nulla.
Strinse forte la mano di Sei tra le sue, ma questa rimase immobile, come un pezzo di carne morta.
«Torno presto.» le disse con un sussurro. Desiderò che le sue parole scavassero tra il terrore e l'angoscia «Resisti, ti prego...»


Tra le pareti grezze, con il passare inesorabile delle ore, il calore si era fatto insopportabile. Sei sentì la camicia che le si attaccava al corpo, e un rivolo di sudore solleticarle la pelle mentre le percorreva il fianco.
Ma non era importante. I gemiti strazianti dei feriti la raggiungevano comunque, aggirando gli ostacoli delle pareti, superando il puzzo della morte che la circondava, penetrando attraverso i suoi vestiti fradici.
Nulla l'avrebbe mai liberata dalla maledizione del proprio sangue. Le si era piantato nelle vene, aveva riempito ogni spazio possibile, deformandole i tratti del volto perchè fosse visibile a tutti il mostro che era.
Probabilmente decine di migliaia di persone erano morte nella calura torrida della mattina d'agosto del giorno prima. Centinaia e centinaia di feriti tentavano la fuga dalle piaghe che la bomba aveva aperto su di loro, allontanandosi dal punto in cui l'esplosione aveva reso tutto bianco, solo polvere e cenere. E lei li sentiva tutti nelle mani. Le povere ossa spezzate, i capelli bruciati, le gole arse, il sangue impastato dalla terra.
Quel ragazzino avrebbe dovuto ucciderla, sarebbe stata l'unica cosa giusta da fare. Se si fosse fatta massacrare dall'ira impotente dei superstiti, forse loro si sarebbero ripresi prima.
E lei si sarebbe sentita meglio.
Perchè tutto quello era accaduto?
Avevano deciso che non ci doveva essere pace. Qualcuno, e il fatto quel nemico non avesse un nome era terribile e disorientante, aveva decretato che non sarebbe dovuta esserci più nessuna felicità. E anche quando lei aveva trovato le braccia di Shizuka, quell'ombra scura e senza volto aveva fatto di tutto per portargliela via.
Sei sussultò. Il ricordo di Shizuka era riaffiorato di colpo. Era sempre stata nei suoi pensieri, fin da quando aveva sentito l'annuncio del bombardamento alla radio del campo, ma l'angoscia per quello che aveva visto una volta arrivata a Hiroshima l'aveva completamente sopraffatta.
Tentò di alzarsi in piedi all'interno della capanna umida. Le fessure tra le tavole di legno non erano più ritagliate dalla luce, ma di tanto in tanto una fiammella soffusa e tremula sembrava scorrere lungo il legno con una corsa forsennata.
Sentì una fitta acuta premerle la gola, e il rantolo diventare un tentativo impastato di chiamare Shizuka.
Shizuka le aveva sorriso mentre si allontanava dalla jeep che l'aveva portata a Hiroshima. Sei non aveva risposto a quel gesto luminoso e bellissimo. Si era limitata ad una smorfia risentita, nulla di più del capriccioso egoismo di un bambino. Perchè era davvero furiosa verso Shizuka, arrabbiata con quell'espressione che la rendeva ancora più affascinante, mentre lei aveva solo bisogno che rimanesse e la stringesse forte tra le braccia come la sera prima, e quella prima ancora.
Avanzò di qualche passo, tastando le pareti alla ricerca della povera porta ritagliata nella superficie scheggiata.
Non poteva essere morta. Non Shizuka. Lei non aveva paura di vivere, non aveva il timore di sentire quello che la agitava dentro, anche se non era giusto. Anche se, una volta scoperto, l'avrebbe condannata alla peggiore delle infamie.
Fuori dalla baracca c'era la notte. Il cielo era punteggiato di stelle, e la terra di lamenti. Nella città, ben visibile dalla piccola altura su cui si trovavano i resti della cappella gesuita, si muoveva una miriade di puntini luminosi. Alcuni scoppiavano scintillanti come uno spettacolo di fuochi d'artificio, alzando un nastro di fumo argenteo verso l'alto. Altri gridavano disperatamente, cercando la traccia di una risposta nelle macerie. Ed era tutto sconfinato, teso verso l'orizzonte fumoso.
Sei brancolò verso il varco che si apriva su un fianco della struttura della cappella che ancora rimaneva in piedi. La porta di legno era stata probabilmente divelta dai cardini dal fragore della bomba e un frate ne stava staccando dei pezzi con un piccolo machete, raccogliendoli in una pila accanto a sé. Un'infermiera uscì frenetica dall'apertura e parlò all'uomo gesticolando con forza, indicandogli l'interno dell'edificio con una smorfia di dolore.
«Abbiamo bisogno di altra legna... non riusciamo ad avere ferri abbastanza caldi per cauterizzare...» la donna si strinse la divisa sporca al petto ed ebbe un tremito. Oltre il muro di mattoni rossicci, come un'eco dilaniante, le rispose un grido stridulo.
Quando Sei le passò accanto, sentì la donna singhiozzare. Né lei né il frate la notarono mentre gli passava accanto e si infilava nell'apertura. I loro occhi erano smarriti nelle profondità di un orrore indescrivibile.
L'interno dell'edificio la inghiottì. Anche se parte del tetto era crollato, il lezzo era intollerabile. Sei si portò la mano alla bocca, coprendo il gemito vomitato dalla sua gola. L'odore era ancora più intenso di quello a cui si era abituata nella baracca, perchè nei corpi che emanavano quel tanfo denso c'era ancora vita e c'era tutta la sofferenza di quelle ultime ore. Le suole delle sue scarpe affondarono in uno strato scivoloso, che sembrava ricoprire l'intero pavimento formato da ampie lastre squadrate. Distolse lo sguardo, anche se la scarsa luce delle candele le avrebbe impedito comunque di sapere.
Su tutto il pavimento erano disseminati corpi. Adagiati su barelle di fortuna, o sorretti dalle pareti e dai calcinacci che, staccandosi dal soffitto ancora rimasto in piedi, disegnavano lunghe scie biancastre sui loro capelli o sulle membra annerite lasciate scoperte dagli abiti bruciati.
Non aveva mai visto una cosa simile, neppure quando il bombardamento a Tokyo si era fatto intollerabile, uno scroscio senza fine di granate e bombe.
La singola, immane esplosione che aveva investito la città ne aveva dilaniato i corpi in mille modi diversi, in una varietà infinita di torture che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
C'era chi era stato schiacciato dalle rovine della propria casa. Chi non era riuscito a trovare un riparo alla propria carne da schegge impazzite di metallo, vetro, pietra e legno. La maggior parte, però, avevano il corpo ustionato, con la pelle che si increspava sotto il tocco del calore e l'avanzare delle infezioni. Qualcuno alzò su di lei il viso annerito, su cui spiccava solo il bianco latteo degli occhi, l'unica parte ancora mobile di un corpo sofferente.
Avanzò attraverso la piccola stanzetta in cui era entrata. Due frati cercavano di togliere le ante ad un grosso armadio di legno, dal cui interno proveniva il fruscio lieve di alcune vesti, forse gli abiti che avevano usato per celebrare tante cerimonie in quella stessa chiesetta. In quel momento un'infermiera gracile, con le maniche della divisa lordate di sangue fino al gomito, ne stava ricavando lunghe strisce morbide da utilizzare come fasce.
Passò sotto un arco di pietra stretto, strisciando lungo un piccolo corridoio completamente buio, finché sbucò nel corpo centrale della cappella.
Le sue gambe tremarono e dovette appoggiarsi con la schiena contro il muro ancora pregno del calore umido del giorno.
Non c’era spazio sul pavimento per posare i piedi, e sicuramente anche gli occhi sfuggivano la vista di quello che costellava le pietre come un tappeto che tentava ancora di respirare. Le infermiere e poche altre persone dai vestiti ridotti a brandelli si chinavano sui feriti, porgendo acqua sporca recuperata in qualche lattina, oppure tentando di far ingurgitare medicinali e un po’ di cibo. Di tanto in tanto qualcuno tentava di rimettersi in piedi o seduto.
Il mormorio dei lamenti e le grida, poi, non finiva mai. Basso, come il sussurro di un ruscello immerso nella quiete, l’ansito riempiva ogni centimetro d’aria presente nella struttura, saturandola di sofferenza. Sei abbassò lo sguardo e accanto a sé vide una ragazzina che non poteva avere più di quattordici anni. Sembrava che stesse bene, tranne per gli avambracci scoperti percorsi da lunghe escoriazioni infette. Eppure si teneva i palmi delle mani premuti con forza contro le orecchie, e strizzava gli occhi e stringeva i denti nella bocca con una tensione che rischiava di spezzarla.
«Sei…» alzò la testa sentendo la voce di Yōko. Era completamente distrutta, come se qualcosa avesse stretto le dita attorno a lei e le avesse disintegrato l’anima di vetro e di cristallo che per anni aveva conservato con cura maniacale dentro di sé. I suoi capelli erano bianchi di polvere. L’abito ricoperto di tracce degli uomini e delle donne che la circondavano.
Sei avanzò, tendendo le mani verso di lei. Quando le fu vicina le prese gli avambracci e li strinse, costringendola ad avvicinarsi.
«Dimmi che hanno trovato Shizuka…» disse con un rantolo che cercava di trattenere la nausea «Dimmi che lei è qui, da qualche parte…»
Yōko non le rispose. Continuò ad osservarla con le pupille dilatate dall’orrore.
«Dimmelo!» esclamò con più forza. La voce le si era arrochita, e quel grido assomigliò ad un insulto sputato verso di lei, verso tutto quello che aveva visto in quella giornata infernale.
Yōko lasciò che i propri occhi scivolassero sulla folla accalcata sul pavimento della chiesa. Sei la lasciò andare, avanzando di qualche passo incerto. Iniziò a camminare più velocemente, scostando lembi di stoffa e strattonando spalle tremanti al suo passaggio, strappando dolore e lacrime ad ogni gesto.
Poi si bloccò a pochi passi da un fagotto abbandonato a terra. Ciuffi di capelli corvini sfuggivano alla stoffa che la copriva e alla pelle piagata. Sei sollevò la mano, e la lasciò ricadere lungo il corpo.
«Non farlo, Sei. Lasciala in pace. È finita.»
La voce di Yōko la fece trasalire. Le sue dita tremarono.
Come poteva fingere, voltarsi e scappare? Shizuka era fuggita, non lei. Lei aveva voluto fino all’ultimo secondo tutto quello che aveva stretto tra le braccia, o almeno ci aveva creduto con tutta sé stessa. L’aveva ritrovata, e ora non poteva più lasciarla andare. Shizuka si sarebbe ripresa. La guerra sarebbe finita e tutto sarebbe stato normale, desiderabile, felice.
Si chinò in avanti e diede uno strattone al lenzuolo che ricopriva il povero corpo. Un occhio, un solo occhio nero come la pece la fissò con dentro il vuoto e la paura, con un terrore così immenso e una sofferenza così assoluta, che Sei si ritrasse di scatto, lo stomaco contratto in uno spasmo che le gridava di muovere i piedi e iniziare a correre, in qualsiasi direzione che la portasse lontano da lì, e da un volto che non esisteva più dove fino a pochi giorni prima aveva appoggiato le labbra e respirato.
L’immagine di Shizuka non esisteva più. Il lato destro del suo viso era stato portato via dalla bomba. Sei poteva vedere, una per una, le schegge che le aveva accarezzato la pelle di porcellana. La sua bocca non era più rossa come le rose. Non era più Shizuka.
L’urlo lacerante sovrastò il mormorio che invadeva la cappella. L’aria entrò furiosa nei polmoni di Shizuka e ancora uscì dalla gola martoriata, come il verso d’agonia di un animale. Urlò, e urlò ancora, mentre il suo corpo prese a contorcersi in un tremito frenetico, che strappò il lembo del lenzuolo dalle mani di Sei che lo reggeva ancora.
Sei indietreggiò. Non sapeva se quello che stava calpestando fosse il pavimento o persone. Non lo sapeva.
Le grida di Shizuka sembravano non voler finire. Come se la sua vita, la sua maledetta faccia, avesse avuto il potere di risvegliare tutte le esclamazioni di stupore degli uomini che il giorno prima si erano ritrovati sotto la luce accecante della bomba. Come se tutta Hiroshima in quel momento stesse urlando, ferita.
Sei iniziò a correre, mentre i suoi piedi scivolavano sulle pietre imbrattate.
Si gettò verso la porta, travolgendo le infermiere e i frati che erano accorsi. Sentì il berretto che le scivolava all’indietro e i capelli, chiari come fieno sotto la luce delle lanterne e delle candele, aderire contro il collo sudato.
Quando si trovò fuori dalla cappella gettò uno sguardo ansioso attorno a sé. Sentiva la voce di Shizuka nel cranio come una coltellata. Non riusciva a capire se stesse ancora gridando, ma sapeva che doveva fuggire lontano da quello che aveva visto, dal cratere di nulla che le si era spalancato di fronte.
Una mano le si strinse intorno al gomito. Sei cercò di liberarsi, ma incontrò lo sguardo muto di Yōko.
«Vattene, ti prego. Se ti trovano qui ti ammazzano!»
Sei la bloccò tra le braccia. Tremava e la stringeva, come se tutto si fosse riversato su di lei in quel momento, e le paralizzasse le membra. Come se dentro di lei una voce stesse dicendo qualcosa così disperatamente che Yōko non riusciva a distinguerne le parole.
«Vattene…»
La spinse verso il retro della chiesa, mentre i loro corpi tentavano di sostenersi a vicenda in quella corsa attraverso il cumulo di macerie di una parete che era franata, portandosi via anche parte del tetto. Tra i mattoni era riversa una statua di gesso. L’urto le aveva spezzato parte delle braccia allargate in un gesto amorevole di compassione, e la delicata figura di donna le osservava rivolgendo loro un abbraccio monco, il viso dipinto ancora bello e dolce malgrado la sporcizia della cenere che vi si era depositata sopra.
«Devi sopravvivere. Ti prego, lo so che non mi ascolti mai, però fallo comunque…» le parole di Yōko la fecero voltare.
Sentì che le avvolgeva il viso tra le mani bollenti e fissò lo sguardo nelle sue pupille. Quella che le stava rivolgendo Yōko era una preghiera, di quelle sentite e vere che si facevano agli dei per Capodanno, sperando in un nuovo anno migliore, in una vita diversa. Non aveva lacrime negli occhi, o forse era proprio per quel motivo che le sue parole le sembrarono tanto importanti, come un vincolo.
«Perdonami, Sei.»
Sentì le labbra di Yōko sulle proprie. Un bacio dato stringendo le palpebre forte, come i primi baci dei bambini, di quelli accompagnati da uno schiocco vigoroso e la sensazione di aver fatto qualcosa di piacevole e vergognoso insieme.
Non la sentì indugiare su di sé. Solo quella stretta sincera sulle guance e il dolore, un tormento terribile perché era come aver sollevato la garza che copriva una ferita aperta da sempre. Le dita di Yōko la lasciarono andare.
Sei arrancò all’indietro, finché la sua schiena non impattò sul fianco metallico della jeep.
Arrancò fino al sedile e girò la chiave nel quadro, mentre il motore prendeva vita borbottando e sputando nell’aria una nuvola nera di gasolio.
Poi ingranò la marcia e la jeep partì con un sobbalzo.
Via, in fuga, senza più guardarsi indietro.












[1] In Giappone si seppe di cosa era accaduto sedici ore dopo il bombardamento da un comunicato della Casa Bianca.
[2] La figura di questo frate gesuita è liberamente tratta da Padre Pedro Arrupe, che si trovava realmente a Hiroshima quando Little Boy uccise sul colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone, e ne condannò a morte molte di più.

   
 
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