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Autore: Nirvana_04    20/09/2016    4 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Terza parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cahar era stata costruita secoli addietro da un qualche lontano antenato di Agur: fatta interamente di solida pietra trasportata nella valle attraverso le zattere dei Felichi – i nomadi tribali dell’est – dalle Cave di Puèntagor, si ergeva al centro della valle, le spalle protette dai massicci, e vantava la protezione di cinque cerchie di roccia, di cui la quinta rinforzata da colate di perion che avevano indurito e compattato la pietra in un unico blocco indistruttibile.
Già, indistruttibile!
Agur aveva sempre pensato che la sua città fosse incrollabile; la valle e i boschi limitrofi davano la selvaggina e la vicinanza alle montagne aveva sempre significato una buona protezione dai popoli nordici. Questo fino a quando il Caimhal era stato solo una leggenda e Agur non aveva riportato la testa di quella strana creatura all’interno del castello.
Non aveva perso sangue, la creatura; la camicia con la quale l’aveva avvolta era solamente imbevuta di una strana sostanza oleosa e puzzolente, ma non una goccia rossastra macchiava il candore della maglia. Il Re Ander, suo padre, e gli Alti Consiglieri avevano osservato il cranio rachitico della bestia per ore dopo che il principe l’aveva scoperta sul tavolo dell’Adunanza, in un silenzio sepolcrale; e tutto ciò che i più saggi del regno erano riusciti a consigliare al padre era di celare il fatto agli occhi del popolo e mandare subito un’offerta di pace al Dio Agabar: trentasette vergini, aveva suggerito la cariatide; una per ogni capello che la creatura aveva ancora attaccato al teschio.
Che razza di idiozia!
Agur chiuse con rabbia il vecchio tomo e si lasciò andare contro lo schienale della sedia, il mento abbandonato contro il pugno duro. Al diavolo le vergini! La stupidità stava nel fatto di nascondere la rivelazione dietro il credo di un Dio silenzioso. Cosa avrebbe potuto fare per loro Agabar, più di osservare le donne dall’alto della sua rupe, sordo alle preghiere e muto verso coloro che desideravano risposte? Il Caimhal, quelle creature, erano reali e si stavano preparando ad attaccare, proprio al di là dei monti. Le lastre di perion le avevano tenute lontane da loro, ma per quanto ancora quelle pietre avrebbero permesso loro di dormire sonni tranquilli? Centocinquant’anni erano passati dall’ultima guerra che i venastiti avevano combattuto contro i Felichi; da allora i Figli di Cahar si erano rammolliti e la spada l’adoperavano solo per grattarsi il culo, considerando che nessuna di quelle lame veniva affilata da anni, se non per qualche sporadica schermaglia con i meticci.
Il principe di Cahar si guardò intorno e i suoi occhi volarono sopra le pergamene e i vecchi libri malamente rilegati da corde di pelle che ingombravano i due tavoli vicini. Le alcove della biblioteca racchiudevano più di tremila testi nella pietra, le foglie di alloro e rametti di rosmarino facevano capolino tra le pagine ingiallite e tutto ciò che riuscivano a scacciare erano gli insetti d’argento che bramavano la carta; poca cosa contro i mostri della loro mitologia. La loro mitologia, un corno! Per tutta la vita si era beccato le lunghe solfe dei fedeli, con le loro storie sulle creature aldilà delle Pietre di Shaev, e d’un tratto aveva scoperto che nessuno di loro sapeva veramente nulla di quei mostri; neanche quei papiri impolverati.
La chiave stava in quelle lastre nere! Si ricordava dei riflessi azzurri incastrati come fuoco blu all’interno della pietra; e di come quel cuore pulsante di ghiaccio si fosse spento al suo passaggio. Temeva che, nella sua stoltezza di avventuriero, qualcosa in quell’equilibrio si fosse spezzato. Pensò a come la nebbia fosse sparita dal sentiero e di come fosse stato facile il viaggio di ritorno.
La porta della biblioteca si aprì e Jhann entrò nella stanza, le spalle che racchiudevano la testa abbassata.
“Pss! Agur! Che diavolo stai facendo?” gli domandò in un sussurro concitato.
Egli alzò gli occhi sul suo amico e un sorriso sbieco gli spuntò sul viso adombrato. “Cammur non è qui. Puoi anche toglierti dalla faccia quell’aria afflitta.”
“Questo posto puzza del suo sudore” si lamentò. Rispostò i suoi occhi sul principe. “Gli altri sono alla taverna e non mi crederebbero mai se li andassi a dire dove ti trovi.”
“Allora, non glielo dire.”
Agur si ritrovò il collo bloccato dalla salda prese dell’amico. “Stai scherzando?! Siamo o non siamo compagni d’arme? Non posso lasciarti in balia del vecchio Cam.”
E con queste ultime parole lo trascinò fuori.
L’aria iniziava a irrigidirsi e con le prime foglie caduche l’inverno era alle porte. Spifferi e correnti gelide giungevano da nord e sembravano promettere tempesta.
Agur fu scosso da un brivido di freddo e non si oppose al ragazzo. Lasciò che il tepore della taverna gli riscaldasse le ossa e sciogliesse i muscoli. Raggiunsero gli altri due al bancone del bordello, due ragazze abbandonate contro i loro fianchi, i seni quasi nudi e i fondoschiena sormontati dalle manone di quei due perdigiorno.
“Togliete le mani dalle mie ragazze” vociò Jhann, lasciandolo finalmente libero. “Non posso voltarmi un attimo che rischio di essere defraudato. Dov’è finito il mio boccale?” Lo prese in mano e ringhiò. “Dannazione! Perché è vuoto?”
Il principe sospirò e facendo spallucce si avvicinò ai compagni. Nor stava facendo segno ad una donna di avvicinarsi mentre Der latrava come un cane scosso da profonde risate.
“Buoni tutti, adesso” li azzittì l’omone. “Voglio sapere perché sei tornato a castello senza un trofeo” ordinò e puntò il suo petto con un dito.
Egli si prese alcuni secondi di tempo, ordinando da bere. “Poca selvaggina.”
Nor quasi si strozzò e Der boccheggiò più volte prima di riuscire a pronunciare. “Ora anche gli animali ti danno il ben servito?”
Mentre sogghignava all’ilarità dei compagni, il giovane uomo sorseggiò l’ambra liquoroso, allontanando da sé il momento in cui i suoi incubi sarebbero divenuti la realtà dei suoi inseparabili amici.
 
 
Col senno di poi, si dovette dare dello stupido; in realtà, più di una volta.
Il giorno del grande banchetto arrivò e l’unico nemico che li minacciò fu il gelo. Nei giorni precedenti, Agur aveva passato lunghi momenti di contemplazione nella biblioteca, alternandoli a boccali di birra e ballate spensierate nelle vie della cittadella. Se da un lato non riusciva a dimenticare la sua ultima avventura, dall’altro il timore di un possibile attacco andava via via scemando insieme ai ricordi lontani, fin quando di loro non restarono altro che frammenti fastidiosi che il principe pensò bene di ricacciare in un angolo buio del cervello, ostinandosi a ignorarli.
I rappresentanti dei Felichi arrivarono il giorno prima della grande festa e il giovane uomo fu costretto a presidiare alla cerimonia di benvenuto. Altro che regali e divertimenti! Il suo compleanno era un ottima scusa per rinnovare le loro alleanze. Di conseguenza, Agur si ritrovò sulle sponde del Bajan-Arah al tramonto, quando i raggi di Mal sfiorivano sulla linea dell’orizzonte in tonalità argentate e il cielo si colorava di un caleidoscopio di colori, dove l’azzurro sfociava in oceani purpurei e ocra. Le tre vele dei velieri dei Felichi si confondevano con le trame dei flutti, fatti di quel particolare tessuto che cangiava insieme alla luce, veli trasparenti di cui solo qualche raggio beffardo riusciva a smascherare la presenza. Le loro navi erano le uniche che riuscissero a navigare in quelle rapidi correnti e in mezzo a quei gorghi tipici del corso d’acqua; anche per questo, nessuno mai aveva invaso Puèntagor.
Il Re Ander andò incontro ai suoi ospiti e si profuse nei consueti saluti. Agur aspettò, qualche passo indietro, che suo padre e i suoi tre invitati si avvicinassero alla corte prima di muoverglisi incontro. Il pelìc di Puèntagor si stagliò contro gli ultimi raggi dell’astro lucente, ritto in tutta la sua altezza, ed egli non poté fare a meno di squadrarlo con uno sguardo guardingo. Il felica, consigliere fidato del Pocshà, rappresentava alla perfezione il corpo e l’anima della sua gente: l’alta figura blu era essenzialmente vestita di pelli, una cintura reggeva la tipica lama a doppia curva in vita, le quattro dita della mano poggiate sull’elsa senza pomolo; il viso sottile e lungo era sormontato da tratti essenziali, fatta eccezione per i grandi occhi rotondi privi di iride e completamente aranciati; non aveva orecchie, ma ai tagli obliqui ai lati del viso erano arpionati due cerchi bianchi in cui erano incassati due più piccoli, segno della sua alta carica all’interno del suo popolo. Non portava calzari: per la sua gente era essenziale restare sempre in contatto con la terra. I suoi compagni, alle sue spalle, erano esattamente come lui, tranne che uno era un nabaik e uno aveva una corporatura piuttosto tozza per la sua prosapia.
Agur accettò i saluti e gli auguri e poi si accodò alla corte che risaliva nuovamente verso Cahar. Le celebrazioni nelle piazze e nelle locande ornavano la città di suoni giubilanti; le musiche delle cetre e delle cornamuse si riversavano nelle vie e balzavano attraverso profonde echi all’interno delle mura reali, invadendo le sale del banchetto dove le note dolci dei flauti intrattenevano gli ospiti.
Il principe lanciava spesso occhiate dalle grandi vetrate verso la baldoria dei popolani, invidiando i suoi amici e immaginandoseli a spassarsela con le donne del villaggio, tra un salto a ritmo di tamburello e qualche lascivo bacio rubato alle donne che servivano da bere. Sbuffò e ancora una volta dovette rimandare il momento in cui Cassia e Brige avrebbero alzato le gonne per lui.
“Essere in posto brutto” lo indicò un felica.
Era quello più basso, ma non per questo incuteva meno sospetto, considerato che comunque lo guardava dritto negli occhi.
“Brutto?” domandò, flemmatico.
L’uomo sembrò pensarci un po’ su. “Errore, no buono.”
“Sbagliato?” suggerì, divertito.
“Sbagliato!” esultò il felica. “Festa” e indicò verso i festeggiamenti aldilà del vetro, “tua.”
“Già” si abbatté, “peccato che sia qui che debba stare.”
Lanciò un’occhiata di sbieco verso il suo ospite, ma quello stava sorridendo, per nulla offeso dal suo atteggiamento.
“Essere festa tuo.”
“Essere regno suo” spiegò con una smorfia, indicando il Re, suo padre.
Il felica scosse la testa e si piegò verso di lui. Fece guizzare la lunga lingua, bagnandosi la faccia, e cominciò a parlare: “Puèntagor libera. Regno di Pocshà, ma terra mio e felica. Vita di Puèsigath, ma cielo e acqua mio e felica. Essere libero, essere buono. Pocshà libero, felica libero.”
Agur sbatté più volte le palpebre, visibilmente costernato dallo sproloquio. Lentamente afferrò il senso delle parole dell’uomo blu: un uomo libero era un uomo che dà libertà; non poteva regnare con delle catene ai polsi. Beh, il ragionamento filava; peccato però, che non si potesse applicare sull’intera Venasta. Pazienza, si disse, visto che era uno degli ospiti più importanti nella sala a proporlo, non vedeva il motivo per cui non mettere in pratica l’idea.
Sorrise ammiccante verso il felica e lo salutò con un svolazzante inchino. Fece per andarsene, ma quello si mosse con lui. Gli mostrò un astuccio: dentro, c’era un tamburo piatto, con dei sonagli ad incoronarlo. “Suono, festa. Essere acqua vita, mio.”
Agur si accigliò, il giovane blu era un suonatore e voleva venire. Uno sghembo sorriso gli illuminò il viso. “D’accordo” gli disse, cogliendo l’occasione al volo. Dopotutto, avrebbe mostrato al loro ospite le bellezze della loro città.
Uscirono con discrezione dalla sala dei banchetti e guadagnarono la via verso corridoi più soffusamente illuminati, dove gli occhi di sua madre e delle sue spie avrebbero avuto più problemi nel seguire le sue mosse. Condusse il felica negli androni est del castello e si infilò nella stanza dei consiglieri, dove un vecchio passaggio li avrebbe direttamente portati verso le porte laterali. Da lì, le guardie sarebbero state più collaborative e avrebbero tenuto i portoni aperti per lui, nell’eventualità che la madre non si accorgesse della sua assenza e loro fossero riusciti a rientrare indisturbati. Craig saltò sull’attenti, il vecchio uomo era una guardia simpatica che si era fatta più volte complice delle sue bravate. L’uomo li aprì i battenti della sala e lo salutò con il suo solito modo arzigogolante, fatto di smodati inchini scricchiolanti per via della senilità.
La stanza era vuota, malamente illuminata da poche candele sparse qua e là e dalla luce soffusa di Sel che penetrava dalle alte e lunghe lastre dei rosoni. La cariatide doveva essere anch’ella al banchetto, a ridacchiare come un rospo con i suoi denti ingialliti. Felice di non averla ancora incrociata, si mosse verso la porta laterale che dava a nord.
“Arakna, banah-aki!” urlò il felica, l’arma sguainata in mano.
Istintivamente, Agur sfoderò la lama di perion e si voltò a fronteggiarlo, ma l’uomo blu guardava sconvolto la testa della creatura sita sul lungo tavolo.
Egli si avvicinò, all’erta. “Come l’hai chiamata?”
Il felica si girò verso di lui, la fronte corrucciata e gli occhi aranciati che brillavano dei deboli riflessi delle fiamme gialle. “Arakna, Shaev banah!”
Agur scosse la testa, non riuscendo a capire.
“Cosa sai delle Pietre di Shaev?”
“Magia” pronunciò contrito. Tornò a guardare contrariato la testa della creatura. “Arakna” la indicò con il mento. “Essere qui, magia di Shaev morta.”
Un fluido ghiacciato colò lungo la schiena del principe ed egli suo malgrado deglutì. “Non è possibile. Ho ucciso la creatura più di una settimana fa. Le Pietre continuano a proteggerci.”
La luca diafana di Sel fu inghiottita da un banco di nuvole passeggere. Gli occhi del felica si oscurarono per un momento, persino la luce delle candele si attenuò minacciando di spegnersi per sempre.
Quando il riverbero riaccese le due scaglie aranciate sul viso dell’uomo blu, egli mormorò fatalmente: “Magia morta. Racahar essere qui, essere buio.”
 
 
Agur corse. Come quando rincorreva la selvaggina per i boschi di conifere, fino alle brughiere o su per i monti, egli volò sena peso tra i corridoi del castello, piombando nella sala del banchetto come un tuono che annunciava tempesta.
Le teste degli astanti si voltarono verso di lui, ma egli cercò lo sguardo del padre prima di varcare la soglia. Mentre il felica si dirigeva verso il pelìc, lui affiancò il Re Ander.
“Siamo in pericolo.”
L’espressione di suo padre non cambiò. Guidandolo in uno spazio isolato, fece segno ai suonatori di vivacizzare la musica; poi si voltò verso di lui e sempre con quell’aria placida, ordinò semplicemente. “Parla.”
“Il felica ha visto la testa della creatura e l’ha riconosciuta. Ha detto…”
La musica smise di suonare e la quiete festosa della sala fu azzittita per la seconda volta: i corni delle alte torri stavano squillando per tutta Cahar.
L’intera corte tremò e il Re ordinò la calma. Poi, con il figlio al seguito, si avviò con passo celere verso i portoni, dove erano stati portati i cavalli. Agur galoppò al fianco del padre – mandando all’aria l’etichetta – fino al villaggio. La gente si era rigettata sulle strade, restando immobile in spazi all’aperto, i corpi ammassati per la paura. Ciò che lo colpì di più però, fu l’assenza di suono. Le cornamuse erano abbandonate sul terreno scuro e le corde delle cetre si erano spezzate, pizzicate con veemente forza dai suonatori intimoriti. La baldoria dei festeggiamenti era stata agghiacciata dalle sette teste delle fanciulle che suo padre aveva concesso in dono al Dio Agabar, giunte in città legate al culo del cavallo: gli occhi erano stati cavati e i denti sradicati dalle gengive.
Agur strinse i pugni, il peso di quella sciagura che gravava sulle sue spalle, e guardò il Re. Per la prima volta, Ander aveva esitato, un secondo di troppo.
“Mio Re” urlò una donna, le braccia lanciate verso il cielo. “Mio Re.”
I caharrin iniziarono a ripetere “mio Re” sempre più forte, disperati, le voci delle madri che stridevano sotto i raggi di Sel e perforavano l’oscurità della notte immota.
“Padre” chiamò, il volto sconvolto.
Il Re non si voltò a guardarlo, avvolto tra le maglie nella notte. “Suona il corno. Richiama l’esercito. Siamo in guerra.”

 
N.d.A.

Dizionario aggiornato a CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi de "Il Tredicesimo Re"

Ringrazio chi ha letto, commentato, messo la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.
   
 
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