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Autore: MisterXPaulPollo    21/09/2016    3 recensioni
Sono nato un venerdì.
Il tredici di un venerdì di Maggio, alle ore 17:00.
Ho la sfiga impiantata addosso come Wolverine l'adamantio.
Sono talmente sfigato che stamani, nel tentativo di avvelenare il latte del mio schifoso coinquilino infetto, non mi sono accorto che il figlio di puttana aveva invertito le tazze.
Risultato.
Ho avvelenato il mio latte.
La mia tazza adesso è infetta.
Il latte di riso è finito.
Oggi muoio.
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo VI
 
25/07/2014 – New York, Greenwich Village – Ore 8:23

- Noah, sei ancora arrabbiato? -

Noah non risponde. È palese che sia ancora arrabbiato con me per l’episodio delle tazzine.

- Te le ricompro le tazzine, giuro. -

Adesso neanche mi guarda, non si sforza minimamente di tradurre i miei gesti, le mie parole.
E questo ovviamente non lo posso permettere, non a mio fratello.
Anche se ha tutte le ragioni di questo mondo per essere arrabbiato.
Con l’indice e il medio della mano sinistra, avvolti attorno al manico della tazza, batto due volte il fondo di quest’ultima per ottenere attenzione, o per produrre un rumore talmente fastidioso e ripetitivo da costringerlo a darmi udienza.
A Noah i rumori non piacciono.
Lui è il classico ragazzo che ama la quiete e il silenzio, ama il suono delle onde che si infrangono sugli scogli e il canto melodioso del vento tra le fronde degli alberi. Ama la pace della campagna e soprattutto ama i pensieri e poter comunicare con questi. Per questo sono il suo fratello preferito, nonché unico.
E per questo il suo appartamento è così in alto, per potergli permettere di sfuggire al caos metropolitano almeno un po’.
Io invece per quanto muto possa essere, sono completamente l’opposto.
Se c’è rumore, c’è civiltà, e se c’è civiltà, ci sono persone da uccidere.
Semplice, no?
Dopo quasi cinque minuti passati a tamburellare, Noah si volta verso di me con uno sguardo da pazzo psicopatico, e quella lieve sfumatura omicida che mi porta a sorridere per un brevissimo istante, mostrando addirittura la dentatura.
Un breve istante, un singolo momento in cui le mie labbra si sono schiuse per mostrare i denti.
Odio mostrare i miei denti, sono orribili.
Ogni singolo giorno mi chiedo cosa sbaglio quando li spazzolo, mi chiedo perché nonostante la cura con cui li tratto, siano sempre neri.
Noah dice che è solo frutto della mia fantasia, che in realtà i miei denti sono bianchi esattamente come me.
Ancora devo capire perché mio fratello mi mente.
Quel mezzo ghigno che ho fatto deve però averlo sconvolto a tal punto da lasciare da parte la rabbia accumulata e mal celata di questi giorni, per lasciare spazio ad un lungo sospiro esasperato, come quello che esce fuori quando tornando a casa il tuo cane ha appena deciso di rimodellare gli interni del salotto sbranando il divano e lasciando gommapiuma e bava ovunque. Vorresti urlargli contro, ma ecco che tira fuori la mossa del colpevole, due occhioni dolci e alla fine sospiri.
Un po’ come Noah con me, con l’unica differenza che io non sono un cane.
E non sbavo.
I polli non lo fanno.

- Te le ricompro le tazzine, le ho trovate identiche su Ebay. Non costano neanche tanto. Dopo le ordino. Sei vanno bene? -
« Certo che sei incredibile Paul, cosa devo fare con te? »
- Niente? -
« Mi farai diventare pazzo un giorno di questi. Hai la minima idea di quello che poteva succedere? »
- Lo spirito di tua nonna non verrà certo a disturbare il mio sonno. Ho già altri malanni a cui pensare la notte. Oltre a germi da combattere. -
« Smettila Paul con queste tazzine, non mi interessa se le hai buttate di sotto nel vano tentativo di uccidere qualcuno, tanto non ci riuscirai mai! »

Ah, maledetto.
Come osa anche solo pronunciare frasi del genere? Io riuscirò ad uccidere qualcuno, è scritto nel firmamento, nel mio destino, nel mio libro genetico, ovunque.

« Mia nonna ti ha sempre impedito di commettere sciocchezze, evidentemente lo sta facendo anche adesso. »

Dunque è colpa della vecchia se non riesco mai ad uccidere anima viva?
Maledetta vecchiaccia, appena muoio vengo a cercarti e ti picchio.
Volto lo sguardo truce verso la finestra aperta, con un gesto di intesa verso quella vecchiaccia malefica che, ipoteticamente, sta impedendo in tutti i modi il mio successo.
Volto di nuovo lo sguardo verso Noah, attirato dai rumori da lui creati.
Si sta preparando per uscire, e dovrei farlo anche io. Destinazione? Aeroporto.
Oggi torno a casa, in quella nuova dimora abitata da una donna.
Una ragazza fragile ed indifesa da poter uccidere, una preda succulenta.
Devo farcela.
Mi alzo dalla sedia per avvicinarmi al lavandino, nel quale poso la tazza usata accanto a quella di Noah che, ovviamente, non aveva lavato la sua.
Evito di pensare a cosa potrebbe già essersi formato all’interno di quella tazza, e le lavo solo dopo aver ovviamente indossato i guanti. Dopo averle anche asciugate e messe a posto, mi preparo per raggiungere mio fratello che, ovviamente, ha già portato giù il mio bagaglio ammaccato.
Chiudo la porta della sua abitazione, poi scendo le scale avendo cura di non toccare per nessuna ragione il corrimano infetto, e cercando nel frattempo di non cadere dalle scale e rotolare per tutte le rampe. Un po’ come succede nei film comici, dove il povero sventurato invece di rotolare solo per una rampa, se le fa tutte senza capire bene il come e il perché.
Quando finalmente arrivo all’ultimo gradino, mio fratello è lì che mi aspetta, con un piede che tamburella sul pavimento, e le mani strette attorno al bagaglio, con lo stesso sguardo spazientito che aveva prima.
Sono abbastanza intelligente da capire che il problema non sono le tazzine, ma l’episodio della metropolitana.
Dopotutto mi aveva ripetuto non so quante volte di smettere con quel mio strano, inquietante e pericoloso hobby.
Le metropolitane sono i passaggi della morte, il giorno prima tutto bene, e il giorno dopo qualcuno ti spinge accidentalmente sulle rotaie all’ora di punta.
Situazioni di ordinaria quotidianità.

« Sul serio Paul, dovresti smetterla con questa storia dell’offendere la gente nella metropolitana. È pericoloso. »
- Ho preso solo un pugno stavolta. -
« Solo un pugno da un tizio alto un metro e novanta, che come minimo pesava cento chili, e con dei muscoli che al solo vederli anche Hercules si sarebbe spaventato. »
- Come sei tragico, è capitato anche di peggio. -
« Tragico? Io sarei tragico? Basta, sali in macchina prima che ti spalmi la faccia sul cofano della macchina. E sappi che non l’ho lavata. »

Questa è una minaccia.
Questa è la tipica minaccia che non ammette repliche di alcuna sorta, che devi assorbire lentamente ed in silenzio senza provare a disobbedire in alcun modo.
Ed è esattamente quello che faccio, eseguire gli ordini senza replicare e senza cercare di irritarlo in alcun modo.
Dunque entro in macchina, senza fare alcun gesto, senza muovere un dito e senza guardarlo.
Quando Noah è così irritato, è sempre bene non provare a fare il simpatico per cercare di smorzare la situazione, come di solito faccio.
Il viaggio dunque prosegue così, in silenzio, senza neanche un respiro a momenti.
Devo però alleggerire questa pesantezza, devo farlo dato che è l’ultimo giorno e chissà quando lo rivedrò.
Gesticolo.
Non mi vede, sta guidando, è normale.
Gesticolo ancora, giusto per attirare quel minimo di attenzione che mi merito da lui.
Ok magari no, ma ci devo almeno provare giusto?
Niente, la guida ruba ogni sua più piccola attenzione, fin quando non ci fermiamo.
L’aeroporto sembra così triste, quando hai dei conti in sospeso con qualcuno che ami.

25/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 12:35

Noah non mi ha ancora rivolto la parola, e ha perfino rifiutato di guardarmi.
Tra meno di quaranta minuti il mio volo partirà, ed io non sono ancora riuscito a farmi perdonare da mio fratello.
Non ho molto tempo a disposizione, devo trovare un modo per riuscire a fargli capire che non lo faccio apposta.
Non è colpa mia se offendere le persone in metropolitana è un hobby che trovo appagante e rilassante.
Il tizio nerboruto è solo un malaugurato incidente.
A tutti capita di ricevere un pugno nello stomaco dopo aver dato del Big Jim ad un tizio a caso.
Volto lo sguardo verso Noah, osservando la sua espressione da gatto indispettito che sta valutando se farti male o concedere a te, stupido umano, di accarezzare il suo pelo morbido ed invitante, nonché pieno di maledettissimi germi e malattie di altro genere.
Gli punzecchio un fianco, attirando finalmente la sua attenzione, poi punto i miei occhi di ghiaccio nei suoi cercando di imitare quegli occhioni da cane colpevole, ma probabilmente senza riuscirci.

« Credo sia meglio che tu vada, il tuo volo partirà tra poco, giusto? »

Si alza prima di me, cercando di evitare a tutti i costi il mio sguardo ed i miei gesti, ma adesso basta.
Mi alzo di scatto e, lasciando fare il volo e tutto il resto, mi lancio contro di lui abbracciandolo da dietro, stringendogli le braccia attorno al busto con tutta la poca forza che ho a disposizione in questo mio esile corpo.
Non gesticolo, semplicemente lo abbraccio.
Solo Noah rovinò quel momento romantico, aprendo bocca.

« Che stai facendo? »
- Secondo te cosa sto facendo? -
« Il ruffiano? »
- …Forse? -
« Stupido. Mi prometti che non lo farai più? »
- Lo prometto. -
« Bugiardo. »
- No, sono sincero. O forse no. -
« Lo immaginavo. Promettimi solo di stare attento, questo lo puoi fare? »
- Sì, questo credo di poterlo fare. -
« Hey, Pollo. »
- Cosa? -
« Ti voglio bene. »

26/07/2014 – Londra, Chatham St – Ore 9:00

Sono le nove in punto, e tutto va male.
Seduto sul letto cerco di ambientarmi, di capire se davvero sono nella mia stanza, o se quella che mi circonda è solo la proiezione di un candido sogno.
Sarebbe meraviglioso se al mondo non ci fossero germi, no? La gente non si ammalerebbe, non potrebbe infettarmi ed io non potrei infettare il prossimo.
Forse è davvero un sogno, o forse sono morto e quello in cui sono è il paradiso.
Sorrido per un breve istante, riuscendo quasi a sentire i putti suonare la lira, ma poi abbasso lo sguardo, guidato da una mano invisibile che mi mostra l’orrore spalmato sul pavimento di legno della mia stanza.
Una macchia di non so cosa.
Sono vivo.
Lo sporco è penetrato anche qua dentro, nel mio tempio, nel mio rifugio bianco come il latte, bianco come me.
Adoro queste pareti così luminose, le lenzuola candide, le lampade, i comodini, l’armadio. Tutto così bianco, così perfetto. Ideale per vedere meglio lo sporco e soprattutto, per mimetizzarsi nelle situazioni di pericolo.
Come un camaleonte.
Mi alzo dal letto, indossando immediatamente le ciabatte per non venire a contatto con quella superficie infetta, tiro su le coperte coprendo anche il cuscino per evitare depositi di polvere sullo stesso, poi mi volto verso la porta dalla quale provengono strani rumori.
Una voce stridula ed odiosa accompagna un buongiorno ed uno sbadiglio, e la sua mano batte contro la mia porta.
Oh no, la morte è venuta a prendermi, mi devo mimetizzare!

« Hey, sei sveglio? »

Mi schiaccio contro la parete, mimetizzandomi con l’ambiente che mi circonda. Non mi vedrà mai, posso fregare la morte, io sono Pollo!

« Adesso vengo a svegliarti, brutto dormiglione. Ricordati che avevi promesso di darmi una mano con le pulizie. »

La porta si apre, ed il mio petto si schiaccia ulteriormente contro la parete in una completa mimetizzazione. Non mi avrai maledetta vecchiaccia incappucciata.

« …Paul, perché sei schiacciato contro la parete? »

La voce è cambiata, adesso è graziosa e piacevole. Un inganno della morte?
Volto lentamente lo sguardo verso la parete opposta, trovando una ragazza dai capelli biondi ed arruffati, con delle pantofole pelose ai piedi ed uno sguardo pieno di domande che non formulerà mai. Rimane immobile sulla soglia, con la mano sinistra ancora stretta attorno alla maniglia della porta, poi indietreggia di un passo, spostando lo sguardo sul pavimento, e poi sul corridoio, sorridendo appena.

« Ok, ti lascio ai tuoi esercizi di mimetizzazione. Ti aspetto in cucina per la colazione. Ti preparo qualcosa? »

Scuoto la testa in un ovvio no che la ragazza accetta quasi a malincuore, ma dopotutto doveva immaginarsi che non le avrei mai permesso di mettere quelle sue manacce femminili sul mio cibo. Chiude quindi la porta, ed i suoi passi che si allontanano accompagnano il mio corpo che si stacca dalla parete per raggiungere l’armadio e prendere il cambio d’abiti.
Che voce orribile da udire di prima mattina, neanche quando metto la testa fuori dalla finestra per urlare agli esseri umani il mio disprezzo, sono così sgradevole.
Che ridere, sono così simpatico.
Dopo essermi lavato e cambiato, porto il pigiama nella mia camera, e mi sposto finalmente in cucina dove il mio stomaco avrebbe trovato la pace interiore.
Dimenticarsi di una donna non è cosa da poco e infatti, non appena i miei piedi fanno il loro ingresso nella stanza attrezzata, i suoi occhi blu come l’oceano mi si appiccicano addosso come le mosche sulla carta moschicida, seguendo ogni mio singolo passo dalla porta al frigorifero.
Perché diavolo mi sta fissando?
Non deve guardarmi.
Ha una tazza davanti, no?
Perché non aggiorna il suo profilo Instagram con una interessantissima foto della sua anonima tazza, ed una frase su quanto è bello svegliarsi la mattina?
Stringo le dita della mano destra attorno alla maniglia del frigorifero, nel quale prendo il cartone del latte di riso. Chiudo il frigo e prendo la mia tazza personale nel quale verso il latte freddo, che poi rimetto al suo posto all’interno dell’elettrodomestico.
Il tutto con i suoi occhi ancora puntati addosso.
Perché?
Smetto di domandarmelo, ed evito appositamente il contatto con i suoi occhi per non invogliarla a fare domande alle quali non avrei risposto, optando invece per finire alla svelta il mio latte e mettermi all’opera.
Quella casa trasuda malattie da tutti gli angoli, e non posso vivere in una casa dove la sporcizia la fa da padrona.
Finito il latte, lavo la tazza rimettendola successivamente a posto e, senza rivolgerle il minimo sguardo, esco dalla stanza per raggiungere il ripostiglio delle meraviglie, abitato da scopa e spolverino, aspirapolvere e detergenti di varia natura.
I miei migliori amici.
I miei supereroi.
Per prima cosa, i guanti.
Seconda cosa, la scopa per sdiragnare. In mancanza di altro, mi sarei accontentato.
Volto lo sguardo verso di lei, avvertendo la fastidiosa presenza esattamente dietro di me, coronata dai suoi occhi e la sua voce.

« Oh, sei già pronto! Io che faccio? »

Volto nuovamente la testa verso il ripostiglio, e allungo la mano per poter prendere guanti e spolverino. Oggetti che ovviamente le lancio, guadagnandomi in risposta altre parole vomitate da quella bocca di donna, ed uno sguardo impermalito.
Sguardo che non mi tange minimamente.

« Non sei affatto carino, Paul! Potevi semplicemente passarmeli sai? »
- Siamo qua per pulire, non per scambiarci carinerie. -

Era la prima volta che mi vedeva muovere le mani per parlare, e la sua espressione ci mise un secondo a mutare. Da impermalita, a stupita.
E ovviamente non ha capito una singola parola di quello che ho detto, non conoscendo lei il linguaggio dei segni.

« Se non usi il taccuino, dubito di poterti capire. O scrivi, o mi insegni il linguaggio dei segni, decidi! »
- Nessuna delle due. -
« PAUL! »
- Bla bla bla, oca. -
« Quest’ultima credo di averla capita… »

Una fastidiosa presenza che ronza senza sosta accanto a me, troppo vicina, troppo petulante, troppo donna.
Sospiro pesantemente, allontanandomi da lei più di quanto io non sia già, ma non appena alzo la scopa l’idea viene lanciata alla velocità della luce contro tutti quei neuroni ancora vivi, illuminando a giorno la scatola cranica con le loro lucine a led.
È risaputo che la maggior parte degli incidenti e delle morti accidentali avvengono in casa, no? Secondo i dati attuali, è più facile morire tra le mura domestiche, che per strada, quindi perché non alimentare ulteriormente questi dati?
Se mi avvicino abbastanza, posso far cadere la scopa esattamente sulla sua testa causandole un trauma talmente forte da ucciderla. E se lei muore, non dovrò più condividere la mia aria con lei.
Le mie palpebre si abbassano fino a ridurre gli occhi a due fessure, mentre con passo felpato mi avvicino a lei.
Non si accorge del mio avvicinamento, è troppo concentrata a spolverare quei ninnoli attira polvere per badare a me.
Un passo, poi un altro ed un altro ancora.
Alzo la scopa sopra la testa, piegandola successivamente verso la ragazza per prendere le dovute distanze.
Non devo colpirla con il manico, ma con la base della scopa.
Ecco, la distanza è perfetta, sono pronto.
Alzo nuovamente la scopa sopra la testa, inclinandola appena verso di lei per evitare che la sfiga potesse farla cadere dalla parte opposta, poi lasciai la presa, ed un piccolo ghigno si disegna sul mio volto.
Un colpo che va a segno, il mio sorriso che si allarga per poi sparire del tutto.
La ragazza si porta la mano destra sulla testa, si volta verso di me e mi rivolge lo sguardo di chi non si aspettava una cosa del genere, misto al dolore per la botta.

« AHI! Paul sei impazzito? »
- No, volevo ucciderti. -
« Che male, stai più attento con quell’affare! »

Il mio volto si cruccia per il fallimento, e la mano destra si protende verso la scopa per raccoglierla ed allontanarmi di nuovo.
Per una volta che il colpo va a segno, la scopa rimbalza.
Maledizione, chi si immaginava che avesse la testa così dura?
Neanche sanguina.
La tasca dei pantaloni vibra, mi informa che devo prendere il telefono e controllare Facebook.
Una richiesta d’amicizia.
Per me?
Qualcuno vuole la mia amicizia?
Davvero?
Non ho idea di chi sia, non abbiamo neanche amici in comune, chi potrà mai essere questo tizio?
Accetto la richiesta, rimetto il telefono in tasca certo che non avrebbe vibrato di nuovo, ma non appena quest’ultimo tocca il fondo della cucitura, vibra ancora.
Prendo nuovamente il telefono in mano, lo sblocco ed apro la chat per leggere il messaggio.
È il tizio che ho accettato, un certo Richard.

“Richard Kelhweier

Ciao!

Paul Campbell

Cià.

Richard sta scrivendo…”
   
 
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