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Autore: Wind Pursuer    22/09/2016    0 recensioni
Liliana è una sedicenne che ha alle spalle già due trasferimenti. Ormai sa come rimanere distante dalle persone senza affezionarsi troppo, ma quando da Londra si trasferisce in un paesino dell'Inghilterra abbandonato dall'uomo e da Dio non si immagina che il suo modo di essere sta per venire stravolto totalmente. Ella si ritrova di fronte ad esperienze mai affrontate prima: il primo amore e la malattia, che l'aiuteranno a crescere e maturare.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autore: Questa storia nasce diversi anni fa sotto forma di sceneggiatura. A distanza di anni ho voluto riadattarla, ricominciando a scrivere dopo un lungo periodo di fermo per un blocco psicologico dovuto ad una serie di eventi piombati nella mia vita tra capo e collo. Insomma, con questa storia ricomincio a scrivere dopo tanto tempo. Con queste premesse, spero che possiate essere numerosi a recensire e a consigliarmi per farmi riprendere la mano. Buona lettura! =)



Vi è mai capitato di ricominciare da capo la vostra vita? Poter costruire una nuova immagine, poter rinascere? In fondo si tratta solo di lasciare la vecchia esistenza alle spalle e intraprenderne una nuova, cercando di far vedere la parte migliore di te, o forse la peggiore, a tua scelta, sì.
Lascio andare lo scatolone che ho in mano appena varcata la porta della nuova casa. Ho le braccia doloranti e le mani arrossate, troppo fragili per tenere buste e scatoloni troppo a lungo. Mi guardo intorno: il corridoio all’ingresso è luminoso e ospita una lunga scala di legno scricchiolante, che porta alla zona notte, sulla destra la cucina, sulla sinistra camera da pranzo e salone. Una casa bella, a cui potrebbe essere facile affezionarsi, se solo non sapessi che quella sarà solo l’ennesima casa in cui ci trasferiremo.
“Rimangono ancora pochi scatoloni” dice mia madre affannata, mentre anche lei entra con una pila di cose in braccio, diretta verso la cucina. “Lili, spostati che non riesco a passare!”.
Riprendo controvoglia lo scatolone e mi dirigo ai piani superiori. Le scale sotto di me iniziano ad ogni mio passo una musica degna dei migliori film horror. Apro la porta della mia camera: è decorata con carta da parati fiorata e colorata, quella che la vostra zia inglese sicuramente sceglierebbe per il suo salone pieno di ceramiche e oggettini in vetro. Sbuffo contrariata e mi dirigo verso la finestra per aprire le tende in tessuto pesante. Oggi è una di quelle rarissime giornate in cui Dio si ricorda di regalare un po’ di sole all’Inghilterra...il mio amato sole, sotto cui amavo stare in Italia...
Un urlo da sotto mi riporta al presente: “ANDIAMO! GLI SCATOLONI NON SI PORTANO DA SOLI!”.
Insomma, eccomi qui, una sedicenne che di corsa si appresta a scendere le scale, pronta ad iniziare la sua terza nuova vita.

 

Fu un shock per me sapere la prima volta che a causa del lavoro di mio padre ci saremmo dovuti trasferire da Roma a Londra. Insomma, doveva esserci per forza qualcosa che avremmo potuto fare per rimanere a casa, in Italia. Non ci furono storie: la decisione era stata presa e in fretta e furia dovetti dare l’addio a tutti i miei più cari amici. Neanche una lacrima riuscii a versare perché nella mente avevo talmente tante paure da lasciarmi imbambolata come un burattino: l’inglese da imparare tanto bene da poterlo parlare fluidamente, i compagni nuovi con cui fare amicizia, le nuove abitudini che avremmo avuto, la nuova cultura che avremmo dovuto far entrare a casa nostra...
Fu così che in un attimo ci ritrovammo sballottati da un lato all’altro dell’Europa, pronti a quella nuova avventura. A Londra rimanemmo due anni e poi di nuovo altri amici da salutare e infine piombare qui, in questo paesello inglese abbandonato dall’uomo e da Dio.
Nonostante ciò, adesso come adesso non tornerei mai in Italia perché non riesco più a vederla come il mio paese natale, bensì il paese che mi ha cacciato senza ritegno, che non aveva spazio per me, una madre che si è scordata di sua figlia.

Mamma entra in camera mia senza bussare e si affaccia: “Sono arrivati gli zii con le piccole. Vieni?”. Un sorriso mi si stampa in faccia: se c’è una cosa che adoro è stare con la mia famiglia e finalmente, dopo tanti mesi, ci stavamo per rivedere.
Scendo veloce le scale e mi butto addosso all’omaccione che mi aspetta alla fine della rampa.
“Eccola la scimmietta!” ride mentre mi abbraccia.
Zia Francesca lo rimprovera: “Dalle respiro o finirai per soffocarla: avete 50 kg di differenza!”. Con un balzo mi libero dalla presa di zio Marco e schiocco un bacio a mia zia, mentre vengo catturata dalle cuginette. Sofia e Alessandra erano piccolissime quando abbiamo lasciato l’Italia e adesso sono lì davanti a me cresciute di almeno un palmo, che mi guardano con occhi timidi, forse non ricordandosi bene chi sia quella cugina che abita così lontano. Ci mettono poco, tuttavia, a giocare con Ambra, la mia sorellina, che probabilmente d’aspetto ricorda ancora quello di una bambina.
La cena procede tranquilla, mentre mamma sfila con le tremila portate che ha preparato e che puntualmente rimangono come il pranzo e la cena del giorno dopo. Finalmente, dopo tanto tempo, mi sento bene e tranquilla, come se non potesse succedermi niente. Peccato solo che domani inizia scuola! Di nuovo dovrò fare uno sforzo per ambientarmi e forse sarà anche più dura di quello che ho fatto due anni fa visto che ero più piccola e forse più aperta a nuove amicizie.
“E cosa pensa quella testolina corrucciata?...Liliana?”. Mi riscuoto dai pensieri, alzando la testa dal pollo ricoperto di patate al forno.
“Oh...ehm, no, pensavo a domani...la scuola che ricomincia”.
“E che ti vuoi rovinare questa cena magnifica? Avrai tempo per preoccuparti dopo”. Zio Marco si alza veloce dalla sedia e si avvicina allo stereo del salone, che inizia una melodia lenta e dolce, poi viene da me tendendomi la mano e mi chiede: “Balla con me, signorina?”.
Mamma e papà mi guardano divertiti mentre mi alzo e schivo Ambra, Sofia ed Alessandra che si rincorrono per casa.
“Vuoi così male ai tuoi piedi, zio?” chiedo ironica.
“Non potrai mica essere peggio di tua zia” mi sussurra abbastanza ad alta voce per poter essere sentito dalla parte lesa.
“Guarda che ti sento!” esclama zia, che gli tira il tovagliolo ridendo.
Iniziamo a ballare in maniera goffa, ciondolando da una parte all’altra. Mi sento come un palloncino abbandonato al vento, sono aria, musica, pensieri...
“Oh, per favore, smettetela, i miei occhi non possono più sopportare!” grida papà coprendosi il viso scherzoso.
“Guarda che andavamo benissimo!” lo rimprovero, mentre cambio stazione radio. Una musica inglese da discoteca mai sentita prima si fa spazio prepotentemente nel salone, cancellando il ricordo della precedente melodia.
“Già va meglio” sospira papà raggiungendoci ed iniziando a ballare con noi.
“Quelle mosse non le fa più nessuno!” grida zio sovrastando la musica. Tutti ormai stiamo ballando come dei pazzi intorno al tavolino mentre le ragazzine attonite si apprestano ad imitarci. Tutti i pensieri negativi sembrano cacciati via da quella danza scoordinata e dopo tanto tempo mi sento felice.

 

“Vi prendo piccole streghette!”. Corro veloce sul prato davanti casa, cercando di prendere Sofia che strilla eccitata e attenta a non farsi acciuffare, mentre il suo vestito a fiori si muove scompostamente. Rallento un po’ per darle vantaggio.
“Ehi, sono qui, prendimi!”.
“Fate piano che cadete!”.
Gli adulti si stanno salutando. Passerà diverso tempo prima che ci rivedremo e questi sono gli ultimi attimi da goderci insieme. Ambra corre in mezzo alla strada deserta, mentre sono ad un soffio da lei. C’ero quasi, ma è meglio che dico a quella stupida di non correre in mezzo alla strada, non si sa mai. Non faccio in tempo a pensare a ciò, che dal dosso alla nostra sinistra spuntano due fari che ci illuminano i volti stupiti. La macchina è veloce, non riusciremo mai a scansarci e anche se tirasse il freno in quel momento non sarebbe in grado di fermarsi in tempo giusto per non prendere i nostri corpi delicati e giovani. Mi tornano in mente i compagni di Roma, così addolorati per la nostra partenza, le risate con le mie migliori amiche, la casa di Londra, i parenti, gli abbracci dei miei genitori. Dio, morirò anche senza mai aver avuto un ragazzo!
Un’immagine ancora più straziante mi si para davanti agli occhi, probabilmente ritirata fuori da qualche vecchio telegiornale: due genitori piangono davanti a due bare bianche, due bare che contengono i corpi dei figli. La madre è straziata, non si spiega come quel legno ruvido e asettico possa aver sostituito il suo ventre morbido e caldo. Guardo gli occhi di quella signora, ma mi accorgo che non è una sconosciuta: mamma si stringe a papà guardando la mia foto e quella di Ambra posizionate sopra il legno bianco. Un brivido mi percorre la schiena, le pupille mi si dilatano, mentre il cuore batte all’impazzata. La macchina è vicina, tremendamente vicina.
Mi tuffo addosso ad Ambra, spingendoci al lato della strada e nel frattempo prego di aver fatto abbastanza, sperando di aver messo in salvo anche le gambe. Stringo gli occhi con paura. Poi una frenata brusca, la macchina si ferma qualche metro più avanti di noi, mia madre urla qualcosa da lontano, mentre tutti accorrono verso di noi. Ambra piange con qualche ferita sul posteriore per colpa della botta brusca che ha dato sull’asfalto.
La portiera della macchina si apre, facendo uscire un ragazzo poco più grande di me, di bell’aspetto e con la faccia sconvolta.
“Signori, io...io...”. I suoi occhi sono spalancati dallo spavento e in questo momento nessuno gli sta dando attenzioni, più preoccupati di accertarsi di come stiamo noi.
Mi libero dalla presa di papà per correre verso il ragazzo.
“Tu...emerito...stronzo!” mi scaglio addosso a lui colpendo ovunque riesca ad arrivare. Sento delle mani trattenermi e trascinarmi lontano, ma ancora scalpito, febbricitante.
“Ragazzo, cosa ti è saltato in mente?” grida zio, che sembra il più lucido tra noi.
“Scusate, davvero, vi ho visto all’ultimo... io abito a quella villa laggiù”dice indicando la villa sull’altro lato della strada e circa 100 metri più giù rispetto alla nostra “Per qualsiasi problema o danno, mi trovate lì”.
“Basterebbe che stessi più attento la prossima volta” urla zio mentre il ragazzo si allontana.
“Lascialo stare, vado a parlarci io domani” dice mio padre infuriato.
Inizio a tremare e tutta l’adrenalina che ho in corpo mi abbandona: crollo tremante sul ciglio della strada e tutto si fa buio.

 

“Sei sicura che vuoi andare?”chiede per l’ennesima volta mamma, mentre sono sull’uscio di casa.
“Sì, mamma, sto bene, davvero”.
Mi guarda come se dovesse trovarmi per forza qualche difetto, poi mi stringe in un abbraccio: “In bocca al lupo allora”.
La perdita di coscienza che ho avuto ieri sera dopo l’incidente ha preoccupato tutti, ma è stato solo il seguito di una forte reazione emotiva secondo il dottore.
Cammino verso scuola con gli auricolari alle orecchie, sperando di scaricare quella nuova tensione che ho alla bocca dello stomaco. Il primo giorno di scuola mi ha sempre agitato parecchio. Sento un colpo sulla spalla, mi giro e mia madre mi porge la merenda che ho dimenticato, poi mi dà un altro abbraccio e corre di corsa verso casa. Fortuna che questa scena non è avvenuta di fronte scuola se no tutti avrebbero pensato: “I soliti Italiani mammoni”! Guardo l’ora e affretto il passo.
Di nuovo sento un colpo sulla spalla e mi giro sbuffando: “Che c’è ancora, mam...?”. Le parole mi si fermano in gola mentre mi ritrovo di fronte a colui che per poco ieri sera non mi ha uccisa.
“Ti stavo chiamando da un po’”. Guarda le cuffie che adesso ho tolto dalle orecchie. “Ecco perché non sentivi”.
Lo guardo male e riprendo a camminare.
“Volevo scusarmi ancora per quello che è successo ieri sera...l’incidente”.
“Ma pensa...quasi me ne ero dimenticata” commento acida.
“Lo so, andavo troppo veloce, però magari possiamo risolvere le cose. Sei nuova, no? Avere un amico in questo paese a te sconosciuto può farti comodo. Sono William” mi tende la mano che guardo attonita. Avere un amico può farmi comodo?
“Senti, William, a me non interessa farmi amici in questo paese sconosciuto e tanto meno mi interessa fare amicizia con uno che è quasi riuscito ad uccidermi all’età di sedici anni”.
Abbassa gli occhi dispiaciuto, forse accorgendosi anche dell’inappropriatezza delle sue parole e io vado avanti verso il cancello della scuola statale che ormai ho raggiunto.

 

 

 

  
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