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Autore: Black Swallowtail    17/09/2016    1 recensioni
[Dark Souls 3]
Casa. Un luogo familiare, un rifugio sicuro, in cui tornare a leccarsi le ferite e festeggiare le vittorie, piangere sulle sconfitte e prepararsi per tentare, ancora una volta. Un posto che è sempre lì, ad attenderti, nonostante tutto, a confortarti.
Quanto tempo è trascorso, da quando l'ho lasciata alle mie spalle, l'ho vista sparire nelle tenebre?
“Ovunque andrai, la luna splenderà sempre su Irithyll. Ovunque sarai, Irithyll sarà sempre casa tua.”
Anche uno come te, ha un posto in cui tornare.
Alla fine, nemmeno tu sei come me… Vordt.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sanctuary

 

L'acqua fangosa, che sembra risucchiare i piedi ad ogni passo, inzuppa i miei stivali consunti, infreddolendomi più di quanto non sia già. Ad ogni passo, gli schizzi che si alzano mi sporcano, macchiando la mia veste lacera ed avanzare sembra sempre più un inferno. Nell'oscurità, non posso intravedere nulla, se non le vaghe sagome degli alberi contorti che si alzano verso il cielo notturno, appena rischiarato da qualche solitaria stella; l'unico bagliore tangibile, nel vasto mantello di fitta tenebra, è quello che proviene dalle tre torri che svettano sull'intera palude, come silenziose sentinelle, fari nell'oscurità. Seppur siano a malapena visibili, attraverso i rami intricati degli alberi malati e pallidi, sono la mia unica guida, il faro che mi spinge ad andare avanti perfino quando crollo, debole, a terra, annaspando nell'acqua paludosa, o quando le ferite pulsano tanto forti da darmi allucinazioni.

Nonostante il mio fisico sia debole e la mia mente, a volte, divaghi, sfuggendo al mio stesso controllo, stremata dalla febbre e dalla fatica, continuo a muovermi, senza mai fermarmi, sospinta dall'unica cosa che mi rimane – la flebile, tenue speranza, che si accompagna alla mia sottile forza di volontà.

I rumori continuano ad instillare terrore in me; sento richiami mostruosi provenire dagli alberi, o lamenti pieni di dolore ed agonia che si alzano tutt'attorno, come se fossi circondata. Ogni volta, mi paralizzo, terrorizzata, senza sapere cosa fare. L'unica cosa che riesco a fare, è stringere la corta daga che ho tra le mani, arrugginita e spezzata, nulla più che un pezzo di ferraglia, inutile contro qualsiasi minaccia. Stringerla tra le mani, tuttavia, serve a darmi un vago senso di sicurezza, un vuoto appiglio a cui aggrapparmi per continuare questo viaggio in cui mi sono imbarcata.

Un viaggio che solo chi non ha nulla da perdere, che non possiede niente, può compiere.

Raggomitolata negli angoli delle strade, tra i vicoli sudici e sporchi, senza un nome, la mia esistenza aveva meno valore di quella di un ratto. Per questa ragione, ho avuto la determinazione di prendere questa estrema decisione – qualcosa di talmente terribile da suonare folle alle orecchie di chiunque.

Eppure, per quanto mi sforzi, non riesco ad andare avanti. Per quanto continui a seguire quella luce, nella distanza, quella fiamma che arde al di sopra degli alberi, che svetta superba in cima alla torre di pietra che mai crolla, mi sembra di non muovermi affatto. Continuo a vedere solo il nulla, nulla nero pece, che mi si stringe addosso e mi soffoca, mi trattiene nelle sue grinfie.

Non riesco a respirare, perché ad ogni boccata, il miasma corrosivo di questa acqua avvelenata penetra dentro di me, consumandomi come fuoco e mozzandomi il respiro, strappandomi le mie poche energie. Caracollo, svuotata, poggiandomi ai tronchi ossuti, stropicciandomi gli occhi per scacciare il velo caduto su di essi, come se questo potesse farmi rivedere la luce.

Eppure, nonostante questo, continuo a barcollare, senza altra guida se non il riverbero appena visibile attraverso il fogliame. Questa è l'unica cosa che posso fare, l'unica opzione che mi è rimasta per riuscire a proseguire.

La gola è secca e arsa, perché l'acqua è finita da troppo tempo, il mio intero corpo è così pesante che ormai non sto nemmeno più camminando, mi sto trascinando mossa dal mio desiderio, dall'obbiettivo che mi sono posta. Eppure, per quanto possa continuare ad andare avanti, perché mi sembra di non avanzare nemmeno di un passo?

Perché mi sembra che l'oscurità mi stia schiacciando, chiudendosi su di me?

—Forse dovrei fermarmi e lasciarmi inghiottire.

Dopotutto – a chi importerebbe, se sparissi?

Se una nessuno come me, senza nome, senza stirpe, senza sangue, venisse consumata da un'oscurità senza fondo?

 

L'Altare del Vincolo del Fuoco, un luogo attorno alle quali sono nate le più grandi leggende e che sembra essere il fulcro, l'epicentro del muoversi dei destini e delle terre di coloro che sono celebrati come Lord dei Tizzoni. Per quanto questa sia ora terra del regno di Lothric, il cui ciclopico castello getta un'ombra tetra su ogni cosa, arroccato sulle rocce frastagliate innalzatesi come strenua difesa conto i nemici, i segni della battaglia sono ancora visibili, come cicatrici, non c'è dubbio che, in un altra epoca, come si narra nelle storie tramandate attraverso parole vergate nelle fiamme dei falò sparsi per il mondo, questo Santuario si trovava in un altro luogo.

Come un gigantesco magnete, ha attratto a sé le terre dei precedenti Lord, incastrandole una accanto all'altra, in un gigantesco, distorto puzzle che unisce pezzi scombinati a formare un mosaico multiforme, che avvicenda luoghi completamente diversi eppure, ora, così vicini da essersi fusi in un solo, grande luogo, il teatro degli ultimi istanti di questo mondo morente, che scivola inevitabilmente nelle braccia del buio.

Richiamati da un lontano suono che rimbomba nelle loro anime, in un eco che rintocca di braci, tutti coloro che sono definiti “Creature di Cenere”, braci morenti ma con un infinito potenziale, come falene attirate dal fuoco, si sono diretti verso questo luogo, nella speranza di poter compiere il proprio destino, o di regolare i propri conti personali.

Dopotutto, non è così strano che con l'oscurità che avanza, l'anima dell'uomo, intimorita, inizi a sentire il richiamo della Fiamma con una tale intensità, da essere condotto fino ad essa dal debole fuoco che brucia. Noi Creature di Cenere siamo portatrici di un destino tetro, quello che ci porta sulla via del Tizzone: disperatamente, camminiamo su un cammino già percorso da altri, per portare a termine una missione affidataci; se dagli dei, dal destino o dal mondo stesso, chi può dirlo? L'unica cosa che è certa, è che come la cenere cerca la brace, allo stesso modo noi siamo spinti a ricercare la Prima Fiamma.

È un dovere orribile, un compito estremamente doloroso che porta solo ad un sacrificio straziante, ma necessario per far continuare ad esistere questo mondo.

O almeno, così dovrebbe essere.

L'Altare del Vincolo è un crocevia verso tutti gli innumerevoli mondi che sono stati richiamati qui, le dimore a cui i Lord dei Tizzoni sono tornati, dopo aver abbandonato i loro troni, disillusi, disgustati, rabbiosi – spaventati. Per tale ragione, molti vi arrivano con il solo scopo di poter raggiungere i propri obbiettivi, rifuggendo il primo, più importante compito, l'eredità che il mitico sovrano Gwyn, primo tra i Tizzoni, ha lasciato ai posteri.

Non c'è da meravigliarsi, quindi, quando molti guerrieri incontrati sul proprio cammino non sembrano intenzionati a perseguire la Fiamma. Non biasimo nessuno di loro.

Io sono la prima giunta fin qui con un'altra missione, con una faccenda personale da sbrigare. Ho attraversato innumerevoli terre, trovandole ormai abbandonate, lasciate a se stesse, perché quando l'oscurità si appropinqua, tutto inizia a cadere a pezzi. L'anima non è un'eccezione e le creature che scaturiscono dalla corruzione di essa reclamano un posto in questa terra corrotta.

Per tutto il tempo passato a camminare in terre desolate, la sagoma del castello di Lothric ha gettato la sua ombra su di me, senza mai sparire. La mia unica guida, è stata la fiamma che giace nel mio petto; quando, infine, sono arrivata al limitare delle tombe abbandonate, dove non-morti perduti e disperati se ne stavano rannicchiati a lamentare la loro sorte, ho sentito qualcosa iniziare a bruciare, a risalire lungo il mio intero corpo.

È stato allora, che ho saputo di essere giunta nel luogo favoleggiato da tutti, la meta degli innumerevoli avventurieri, delle Creature della Cenere di ogni dove. Ho digrignato i denti, seduta accanto ad un falò ardente di un'intensità divorante, uno dei tanti simboli della Prima Fiamma sparsi per il mondo, silenziosi punti d'incontro in cui sedersi e riflettere lasciando rinfrancarsi dalla solitudine e dal crepitio del fuoco. Ho ricordato a me stessa, ancora una volta, la mia missione. Ho silenziosamente ricordato, poggiando la fronte sulla gelida lama dello spadone, ed ho affilato il coltello. Per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sono tolta l'elmo e l'ho osservato, cercando in esso una risposta, un minimo conforto. Non ho trovato nulla, se non il riverbero rossastro del fuoco contro l'acciaio; non sono rimasta delusa, perché so bene che non c'è una risposta diversa a quella che porto già sulle spalle. Essere così vicina al Santuario mi ha turbato, mi ha improvvisamente, bruscamente ricordato quanto il compiersi del mio destino sia vicino.

Quella notte, ho avuto ancora incubi.

 

“Siamo vicine all'Altare, quindi?” chiede con voce incerta la piromante alle mie spalle, alzandosi dallo scomodo giaciglio approntato attorno al fuoco da campo di fortuna. La luce cinerea del sole biancastro ed incerto che trafigge il cielo grigio e mortifero è solo una triste imitazione di una vera alba, ma non possiamo di certo aspettarci diversamente dal decadimento di queste lande. L'affievolirsi del confine tra giorno e notte è solo uno degli innumerevoli sintomi della fine della nostra era, dell'avvicinarsi del buio assoluto.

Seduta sul bordo del baratro che fiancheggia l'arena, lascio che i miei occhi vaghino pensierosi verso l'orizzonte, verso le affilate guglie di Lothric, il cui richiamo irresistibile è come una maledizione. Senza alcun dubbio, chiunque cerchi i Lord dei Tizzoni, volente o nolente, si troverà ad attraversarlo, alla ricerca di uno di loro. Come è destino delle Creature di Cenere viaggiare per ogni altra terra che converge nel Santuario.

“Hai avuto degli incubi, questa notte, vero?”

A quella domanda, il mio corpo si irrigidisce involontariamente e la mia presa attorno al grande spadone si fa talmente forte da poter sentire le dita scricchiolare una ad una. Respiro a fondo, cercando la calma, prima di rimettermi in piedi tirandomi la sciarpa rossastra sul viso ed inguainare le armi di traverso sulla schiena e sulla cintura.

“Ti ho sentito respirare affannosamente e muoverti come se stessi strisciando, finché non ti sei svegliata di soprassalto e...”

“Devi esserti sbagliata.” Dico seccamente, mentre le faccio cenno di avvicinarci all'enorme portale in fondo all'arena, “Andiamo, non siamo così lontane. La nostra meta è oltre quelle porte.”

La mia brusca risposta è bastata a mettere a tacere ogni altro dubbio. Tuttavia, non basta questo per risparmiami il dolore in fondo allo stomaco, né il senso di soffocamento che attanaglia i miei polmoni; non c'è nulla che possa fare, per allontanare questi ricorrenti ricordi divoranti, che ogni volta si ripresentano, sempre più frequenti, a tormentarmi senza pietà, a mostrarmi memorie che non voglio vivere di nuovo, talmente vivide da lacerare la mia volontà, intrappolandomi in incubi senza fine.

Vyseris, presa alla sprovvista, lascia cadere l'argomento con un tacito segno d'assenso e mi segue fino al portale di pesante ferro; con grande sforzo, poggio le braccia contro di esso e spingo finché, dopo un iniziale esitazione, i cardini non emettono un lungo, pesante sferragliare e uno spiraglio sufficiente a far passare due persone non si crea tra le due porte, come se fosse passato molto tempo dalla loro ultima apertura; dopotutto, il Giudice e la Spada erano ancora qui, quando sono arrivata. Vuol dire che altri non hanno avuto la nostra stessa fortuna, che solo dopo così tanto tempo qualcuno è stato considerato degno da Gundyr.

Nonostante non sia stato un duello leale.

Ma la lealtà non sarà di nessun aiuto, di fronte alle leggende incarnate, alle titaniche ed ardenti anime dei Lord.

Quindi, fatto un profondo respiro, rivolgendo per l'ennesima volta il pensiero alla mia missione, al motivo per il quale sono giunto fino a questo Santuario, attraverso le porte.

La strada che si attorciglia su uno sperone roccioso grigiastro, come ardesia, circondata da altre, innumerevoli pietre tombali e alberi spogli e rinsecchiti, culmina sulla imponente rovina di quello che, un tempo, doveva essere stato un luogo grandioso. Forse, secoli fa, prima che la fiamma iniziasse il suo infinito ciclo, questo era un santuario di immensa bellezza, ricolmo di eroi o aspiranti tali, il cui andare e venire animava le sue stanze, rendendolo luogo d'incontro di coloro che sarebbero rimasti nella storia, come miti e leggende.

Ora, invece, è solo una rovina di pietra e marmo consunto, abbandonata a se stessa, senza più nessuna voce; lungo il declivio, altri non-morti disperati piangono la loro sorte, raggomitolati contro le loro pietre tombali, gli occhi rivolti verso il cielo spento, o affondati tra le mani per non guardare la cruda, impietosa realtà.

Non sembrano reagire, quando passiamo loro accanto, continuano semplicemente a crogiolarsi nel loro lamento e nel loro dolore, impotenti, senza nemmeno osare avvicinarsi alle porte dell'Altare. Procediamo senza proferire parola, come timorosi di rompere la sacralità di questo luogo in rovina. Seppur abbandonato a se stesso, seppur ridotto all'ombra della sua antica magnificenza, rimane comunque un'aura di antica gloria, la cui reminiscenza trasuda da ogni suo angolo. Che si trattasse di una gloria come quella raccontata ed immaginata, di grandi eroi e prescelti, o se invece fosse semplicemente il religioso rispetto che si tributa ad un luogo tanto sacro da accogliere solo pochi uomini, i cui cammini si sono incrociati più volte, non so dirlo. Toccando con le dita guantate le pietre annerite, le profonde vibrazioni che mi attraversano sembrano suggerire quel profondo rispetto che si deve ad un luogo di eterno abbandono e raccoglimento.

Effettivamente, quale luogo è più adatto ad accogliere una fiamma, se non quello più buio e desolato?

“Quindi questo è—l'Altare del Vincolo del Fuoco...” sussurra annichilita Vyseris, ammaliata quanto me dalla schiacciante presenza che sembra spirare da ogni angolo del santuario. Non ostile, ma una sorta di silenzioso, tenue invito, come se una mano invisibile, di cenere e polvere, ci prendesse delicatamente per i polpastrelli, guidandoci verso l'interno.

Cinque troni, per cinque Lord.

La loro stessa presenza sembra distruggere e consumare la mia piccola fiamma, soffocare la mia esistenza.

Cinque esseri talmente potenti, da aver vincolato la Prima Fiamma.

Cinque esseri talmente potenti, da aver elevato la loro anima a qualcosa di superiore – un Tizzone.

Cinque esseri talmente potenti… e tuttavia, anche loro non hanno più avuto il coraggio di rimanere sui loro troni.

“I Signori dei Tizzoni… hanno abbandonato i loro troni, e devono esservi ricondotti...” la morbida, carezzevole voce che arriva bassa alle mie spalle, appartiene ad una giovane donna ammantata di nero, dai capelli talmente chiari da sfumare nel biancore, come intessuti con cenere stessa, “Benvenuti all'Altare, Creature di Cenere. Sono la Guardiana del Fuoco, e mi prendo cura delle fiamme e di chi giunge qui, attraverso le terre più lontane, udendo l'eco delle scintille. Durante la vostra missione e fino alla sua fine, sarò al vostro fianco.”

L'ultima Guardiana del Fuoco rimasta, rimasta a sorvegliare questo mucchio di ceneri spente, un falò senza fulcro, nulla più che i resti di una fiamma abbandonata. Al centro dell'Altare, di fronte ai cinque troni, ci sono braci ormai gelide di un fuoco che è bruciato tanto tempo fa. Eppure, nonostante siano passati secoli, forse ere, è ancora qui, in attesa che qualcuno si faccia avanti e pianti in esso il seme di una nuova fiamma, una scintilla che porti di nuovo luce e calore in questo luogo così decadente.

Una fedeltà incrollabile nel suo compito.

Scuoto la testa. No, certo che no; non è così. Non si tratta di fedeltà. Si tratta semplicemente di cecità. Una Guardiana del Fuoco non conosce nulla, se non il suo compito. Non ha altro scopo nella vita, se non la sua missione. Senza di essa, non è nulla; non possiede nome, né stirpe, né sangue. La sua intera esistenza è votata alla Prima Fiamma.

Esattamente come me, se fosse privata del suo compito, non avrebbe alcuna strada da percorrere. Brancolerebbe nelle tenebre, priva di occhi, e rimarrebbe immobile a lasciare che il buio la consumi, fino a sparire, senza che nessuno se ne accorga.

Una prospettiva che fa paura più della morte stessa – sparire, senza lasciare traccia, senza aver vissuto, senza aver nemmeno avuto un nome.

“Vyseris,” faccio un cenno alla piromante, ammiccando ai resti abbandonati del Falò,“La Spada a Spirale.”

“Riporta il fuoco in questo luogo, dove più merita di stare, da cui proviene, tu che sei un Campione, tu che vuoi divenire un Tizzone.” Recita lievemente la Guardiana, intrecciando le dita al petto, in trepidante attesa. Per quanto non sembri trasparire alcuna emozione, da lei, posso come avvertire il desiderio che batte in lei. Il desiderio di poter finalmente avere uno scopo, di riprendere quel per cui è stata forgiata.

“E tu, Elsewin?” chiede con esitazione, stringendo con le mani tremanti la Spada a Spirale, “Tu non vuoi accendere questo fuoco?”

Schiocco la lingua con disappunto, scuotendo la testa, “Non ho alcuna intenzione di divenire un Tizzone. Io sono qui per un'altra motivazione.”

“Ciononostante, senza di te non ce l'avrei mai fatta,” protesta Vyseris, avvicinandosi a me, allungando la spada di ossidiana bruciata, che emette un vago tepore, come se scorressero piccole braci lungo la sua strana lama, “Per cui, anche se non vuoi divenire un Tizzone, anche se non ti interessa nulla dei Lord, del vincolare la Prima Fiamma… accendi con me questo Falò. Segna con me l'inizio di questo viaggio...” un sorriso triste, incrinato, pieno di una colpa che non credevo potesse albergare in lei, come se portasse un peccato innominabile nella sua anima, “...E speriamo di vederne insieme la fine. Dopotutto, questa ora è casa nostra.”

Casa. Un luogo familiare, un rifugio sicuro, in cui tornare a leccarsi le ferite e festeggiare le vittorie, piangere sulle sconfitte e prepararsi per tentare, ancora una volta. Un posto che è sempre lì, ad attenderti, nonostante tutto, a confortarti.

Una casa, eh? Quanto tempo è passato, dall'ultima volta che ne ho avuta una? Quanto è trascorso, da quando l'ho lasciata alle mie spalle, l'ho vista sparire nelle tenebre? Sembra passato così tanto tempo, ma chi può dirlo, qui a Lothric? So solo di aver viaggiato così a lungo, da aver dimenticato perfino lo scorrere delle giornate, aggrappandomi disperatamente alla mia missione, al mio ultimo giuramento. Alla mia ultima Guardia.

L'amarezza che sento in bocca è pungente come fiele e le spine che squarciano il mio petto, avviluppandosi attorno a me come rovi, mi ricordano nitidamente quel che è stato.

Ricordo ancora, non ho dimenticato, nessuno di voi, nessuno dei vostri volti.

Per questo, non posso avere una casa. Una come me non può avere una casa.

Io, che sono senza nome, senza stirpe, senza sangue… non posso avere un luogo in cui tornare.

Mi dispiace ma… “...Accendi questo fuoco da sola.”

“Come desideri.” Abbassando lo sguardo, si avvicina lentamente al mucchio di cenere ed ossa. Nessun calore, nemmeno una leggera sensazione proviene da quel mucchio morto, solo un gelo penetrante, che sembra sibilare nell'aria, spandendosi insieme alla cenere che fluttua attorno a noi e che riesco a scorgere appena quando cade silenziosa sui raggi di sole lattei e smorti.

Con una solennità religiosa, eppure senza smettere di tremare, come spaventata dal suo stesso agire, come se anche solo avvicinarsi ad un Falò la terrorizzasse, Vyseris alza la spada e chiude gli occhi. Il suo respiro è affannoso, soffocato, quasi un peso la stesse schiacciando. Le sue labbra si stringono, le sue dita si serrano convulsamente attorno all'elsa. Eppure, nonostante tutto, non sembra riuscire a conficcare la Spada a Spirale al posto che le spetta – terrorizzata dal fuoco che la attende, dalle fiamme che erutteranno feroci.

Non riesco a dirle nulla. Non ho voce per parlare, dopotutto. Non ho parole di incoraggiamento, né la forza per sostenerla.

Non ho mai avuto la forza per aiutare nessuno; l'unica cosa che ho fatto, come ora, è sempre stato guardare. È qualcosa di cui mi sono sempre incolpata, che ho sempre odiato di me stessa; sono rimasta in disparte, senza agire, paralizzata, incapace di fare un passo avanti. Ed è questo che mi ha salvata – la mia debolezza, la mia insicurezza, il mio terrore divorante mi ha risparmiato; ed in cambio, ha inghiottito tutto ciò che avevo.

“—E tu vorresti vincolare la Prima Fiamma?” dico, tagliente, allungando la mia mano, poggiandola sulla sua, sull'elsa della Spada a Spirale, spingendo con tutta la mia forza, “Non sei degna nemmeno di essere un Tizzone.”

“Lo so.” Ancora quel sorriso ricolmo di pentimento, di disperazione, di uno spirito spezzato, “Qualcuno me lo ha già detto.”

Le fiamme divampano furiose, allungandosi attorno alla lama, attorcigliandosi con una foga folle, come se avessero atteso per un tempo infinito questo momento, quiete, per scatenarsi ed afferrare quel vessillo che tanto hanno aspettato, invano.

“La cenere vi guiderà nelle terre dei Lord. Fino a Lothric, dove tutte le terre convergono, nel momento in cui l'oscurità inizia a discendere e il fuoco si spegne.

Creature di Cenere, aspiranti Lord, Tizzoni che attendono il fuoco – riportate i Lord sui loro troni.

E se mai avrete bisogno di potere, tornate da me. Vi mostrerò l'oscurità dentro di me, così che possiate nutrirvi delle povere anime senza padrone.

Finché, infine, la Fiamma non sarà vincolata.”

 

Un tempo, ho avuto una casa.

Era un luogo in cui perfino una persona come me, senza nome, senza stirpe, senza sangue, senza voce, poteva divenire qualcuno. Eravamo uniti da una missione, una crociata senza fine, una continua veglia; come un esercito, una carovana, ci muovevamo di terra in terra, di luogo in luogo, cercando i segni dell'oscurità. Marciavamo come un solo uomo, una legione infinita di guerrieri votati alla causa.

Il nostro nome aveva un significato solo quando unito a quello degli altri. La nostra esistenza assumeva un senso solo quando schiacciavamo la corruzione che cresceva. Non c'era gioia, né rabbia, in tutto questo – solo il senso del dovere. Solo la sensazione di vita che dava ogni volta.

Era un luogo in cui l'identità non contava. Eravamo tutti uguali, uniti da un solo sangue, sangue di lupo, sul quale giuravamo di perpetuare la nostra veglia, per l'eternità.

Un solo corpo, un solo sangue, una sola identità, un solo scopo.

E allora, perché io sono qui? Perché sono viva? Perché ricordo ancora il mio nome, i loro nomi, i loro volti, la mia casa, la nostra casa?

Perché ricordo le tenebre impazzite inghiottirla?

Senza uno scopo, mi limiterei a marcire. Rimarrei immobile e sparirei senza lasciare traccia di me. Sarei come quella Guardiana senza Fiamma, un'ombra di me stessa, in attesa della fine, dell'ultimo momento della mia miserabile vita. Attenderei pazientemente che il mondo si spegna.

Per questo, di fronte a quel che rimaneva della mia casa, ho giurato; ho giurato con tutta me stessa di portare a compimento un'ultima missione, prima che la mia Guardia giunga al termine. Ma ancora non so, se l'ho fatto per me stessa, o per loro. Non so se sono stata mossa dall'egoismo, dal terrore di perdere ancora una volta la mia identità, o dai sentimenti che si muovono nella mia anima di cenere e fiamme.

L'unica cosa che so, è che se non sono ancora divenuta vuota, se non mi sono abbandonata all'oblio, è solo per questo – perché voglio portare a termine questa missione.

Non posso fermarmi ora.

Non posso morire ora.

E procedo, uccidendo, senza guardarmi alle spalle, senza fermarmi a rimuginare su quello che rimane dietro di me.

“ATTENTA!” la voce di Vyseris è così lontana, che non riesco a sentirla. Attenta a cosa? Alla carica feroce dell'essere abominevole davanti a noi, a quest'ombra bestiale di un cavaliere, questa creatura corrotta di acciaio e gelo, avvolta dal freddo vento d'inverno. Il mastino del Pontefice, uno dei famosi Cavalieri della Missione – il feroce Vordt della Valle Boreale.

La sua mazza fende l'aria senza seguire una logica, affinandosi solo all'istinto di bestia che ha preso il controllo del suo corpo, divorandone la coscienza umana. Alzo lo spadone, intercettando il colpo, le mie ginocchia tremano, il mio braccio sembra quasi spezzarsi, ma non cede, assorbe l'impatto. Il mio viso, coperto dalla sciarpa, lasciando scoperti solo gli occhi dilatati, arriva ad un soffio da quello di questa creatura.

Riesco a scorgere i suoi occhi.

Mi viene quasi da ridere—perché sono come i miei.

Occhi di chi non ricorda più chi è. Occhi di chi ha perso se stesso, e che segue ciecamente la sua missione.

“Siamo entrambi rimasugli, alla fine...” afferrando l'elsa con entrambe le mani, spingo con tutta la forza che ho nel corpo, al punto da sentire le ossa scricchiolare, “...Abbandonati,” Vordt ulula, la mazza che si inizia lentamente a sollevare, “Senza un luogo in cui tornare,” con un colpo secco, devio la sua arma verso l'alto, facendolo barcollare all'indietro, caracollare sulle zampe posteriori ritorte, piene di ferite e scottature, “Vivi solo per una missione,” estraggo la daga, sibila a mezz'aria, assesta un colpo a suo elmo, e la sua enorme mole si piega in avanti, verso di me, come ad offrirmi il suo viso, il suo muso di bestia, “Sì. Siamo proprio—dei Cavalieri della Missione, eh?”

Vordt ruggisce, impotente, quando affondo lo spadone nel suo cranio, trapassando la sua armatura, la sua carne, le sue ossa con uno scricchiolio appena udibile attraverso quel grido di agonia e furia. Spingo, estraggo, affondo, ancora ed ancora, e ad ogni nuovo colpo, l'imponente abominio si contorce e tende, sbatte le gambe, ulula.

Quello che schizza su di me è sangue, o è neve?

Puoi sanguinare, Vordt?

Esseri come noi, senza nome

senza stirpe

senza casa

definiti solo dalla loro missione

hanno diritto di sanguinare?

 

“—Elsewin...”

Crollo a terra, la schiena poggiata contro il corpo accasciato del morente Vordt, i cui ultimi rantoli di vita vanno spegnendosi nell'aria polverosa di Lothric. Tra le mie mani, c'è un piccolo oggetto, talmente piccolo da poter stare in una mano.

Una bambola, una miserevole, gelida bambola di un cavaliere che regge fieramente la sua spada tra le mani. Nulla più che un ninnolo rotto e consumato, che un tempo doveva aver custodito con grande cura. Un ultimo regalo di addio, un ricordo di una casa lontana che non avrebbe più rivisto, perché la sua Missione non lo avrebbe permesso.

La voce di Vyseris è ancora lontana, per cui non riesco a capire cosa stia dicendo.

La statuina, invece, sembra sussurrare qualcosa con una voce flebile, talmente soffice da potersi quasi disperdere nel rumore del vento che soffia gentile sulla distruzione dello scontro. La mia sciarpa dondola quietamente alla brezza, seguendone il leggero ritmo, stanca anche solo per resistervi.

“Ovunque andrai, la luna splenderà sempre su Irithyll. Ovunque sarai, Irithyll sarà sempre casa tua.” mi dice la piccola statuina, in una preghiera morente, che si spegne lentamente, insieme alla vita del suo possessore, quello che un tempo è stato un fiero cavaliere, un uomo degno di rispetto. Ed ora, di lui non è rimasta che un'ombra.

Eppure, nonostante questo, il pensiero di un luogo a cui poter fare ritorno, ad attenderlo lontano, oltre le montagne, lo ha sorretto nella sua Missione infinita, lo ha spinto ad andare avanti perfino nei giorni più bui.

Anche uno come te, ha un posto in cui tornare.

Alla fine, nemmeno tu sei come me… Vordt.

Senza udire quello che Vyseris mi sta dicendo, mi alzo in piedi, le ginocchia che minacciano di crollare. Il mondo mi ruota attorno, violento, ma resisto alla sua forza e rimango salda. Mi volto verso i resti di un Cavaliere della Missione e poggio accanto a lui la bambolina che sta smettendo di parlare. A quel gesto, il corpo di Vordt si muove per un'ultima volta, come confortato dal sussurro morente del manufatto, che gli dice, per l'ultima volta—hai un posto in cui tornare.

Io, invece, non ho nessun luogo a cui fare ritorno. Sono una nessuno senza nome, senza stirpe, senza sangue, mossa solo da uno scopo effimero.

Eppure, sono sicura che quando arriverà il momento di compiere il mio dovere, lo farò senza alcun rimorso.

Dopotutto, ho accettato molto tempo fa questo mio destino.

L'ho fatto perché, nella mia anima di brace morente, conservo ancora un ricordo così vivido da velarmi gli occhi di lacrime.

Una grande fortezza di pietra, in un bosco lontano, che un tempo ho potuto chiamare casa.

A volte dimentico che, ormai, ho un sangue, una stirpe, una missione – quelli di una legione che accoglie chiunque si dimostri degno.

Un santuario ormai abbandonato, che ancora mi attende. Attende il ritorno del suo ultimo Guardiano, perché possa compiere il suo gravoso compito.

—Mi ero quasi dimenticata del mio nome.

Mi chiamo Elsewin.

E la mia Guardia non è ancora conclusa.

 

   
 
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