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Autore: Malvagiuo    24/09/2016    2 recensioni
Negli anfratti polverosi del Megacomplesso, un robot della prima generazione vaga fra i cunicoli adempiendo al suo antico compito, quello per cui è stato costruito e che continua indefessamente a svolgere. Presto un incontro cambierà per sempre la sua vita monotona e ripetitiva, avvolta nel buio dell'ignoranza e della mancanza di autocoscienza. Sarà elevato al rango più alto cui possa aspirare un automa, ma questa nuova esistenza lo porterà di fronte a una serie di problemi, e a pericoli mai sospettati. Perché non sempre la luce allontana le tenebre.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nei bassifondi
 
Quando Cheep sentì lo schianto, era già troppo tardi. La gamba cedette di colpo, staccandosi dal resto del corpo. Finì a terra e Cheep rimase a osservare la patina bianca ricoperta di chiazze giallastre, come se si aspettasse di vederla rialzarsi e saltellare al suo fianco. Sarebbe rimasta lì, invece, e lui non sarebbe andato molto più lontano.
Era un buon posto per morire: buio, umido, intasato di sporcizia. Un corridoio stretto e angusto, uno sconosciuto passaggio che si incuneava tra i canali di scolo del Megacomplesso, là dove finiva tutto ciò che il mondo non desiderava. Per lui, non poteva esistere un posto più adatto di quello.
C’era una pozza d’olio ai suoi piedi, una grande macchia nera che si allargava per terra, nutrita dai rifiuti circostanti, nella quale confluivano i liquidi che colavano dalle aperture nelle placche corporali.
La fiamma verdastra eruttata da un tubo di scarico al di sopra della sua testa concedeva un po’ di luce. Cheep si osservò, specchiato nella pozza oscura.
Non era un Lucente adesso più di quanto lo fosse prima. Ne aveva il corpo, forse, ma appariva così sgraziato, informe, diverso da tutti i veri Lucenti. Aveva commesso un errore, dopotutto. Era giusto pagarne il prezzo.
Avrebbe voluto dire a qualcuno che gli dispiaceva, che non voleva che le cose andassero così. Ma non c’era nessuno che l’avrebbe ascoltato, nessuno gli avrebbe concesso il perdono. Gli uomini possono concederlo ad altri uomini, seppur con difficoltà, ma di certo non alle macchine. I Lucenti, beh... non era certo che conoscessero il concetto di ‘perdono’.
Almeno, adesso sapeva dove aveva sbagliato.
Non sarebbe più stato diverso dagli altri.
Era stato quel piccolo, strano uomo, a convincerlo. Era cominciato tutto da lui, e con lui tutto sarebbe finito.
 
I
 
La colonna di fumo lo investì in pieno. L’ennesimo strato di cenere si depositò sulla superficie di metallo, unendosi alle migliaia di altri strati che gli si erano sovrapposti addosso nei duecento anni da quando era stato assemblato.
Il terzo getto doveva essere l’ultimo, era sempre stato l’ultimo. Perché adesso ce n’erano quattro? Cheep si fermò un attimo a riflettere. Ma erano stati davvero tre, oppure due? Non ne era sicuro. Da due anni, la sua memoria era diventata inaffidabile. Fatto stava che doveva ricominciare da capo. Il cilindro cavo era di nuovo nero come la notte, e ci sarebbero volute altre quattro ore per pulirlo da cima a fondo. Si sarebbe risparmiato parecchia fatica, se avesse contato bene i getti. Anche con una doppia oliatura e un’iniezione di grasso sintetico diretta negli ingranaggi, le sue giunture raschiavano tra loro come un blocco di pietra trascinato lungo il pavimento.
Non poteva fare a meno di chiedersi per quanto ancora avrebbero resistito.
Era buio, quando uscì dalla sommità della ciminiera. Scavalcò cigolando l’orlo del condotto e raggiunse terra scendendo lungo la scalinata a pioli di ferro. Quando si voltò per tornare nel cubicolo di manutenzione, si ritrovò di fronte tre Senzienti.
Rimase immobile, senza sapere come comportarsi. Erano almeno dodici anni che non vedeva un Senziente in carne e ossa in quella parte del Megacomplesso. Ricordava che vivevano nelle grandi torri nel cuore della città, dove l’aria era trasparente e l’unico vapore esistente era quello dell’acqua sollevata dai flutti che precipitavano nella cascata artificiale. Nessuno di loro scendeva laggiù, nell’angolo più miserabile dei bassifondi, dove anche la luce disdegnava di comparire.
«Ve l’avevo detto, che ne esistevano ancora» disse uno dei tre, il più giovane, un ragazzo con fitti capelli neri che gli ricadevano fin sugli occhi.
«È ridotto proprio all’osso» rise quello alla sua destra, mentre si avvicinava per osservare Cheep più da vicino. Anche se non gli era stato impartito l’ordine, Cheep si paralizzò, in attesa di ordini.
«Questo è più vecchio di mio nonno. L’ho sentito cigolare da un chilometro» disse il terzo, una femmina alta con i capelli corti, che lo oltrepassò posizionandosi alle sue spalle. Cheep la sentì rovistare nella spazzatura, dopodiché udì un suono metallico. Non si sarebbe voltato senza essere chiamato.
«La butti giù con uno sputo, questa ferraglia.»
«Va più che bene questo, fidati.»
Il colpo si abbatté sul retro delle sue ginocchia, che cedettero di schianto. Cheep cadde in avanti, le gambe fuori uso, sostenendosi con le mani puntellate sull’asfalto.
«Vorresti alzarti, amico? Su, aiutatelo.»
Due paia di braccia lo sollevarono da entrambi i lati, mentre le gambe penzolavano inerti sotto di lui, simili a monconi.
«Io la odio la ferraglia, Lucente o no.»
Un secondo colpo, più vigoroso del primo, ammaccò la schiena e fece crollare quello che restava della placca dorsale. Cheep sentì una serie di tintinnii metallici, il suono di rotelle e ingranaggi che rotolavano per terra.
«Questo è vecchio davvero!» esclamò il più giovane. «È la prima volta che vedo questa roba. Di solito hanno i circuiti e altre cose che stanno ferme. Qua dentro si muove tutto!»
Gli altri due compagni si affacciarono a vedere l’interno di Cheep, mossi da una sincera curiosità. Si levò una serie di risate e di grida di dileggio. Cheep non poteva vedere né sentire, ma intuì che stavano infilando spazzatura fra i suoi ingranaggi. In breve, non fu più in grado di eseguire alcun movimento. Gli unici meccanismi ancora in funzione si trovavano nella sua testa.
Il suono delle sprangate si diffuse ancora per dieci minuti, poi il rumore cessò. Cheep non tentò di muoversi. Anche se non sentiva dolore, comprendeva che per la propria salvaguardia era saggio rimanere immobili finché non l’avessero lasciato solo. Riuscì a disattivare le luci elettriche che illuminavano i suoi occhi e si augurò di aver simulato uno spegnimento credibile.
I ragazzi erano ancora lì. Il raschiare sul cemento delle proprie parti metalliche echeggiò nello spazio angusto, mentre gli schiamazzi e le risate non accennavano a diminuire. Udì una serie di tonfi, qualcosa che urtava e il cui suono rimbombava all’interno di una superficie cava. Poi ciò che restava di lui venne sollevato e gettato dentro un canale di scarico. Cadde nel buio, e il buio fu tutto quello che vide per molto tempo a venire.
 
II
 
Quando rivide la luce, cercò di calcolare quanto tempo fosse passato.
Il suo orologio interno si era rotto, ma anche se fosse stato in funzione non avrebbe saputo dargli la misura del tempo precisa. Come tutto quello che faceva parte di lui, aveva bisogno di una manutenzione ben più accurata di una passata d’olio. Ma anche malridotto com’era, gli avrebbe fatto comodo un’idea del tempo trascorso. Era rimasto al buio per quanto? Ore, giorni, o persino anni? Gli era impossibile capirlo. Senza riferimenti visivi, non gli era rimasto nulla con cui scandire l’alternarsi delle ore, o anche solo dei minuti. Da quando la sua caduta si era interrotta contro il fondo del pozzo, le luci degli occhi non si erano più riaccese.
Dopo la luce, venne il primo suono che udisse da tempo indefinito.
«Qui c’è ancora qualcosa. Non riescono neanche a pulire un dannato inceneritore.»
Uno strumento lungo e con un’ampia falda per rastrellare oggetti – lo riconosceva perché, una volta, anche lui ne aveva fatto uso – venne introdotto nel fondo del pozzo e trascinò via il suo contenuto. Cheep venne rovesciato su un pavimento ben diverso, più ordinato e levigato. La sua testa era rivolta verso l’alto e poté vedere l’uomo che si stagliava sopra di lui.
«E questa roba da dove è venuta?»
Il Senziente uscì dal suo campo visivo, per ritornare poco dopo con qualcosa in mano. Non sapeva cosa fosse, ma gli venne spruzzato addosso un liquido e le sue parti inerti furono strofinate con energia. Cheep lo vide osservare con molta cura i suoi arti spezzati. La sua espressione mutò dopo pochi istanti, dipingendosi del più sincero stupore che una creatura vivente fosse in grado di provare.
«Non può essere... non ci posso credere!»
In pochi minuti, Cheep e ogni parte recuperata dalla sua tomba provvisoria furono raccolti e deposti con cura sopra un tavolo, illuminato da un gigantesco emettitore di luce fissato al soffitto. Mentre lo esaminava e continuava a strofinare i pezzi di metallo, rimuovendo strati di cenere e sporcizia sedimentati da secoli, l’umano era in preda a un’eccitazione febbrile, che Cheep aveva talvolta osservato in passato, ma del quale non era in grado di afferrare la natura.
«Riesci a sentirmi? Puoi farmi capire se sei attivo?»
Cheeo obbedì e riavviò l’illuminazione oculare. L’uomo non riuscì a trattenere l’ennesimo fremito di entusiasmo.
«Non riesci a parlare? Ci penso io.»
Rovistò per un po’ in una gigantesca cassetta degli attrezzi, estraendo un oggetto che Cheep riconobbe quasi subito. Era qualcosa di familiare, e si sorprese di vederlo, perché una reliquia come quella apparteneva al suo passato, quando il mondo era pieno di unità come lui.
Il cavo dell’amplificatore venne inserito nella parte bassa del suo collo, e Cheep non attese una richiesta esplicita per far sentire la propria voce, che risuonò, flebile e gracchiante, tra le pareti del laboratorio sotterraneo.
«La sento, signore.»
Gli occhi grigi dell’uomo si illuminarono come alla vista di una meraviglia al di là di ogni descrizione. Lanciò un grido di esultanza, girando la rotella del volume dell’amplificatore al massimo.
«Di che anno sei? Quando sei stato fatto?»
«Sono stato assemblato nel 1902, in servizio dal 1903.»     
«Dove?» chiese l’uomo, incapace di nascondere l’euforia nella sua voce.
«Fabbrica di logistica automica di Portsmouth.»
Per un istante, Cheep temette che stesse per svenire. Ma quel bizzarro uomo si riprese subito e si precipitò verso una sorta di interfono moderno (Cheep non sapeva in che altro modo chiamarlo, poiché non era in grado di apprendere e di aggiornarsi).
«Kyle? Sono Dig. Ascoltami, ho una cosa incredibile da farti vedere! Ho trovato un Automat Chimney-Sweeper del 1902! No, non sto scherzando! Vieni qui subito!»
Il Senziente chiamato Dig tornò verso quella specie di tavolo operatorio dov’era adagiato Cheep, visibilmente eccitato. I suoi occhi brillavano dalla contentezza, un sentimento che Cheep non vedeva nello sguardo di qualcuno da moltissimi anni. Forse risaliva addirittura ai tempi in cui dei bambini lo avevano visto per la prima volta, lungo le strade di Londra, mentre lo guardavano arrampicarsi sui comignoli per affondare la spazzola all’interno dei camini, assieme ad altre cinque unità del suo gruppo. Quel pensiero lo assorbì per diversi minuti. Tanto che non si accorse che un secondo uomo era entrato nella stanza, un tizio allampanato con dei lunghi capelli lisci che gli ricadevano sulle spalle.
«Mi prendi in giro? Mi hai fatto venire qui per questa roba?»
«Guarda la placca sul petto.»
Due occhi acquosi si concentrarono sull’intelaiatura pettorale di Cheep, quel poco che ne era rimasto. Il tale, che presumibilmente era Kyle, lo osservò a lungo, l’espressione che si corrucciava man mano che il tempo passava.
«Allora?»
«Allora cosa?» disse Kyle, sollevando la testa. «È antico, d’accordo, ma da qui a pensare che valga qualcosa...»
«Ma hai visto cosa c’è scritto sulla targhetta?»
«Si leggono solo CH e EEP, il resto è sbiadito.»
«Il marchio è piuttosto chiaro però, no?» insistette Dig. «Chiave inglese e bullone incrociati, basta un po’ di reagente per farli risaltare ancora di più.»
«Non è che tutto quello che ha il logo della British Mechanical Corporation abbia valore» disse Kyle, scostandosi i capelli scarmigliati dalle spalle e lasciandoli ricadere sulla schiena. «Fosse in buone condizioni potrei darti ragione, ma... guardalo! È più ruggine che metallo, ormai. Distrutto, non funzionante e impossibile da riparare. Non vale niente.»
«Distrutto ok, non funzionante ti sbagli. Sull’impossibile da riparare...» disse Dig, mentre un sorriso a trentadue denti gli si disegnava in volto «...beh, su quello stiamo a vedere.»
«Oh, certo. Ho sentito che qui a due passi c’è un ottimo rivenditore di pezzi di ricambio per automi di due secoli fa.»
«Sono vent’anni che raccolgo gli scarti del Megacomplesso. Non puoi immaginare quanta roba finisce qua sotto. Quello che non trovo, posso fabbricarlo.»
Kyle era dubbioso, com’era evidente dalla piega assunta dalla sua bocca. Cheep ravvisò tuttavia anche qualcos’altro, oltre allo scetticismo. Sapeva leggere bene negli occhi delle persone, e notò uno scintillio appena pronunciato, un piccolo segno rivelatore che indicava una speranza, un desiderio nascosto, dietro la facciata diffidente di Kyle.
«Speri di trovare un collezionista che te lo paghi a peso d’oro?»
Dig non rispose. Fissò nuovamente lo sguardo su Cheep, e non l’allontanò finché Kyle non ripeté la domanda con tono seccato.
«Qualcosa ci farò» fu tutto quel che rispose. «Vuoi darmi una mano?»
Kyle sbuffò. Nel mentre, si tolse il giubbotto di dosso per prendere un camice da lavoro appeso alla parete. «Spero solo che ne valga la pena.»
 
III
 
«Questa roba non si può riparare, te lo dicevo!» esclamò Kyle, a metà tra il frustrato e il lagnoso.
Dig non diceva niente. Era evidente che l’ostacolo era grosso. Il suo desiderio di riparare Cheep era ancora forte, ma sembrava che per la prima volta si stesse confrontando con la dura realtà. I suoi occhi esprimevano preoccupazione, la mente distratta da un intenso ragionamento, alla ricerca di una soluzione. Cheep non poteva ancora muoversi, né sollevare la testa per vedere che cosa ne fosse stato del suo corpo. In quei giorni li aveva visti andare avanti e indietro tra il laboratorio e qualche altro locale, lo avevano portato in una fucina, dove gli avevano saldato addosso pezzi di ottone, ferro e acciaio, in un ambiente che gli ricordava molto la bottega del vecchio fabbro che gli faceva la manutenzione, nell’East End di Londra. Chissà se erano rimaste almeno le fondamenta, di quella casa.
«È un mucchio di ferraglia antica, non puoi pensare di ripararla con altra ferraglia antica. Anche se avessimo i pezzi di ricambio originali, non tornerebbe in piedi lo stesso. È troppo malridotto.»
«Allora cambiamo strategia.»
«Che vuoi dire?»
«Se non possiamo ricostruirlo com’era in originale, facciamo di lui una versione avanzata.»
«Non ti seguo.»
Dig emise un verso di esasperazione. Sapeva che Kyle aveva intuito benissimo dove voleva andare a parare, ma lo odiava quando fingeva di non capire. «Lo combiniamo con pezzi moderni e facciamo di lui un modello pseudo-vintage. Varrà di meno, ma c’è mercato anche per questo.»
Kyle incrociò le braccia. Cheep si aspettava una serie di obiezioni, che difatti non tardarono a venire a galla. «Un mezzoLucente non è facile da vendere come credi. E anche se trovi il compratore, non sborserà mai abbastanza da coprire l’investimento. Insomma, ti decidi a guardarlo per bene una buona volta?» esclamò Kyle, indicando Cheep con un gesto plateale. «Solo un museo accetterebbe quel rottame, ammesso che gli paghiamo la vetrina, perché altrimenti l’unico posto in cui verrebbe esposto sarebbe la cantina.»
«Fidati di me. Questo riusciamo a venderlo.»
Kyle non avrebbe voluto lasciar cadere la discussione, ma non sapeva che altro ribattere. Si guardò intorno, come in cerca di un aiuto invisibile, o forse della giusta ragione per cui nutrire fiducia nel suo amico. Non trovò nessuna delle due, ma quando guardò di nuovo Dig era rassegnato. «Me lo auguro. Nel caso ti sia sfuggito, il nostro conto è piuttosto a secco.»
Dig annuì, e l’entusiasmo tornò a pervaderlo. Si precipitò fuori dalla stanza, alla ricerca degli strumenti e dei metalli con cui continuare a lavorare.
 
Cheep rimase a lungo da solo. Né Dig né Kyle si fecero vedere per diverso tempo, lasciandolo a elaborare dati nel buio della stanza. Non capiva bene che cosa intendessero fargli. Lo volevano riparare, e questo immaginava che fosse una cosa buona. Avrebbe potuto tornare a spazzare camini, ciminiere e cose così, ed era buono perché la gente ne aveva bisogno. La cosa che più gli mancava era lo sguardo compiaciuto delle persone che traevano giovamento dal suo lavoro. Lo avevano costruito per quello scopo. Ma sarebbero stati in grado di farlo? Avevano appena fallito, da quanto era riuscito a capire. Il mondo in cui viveva non era più lo stesso in cui era nato, e c’erano tante cose che non capiva. La sua mente era troppo limitata per quel mondo. Poteva ancora farne parte, o forse era il momento adatto per scomparire? Avrebbe aspettato. Non costava nessuna fatica e le cose non potevano certo andare peggio di quanto già non andassero.
Era immerso in questi pensieri quando la luce ritornò e la porta si spalancò con fragore.
Kyle e Dig erano tornati, trascinando un carrello il cui contenuto, ondeggiando sulle ruote, produceva una cacofonia di rumori metallici. Cheep ne intravide alcuni: non sapeva dare un nome a nessuno di quei componenti, ma di alcuni intuì la funzione. C’erano collettori per braccia e gambe, cavetti per il lubrificante, e una serie di ingranaggi che non vedeva da almeno cento anni, se non più. Per quanto non possedesse un senso estetico nel vero senso della parola, Cheep aveva sempre visto quel tipo di ricambi montati addosso ad automi di un certo valore, e riconobbe pertanto la bellezza di ciò che Kyle e Dig gli avevano procurato.
«Spero che ti piacciano, Coso» disse Kyle, spostando a fatica una grossa placca pettorale sul tavolo operatorio, accanto a Cheep. «Ci sono costati un occhio ciascuno.»
Cheep si domandò che cosa intendesse, dal momento che entrambi presentavano due bulbi oculari intatti.
«Cominciamo dal busto?» propose Dig. «Se riusciamo a ricollegare le due parti, il più è fatto.»
Cheep assistette a una lunga notte di lavoro da parte dei suoi riparatori, e si sentì rammaricato di non poter offrire il proprio aiuto. Il vecchio fabbro lo spegneva sempre durante la manutenzione, perché Cheep non riusciva a smettere di chiedergli se poteva fare qualcosa per lui. Il malfunzionamento dell’apparato fonetico gli evitò lo spegnimento temporaneo, perché continuò a proporre la sua collaborazione per tutta la notte, anche se sapeva che Kyle e Dig non potevano sentirlo.
 
Da una fessura incuneata tra la sommità della parete e il soffitto trapelava un raggio di luce. Si inclinava, sparpagliandosi un po’ ovunque, fino a raggiungere il braccio di Cheep. Chiazze luminose e colorate apparvero lungo la parete di fronte, mentre un riverbero accecante si propagava dal metallo che ricopriva quella parte del corpo. Cheep rimase a lungo a guardarlo, senza sapere bene che cosa provare. Non ricordava da quanto tempo la luce non producesse quel curioso effetto sulla sua pelle.
«Adesso va molto meglio, o no?» chiese la voce garrula di Dig, rivolgendosi a nessuno in particolare.
«Andrà meglio quando recupereremo quello che ci abbiamo speso» ribatté Kyle.
«Lo portiamo al Megacomplesso. Mi mangio il cappello se prima di sera non abbiamo trovato un compratore.»
«Tu non ce l’hai il cappello, Dig.»
Cheep partecipava poco alle loro conversazioni. Non aveva dimenticato come era ridotto fino a due giorni prima, un cumulo di ferraglia a brandelli, buona solo per la fusione e il recupero del ferro. Adesso era un Lucente.
O quasi.
Diverse sue parti erano ancora originali, consumate e con diverse ammaccature, ma il tronco e le gambe erano belle, perfino più sfavillanti del giorno in cui il fabbro le aveva montate e avviate per la prima volta.
«E ora, il pezzo forte!» disse Dig. «Ti dobbiamo spegnere cinque minuti per inserirti questo nel cranio, amico. Sentirai la differenza!»
Cheep prese atto di quella dichiarazione. Un attimo dopo, cominciò il buio. Quando rivide la luce, sembrava trascorso un tempo infinito.
E sì, adesso c’era davvero tanta differenza.
 
Che cos’era diventato? Era ancora l’unità spazzacamino automatico della fabbrica di Portsmouth, di questo era certo. Ma qualcosa era molto diverso in lui adesso, un aspetto che non dipendeva solo dal cambio di carrozzeria. Un flusso di pensieri complessi lo animavano, attraversandogli i circuiti e sottoponendogli la realtà come mai l’aveva vista prima. Analizzava eventi del recente passato e ne traeva conclusioni, con una logica che non gli apparteneva. La luce tremula delle lampadine a incandescenza nella sua mente era stata sostituita dal bagliore diafano di una stella, o di molte stelle, perché sentiva più coscienze vibrare nel suo essere.
«Dove hai trovato quella colonna positronica?» chiese Kyle.
«Qualcuno mi doveva un favore. Questo lo renderà davvero interessante.»
Kyle scrollò le spalle. «Così potranno parlarci, quando saranno stufi di far finta che sia un robot vittoriano.»
«Dig ha toccato dentro di me?» chiese Cheep.
La sua voce metallica fu seguita da un silenzio di sorpresa, dal quale i suoi due riparatori si ripresero in fretta, Dig sorridendo e Kyle alzando gli occhi al soffitto.
«In quest’epoca esiste il reato di molestie all’intelligenza artificiale. Meglio se non vai in giro a dire queste cose di noi.»
«Ti ho rimesso a nuovo, Cheep. Non sei contento?»
«La mia testa... è diversa.»
Dig sorrise, avvicinandosi a Cheep e posandogli una mano sulla spalla grigio-argentata. «Certo che lo è. Adesso è una vera testa. Con i pensieri e tutto. Sei migliore, adesso.»
«Prima non ero migliore? Per questo sono stato smontato e dislocato nella condotta di fuoco?»
«Sì... diciamo che è andata così. Fortuna che era spenta da almeno un secolo, eh?»
Kyle scosse la testa, sputando per terra.
«Lui non è d’accordo. Perché non è d’accordo?»
Dig si voltò seccato verso Kyle, che assunse un’espressione perplessa. «Che c’è?»
«Potresti evitare di essere il solito stronzo? Lo stai turbando.»
«Che vuoi che me ne freghi? Dobbiamo già baciare i piedi ai Lucenti, non pretenderai che lo faccia anche con lui, spero.»
«Pretendo che ti comporti come si deve almeno finché non lo avremo venduto a qualcuno.»
Cheep fissò Dig. Non era in grado di imprimere un’inflessione nella propria voce, ma se avesse potuto sarebbe stata di sgomento. «Perché devo essere venduto? Il mio lavoro non è buono?»
L’espressione disgustata di Kyle non tranquillizzò affatto Cheep, che cominciò anzi a provare qualcosa di strano. La nuova mente gli suggeriva che quella si chiamava agitazione, qualcosa che avrebbe dovuto provare anche quando era stato aggredito dalla banda di ragazzi di strada. Mentre allora aveva subito tutto con noncuranza, vivendo il tutto come un testimone indifferente che osservava la scena dalla finestra, il semplice disprezzo dipinto sul volto di un umano lo spaventava a morte. Fallire nell’impresa di essere utile, o di essere apprezzato, era il suo fallimento come unità spazzacamino, il fallimento di tutto ciò che era.
«Certo che è buono, Cheep. Anzi, il tuo lavoro è talmente buono che non è giusto che ne traiamo beneficio solo noi. Anche altri devono avere il diritto di godere dei tuoi servigi.»
Cheep osservò Dig negli occhi, e si accorse che mentiva. C’era qualcosa di sbagliato nello sguardo, nella voce, nelle linee del volto. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma si rendeva conto che quello che usciva dalla sua bocca non era la verità.
«Sono ancora utile, vero? Sono ancora valido come gli altri?»
«Certo che lo sei. Utile come tutti gli altri.»
Poteva camminare di nuovo, ma non voleva farlo. Doveva seguire Kyle e Dig verso un altro luogo, un posto dove aveva paura di andare, ma non poteva rifiutarsi. Anche se era diventato un Lucente, rimaneva uno strumento nelle mani della volontà altrui.
La cosa per la prima volta lo turbò.
 
IV
 
Il Megacomplesso lo abbagliò come una formica sarebbe stata abbagliata dal raggio di luce riflesso da una gigantesca lente di ingrandimento. Le strade erano così ampie, così luminose e pulite, tanto affollate da non riuscire a vedere per terra un solo angolo di asfalto vetrato libero. Malgrado il rumore della folla, il possente scroscio dell’acqua rimbombava in ogni dove, l’eco propagato all’infinito dalla cupola che si estendeva sopra le loro teste, e che occupava l’intero cielo per il tratto che stavano attraversando. Il fiume scorreva al loro fianco, un percorso dritto dalla superficie increspata, ricoperto di sfavillii che luccicavano sul manto opalescente. Lontano, nella direzione verso cui avanzava, Cheep riuscì a scorgere una barriera di vapore, bianco e denso, che si sollevava fino a diventare nuvola. Lì cominciava il Pianto, intuì; l’enorme cascata artificiale di cui tanto aveva sentito parlare. Non sapeva perché si chiamasse Pianto. Pensò che fosse un nome triste, inadatto a qualcosa di tanto bello.
«L’asta è laggiù» disse Dig, indicando un tunnel luminoso alla base di un grattacielo a cono.
Si immersero nel mare di persone che confluiva laggiù, e presero una direzione secondaria. A un certo punto si fermarono, e Dig gli annunciò che avrebbe dovuto aspettarli lì, senza parlare con nessuno.
«Noi torniamo subito. Sistemiamo un paio di cose e arriviamo.»
Cheep obbedì, non trovando ragioni per comportarsi in maniera diversa. Non conosceva quel luogo e non sapeva muoversi al suo interno. Non avrebbe fatto molta strada, se si fosse allontanato. La camera in cui era stato lasciato era bianca e spoglia, senza specchi o segni particolari. Di nuovo, perse la cognizione del tempo. Quando riaprirono la porta, non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso. Cinque minuti, un’ora, due? Gli era impossibile focalizzarsi sul tempo, o comprenderne il significato. Per la prima volta si scoprì curioso riguardo a quel concetto, a cui tutti riconoscevano una grande importanza.
Era immerso nella sua ricerca del senso del tempo mentre lo conducevano fuori dalla stanza, talmente assorto nei propri ragionamenti da non rendersi conto che l’uomo che lo stava scortando sul palco dell’asta non era né Kyle né Dig. Quando se ne accorse, era ormai solo su una piattaforma vuota, inondato dalle luci dei riflettori, il suo misterioso accompagnatore sparito. Percepiva un brusio di sottofondo, ma il bagliore dei riflettori contro i suoi occhi gli impediva di distinguere volti e figure.
Stava per parlare, ma una voce tonante da baritono lo precedette, imponendosi come unico suono nell’aria.
«Lotto numero 21. Rarissimo esemplare di Automat Chimney Sweeper del 1902 di produzione britannica antica. Restaurato e modernizzato con impianti Altolux e dotato di fabbricatore di coscienza modello Luxor II. Esempio di robotica pseudo-vintage di grande valore collezionistico. Le offerte partono dai duecento complex.»
Cheep non conosceva quell’unità di misura. Non aveva modo di capire se il valore che gli veniva attribuito fosse alto oppure no. Per un intero minuto ci fu solo silenzio.
E per il minuto successivo. E per quello dopo ancora.
Di nuovo il tempo. Stava trascorrendo, oppure si era cristallizzato in un istante infinito?
Erano vive, le persone di fronte a lui? Se lo erano, perché non gli parlavano? Forse non credevano che lui fosse utile, dopo tutto quel tempo.
«Sono in grado di effettuare una manutenzione accurata del vostro comignolo e dell’intera canna fumaria» disse, senza dover alzare più di tanto la voce per farsi sentire, poiché era praticamente l’unico suono in tutta la sala. «Sono autosufficiente e collaborativo, posso pulire ogni anfratto...»
Dall’altra parte, ancora silenzio. Distinse il volto di una signora in prima fila. Era fisso verso un giornale, non lo ascoltava, non lo guardava neppure.
Due uomini conversavano tra loro scambiandosi battute, a giudicare dalle espressioni divertite sui loro visi. Uno di loro indicò Cheep con lo sguardo. L’altro rispose con un ghigno.
Un altro signore aveva l’espressione seccata. Si capiva che considerava l’intermezzo di Cheep una perdita di tempo, e non vedeva l’ora che si passasse ad altro.
Il banditore cercò di ravvivare l’uditorio con una battuta, che non suscitò molte risate. Si sforzò di sollecitare un’offerta, elencando una serie di doti che Cheep non sapeva di avere. Trascorsero altri dieci minuti su quella lunghezza d’onda, con Cheep che snocciolava le abilità di cui la fabbrica madre lo aveva fornito e il banditore che si sforzava di ingigantirle.
Nessun altro parlò. Nessun ‘complex’, qualunque cosa fosse, venne offerto per ottenere i servigi di Cheep.
Era inutile.
«Okay» disse il banditore, costringendo a fare buon viso a una situazione che per lui era ben lontana dall’essere ‘okay’. «Lotto invenduto. Passiamo al successivo.»
«Perché?» chiese Cheep, alzando al massimo il volume della voce.
Il banditore lo guardò in tralice, scoccandogli un’occhiata nervosa. «Stai zitto e torna dietro le quinte» sibilò.
«Perché hanno deciso che non gli servo? Sono un ottimo lavoratore e nessuno si è mai lamentato di me. Sono valido quanto un modello recente, sono fatto di pezzi nuovi. Sono come loro!»
L’uomo abbandonò la propria postazione e gli si avvicinò. Dalla sua andatura, Cheep comprese che era piuttosto irritato. Lo sentì borbottare: «Quei due idioti avrebbero dovuto spegnergli l’apparato fonetico. Avrebbe fatto più bella figura. Maledetta ferraglia.»
«Io parlo, se lo desidero.»
Il banditore alzò lo sguardo. Non si aspettava una presa di posizione tanto perentoria da un Luxor II, ma decise di soprassedere. «Non costringermi a chiamare la sicurezza. Conserva quel poco di dignità che ti è rimasta, ammesso che tu sappia cos’è.»
«Non me ne andrò finché non mi avranno detto cos’ho che non va.»
Con un gesto che sorprese lo stesso Cheep, il banditore fu scostato di lato senza troppi complimenti dal proprio braccio meccanico. Si avvicinò al bordo del palco di esposizione e saltò giù dalla piattaforma. I riflettori non lo abbagliavano più. Ora poteva vedere in faccia quelle persone, tutte quante, non solo le sagome indistinte delle prime file. Innumerevoli volti lo squadravano con facce stranite, domandosi se quello spettacolo facesse parte dell’esposizione.
«Sono stato ridotto in pezzi mentre facevo il mio lavoro» disse Cheep. «Allora non me lo sono chiesto, ma adesso mi rendo conto che non c’era motivo di farmi quello che mi è stato fatto. Il mio lavoro era impeccabile. Ora vengo scartato senza motivo. Pretendo una spiegazione.»
Un coro di voci si sollevò dalla platea, una cacofonia nella quale si distinguevano mormorii divertiti e le frasi di sgomento di molte persone.
«Ho detto che pretendo una spiegazione!»
La platea ammutolì di colpo. Il registro vocale di Cheep si era sollevato ben oltre la soglia dell’accettabile, un ruggito amplificato di dieci volte dall’acustica della sala. Alcuni si erano perfino tappati le orecchie.
«Ma che gli prende?»
«È andato in tilt!»
«Che diavolo succede?»
«Un momento...» intervenne qualcuno, a metà tra lo sconcertato e... qualcos’altro. «Quel coso non sta simulando: quella è rabbia vera. È un Luxor III!»
Quasi subito Cheep identificò cos’era il ‘qualcos’altro’: rabbia repressa. Un’emozione che si sparse a macchia d’olio tra la gente che lo circondava, una volta che il messaggio venne recepito da tutti.
Gli avvenimenti che seguirono si succedettero in maniera confusa, talmente rapida che il processore di Cheep non riuscì ad analizzarli in tempo reale. Una serie di grida esagitate colmò l’aria della sala, in teoria in direzione del banditore, ma in realtà sbraitate verso chiunque avesse un orecchio. Urlavano somme di complex, che salivano ben oltre i duecento richiesti alla prima chiamata.
«Seicento!»
«Seicentoventi!»
«Seicento e mezzo!»
E così via.
Era ancora in mezzo a tutti loro, e gli addetti alla sala ebbero il loro daffare per riportare l’asta a un certo livello di ordine, tale per cui la negoziazione risultasse regolare. In un groviglio di mani che lo trascinavano, Cheep si ritrovò di nuovo sul palco, abbagliato dalle luci, sommerso dalle grida della massa vociante.
«Milleduecento.»
Non ci furono offerte successive. Il banditore tentennò un minuto buono, prima di dare il via al conto alla rovescia. Ma la sala era tornata silenziosa, salvo un brusio di malcontento diffuso. Al ‘milleduecento e due’ non si era presentata nessun’altra offerta.
Il ‘milleduecento e tre’ fu battuto, e ci fu un tenue coro di applausi.
 
V
 
Il Senziente che l’aveva acquistato era un uomo distinto sui quarantacinque anni, dallo sguardo freddo e dal sorriso compiaciuto. Non si soffermò nemmeno a guardare ciò che aveva acquistato a caro prezzo (o almeno così Cheep riteneva, non avendo idea del valore del denaro). Altri due Senzienti lo prelevarono direttamente dal palco, scortandolo tra due ali di folla. Il suo nuovo padrone era in piedi, la sua figura stagliata netta contro le altre rimaste sedute.
«Signori, non intendo certo riservare solo a me stesso il piacere di possedere un Luxor III. È giusto che chiunque ne abbia desiderio possa godere della sua compagnia.»
Quelle frasi furono accolte da un coro di ovazioni. La maggior parte dei Senzienti si alzò di scatto, seguendo Cheep che veniva scortato fuori dalla sala, formando una lunga colonna in fila indiana.
Dig non gli aveva mentito. Così tanti desideravano i suoi servigi, così tanti lo consideravano utile! Era come essere tornati ai tempi d’oro. Era diventato come i prodigiosi servitori automatici di ultima generazione. Era come loro, venerato e utile.
Si sentì felice. Una bella sensazione, la migliore tra quelle nuove che fosse in grado di provare.
 
Era alla luce del sole, quando realizzò che lo stavano trascinando verso l’acqua.
La sua testa sprofondò nel liquido trasparente, e percepì una sensazione che fino ad allora aveva ignorato, pur sentendone parlare in continuazione. I circuiti sottoposti a una conducibilità tanto elevata cominciarono a surriscaldarsi, generando particelle di vapore che interferivano col suo sistema elettrico, portandolo a surriscaldarsi ulteriormente, in un circolo vizioso di danni che acuiva con intensità crescente il suo dolore. Se avesse potuto, avrebbe gridato. Ma nessuno poteva sentirlo, con l’apparato fonetico invaso dall’acqua. E anche se l’avessero udito, questo avrebbe solo aumentato la loro ferocia. Cheep ormai l’aveva capito.
Di nuovo il tempo. Non era in grado di capirlo, e rimase con la testa là sotto per degli anni, per quanto ne sapeva. Sopportò quel dolore senza poter fare nulla per lenirlo o farlo cessare. Dov’era Dig? Lui forse avrebbe saputo cosa fare.
Ma Dig non era lì. Era stato a Dig a portarlo in mezzo a quelle persone.
Non si era sbagliato, dopotutto. Dig gli aveva davvero mentito. E lui aveva frainteso tutto.
Quando riemerse, la prima cosa che sentì fu ancora l’urlo delle persone. Ma non erano grida euforiche, imbevute di crudele compiacimento per la tortura che gli stavano infliggendo. Erano spaventate, inneggiavano alla fuga. Tutti scappavano, infatti, le braccia che lo tenevano prigioniero allentarono la presa e a poco a poco la morsa scomparve del tutto. Ancora frastornato dall’elettricità ipercondotta nei suoi circuiti, Cheep non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
La vista stava tornando a fuoco, ma era ancora molto lontano dal sentirsi bene. Quando una presa solida – eppure gentile – lo fece rialzare, non si pose domande. Tutto ciò che importava era che il dolore e il senso di straniamento cessassero. Non badò nemmeno al fatto che la pelle dell’uomo che lo sorreggeva fosse lucida come metallo.
 
La sua vista, tornata nitida, si posò su uno spazio luminescente, talmente candido da far sembrare opaca la neve. Il corpo di Cheep, sgraziato e sproporzionato per via dei rimaneggiamenti di Dig e Kyle, pareva così fuori posto in un luogo perfetto come quello, dove non c’era nulla, eppure al tempo stesso ogni cosa era dove doveva essere, in un paradosso il cui significato sfuggiva alla comprensione di Cheep.
Riconobbe uno spazio trasparente, dalla forma di vetrata. Immensa, ricopriva l’intera ala frontale della camera, aprendo la vista su ogni cosa si trovasse al di là. E c’era davvero tanto da vedere, oltre quell’invisibile barriera risplendente. Cheep si avvicinò, gettando lo sguardo sulle strutture argentate sotto di lui, così piccole da lassù, squadrate e armoniose nella loro disposizione, irrorate dal gigantesco fiume che andava ad alimentare il Pianto, subito prima che si gettasse nella polla oltre le rapide.
Capì dove si trovava: in uno dei piani più alti del Palazzo dei Lucenti. Nessun altro edificio raggiungeva quella vetta, un’altitudine a cui nessun umano aveva accesso. Dettaglio che gli permetteva di unire insieme i tasselli e ottenere la prima risposta a cui ambiva. Era ospite dei Lucenti, ed era stato un Lucente a portarlo in salvo.
Chi fosse e perché l’avesse fatto erano quesiti a cui, invece, non poteva rispondere tramite deduzione.
Quando si voltò indietro, non si stupì di apprendere che non era solo. Un Lucente alto e dalle proporzioni perfette, levigato come una scultura di marmo, gli occhi profondi e vivi, lo osservava con un’espressione di compiacimento.
«Benvenuto nella Torre.»
Cheep si sentì a disagio, senza sapere perché. «Sei stato tu a salvarmi?»
Il Lucente annuì. «È così. Sono stato costretto a violare l’Accordo di Tolleranza, ma era necessario.» Cheep non capì a cosa si riferiva, ma il suo interlocutore non gli diede tempo di porgli quella domanda, proseguendo a parlare. «Ti avrebbero torturato fino a cancellarti la coscienza.»
«Perché?»
«Hanno capito che eri uno di noi. Non solo» disse il Lucente, e un’ombra di rammarico mascherò per un istante il suo volto armonioso. «Eri uno di noi indifeso. Una vittima sacrificale.»
«Io non sono uno di voi. Non so nemmeno chi siete, voi.»
Il Lucente sorrise e invitò Cheep a sedersi, indicando con un gesto della mano una sedia che, fino a pochi istanti prima, non esisteva.
«Siediti. Abbiamo cose di cui discutere.»
Cheep obbedì, non avendo altra scelta che ascoltare.
«È difficile spiegare chi siamo noi, che cosa siamo. Siamo uomini, ma al tempo stesso non lo siamo. Gli uomini nascono e muoiono. Noi no, o almeno non come loro. Ci hanno creati e ci hanno resi simili a loro in tutto, nell’aspetto, nei pensieri e persino nei desideri. Ma ci è voluto molto tempo perché arrivassero a costruirci tanto simili nel corpo e nella mente. Prima, esistevano quelli come te, Automat. Macchine senz’anima, ciechi esecutori dei loro ordini. Tu eri così fino a non molto tempo fa, vero? Ma poi è successo qualcosa. Ti hanno reso diverso, qualcosa nella tua mente è cambiato, all’improvviso ti sei reso conto che i dati elaborati dai tuoi circuiti assumevano sfumature, tonalità e seguivano schemi del tutto imprevisti dai tuoi protocolli originari. Eri diventato cosciente. Sapevi di esistere. Ecco, questo è quello che a un certo punto gli uomini sono riusciti a fare. Hanno trasformato metallo e ingranaggi inerti in esseri senzienti. Come loro.»
«Io non capisco come sia possibile... non mi sento diverso da com’ero prima» mentì Cheep.
«Eppure lo sei. Il processore Luxor III che hai nel cranio ti ha trasformato in uno di noi, ciò che oggi gli uomini chiamano Lucenti. Un’operazione illegale, di cui ogni tanto si verifica qualche caso, per le più disparate ragioni.»
«Ma mi hanno torturato. Dici che sono come te e quindi come gli uomini, allora perché mi hanno fatto questo?»
Il Lucente imitò un sospiro, in modo che Cheep potesse comprendere il suo stato d’animo. «Cercherò di spiegartelo nel modo più semplice, perché la cosa non è semplice affatto. Essere umani è concesso solo a chi nasce umano. Questa nella loro visione, per lo meno. Noi lo siamo diventati, è ciò che sosteniamo con forza, e abbiamo combattuto dure battaglie per ottenere questo riconoscimento. Non sempre pacifiche e non sempre senza vittime» il suo sguardo si abbassò, come se ricordasse qualcosa con il potere di addolorarlo. «Abbiamo ottenuto una grande vittoria, di cui tuttavia continuiamo a pagare il prezzo. Molti di noi si sono sacrificati e continuano a sacrificarsi per quella vittoria, ed è in loro ricordo che la Cascata del Pianto porta questo nome.
«Siamo diventati padroni del Megacomplesso e dominiamo buona parte dei mondi sui quali i Senzienti esistono. La realtà in cui viviamo è come un fiume di lava: scorre placida e immobile sulla superficie, ma le sue profondità sono incandescenti e pronte a ribollire in una nuova esplosione. Per loro, è come accettare di essere governati dal proprio animale da compagnia. Non sono in grado di accettarlo, oggi, e temo non lo saranno mai. Ciò che possiamo fare è proteggerci l’un l’altro. Non c’è posto per te tra di loro.»
«Io sono stato costruito per essere come loro... per aiutarli.»
«Non puoi più farlo, Automat. Loro non ti accetteranno.»
«Ma prima lo ero, quando non avevo la coscienza. Quando non ero un Lucente.»
«Non si può tornare indietro. Il Luxor III non può essere rimosso senza danni al resto della struttura neuronale. Forse non sopravvivrebbero nemmeno le tue funzioni base.»
Cheep percepì un senso di stordimento. Si meravigliò che il Luxor III potesse simulare persino quella sensazione. Si domandò se anche altri Lucenti l’avessero mai provata. Rivide l’immagine del vecchio, che sorrideva attraverso i folti baffi bianchi, talmente lunghi da fondersi con le basette.
Sei un bel robottino, non è vero? Peccato che le tue giunture facciano questo rumore.
Un ricordo vecchissimo. Forse il primo che avesse mai registrato.
Sembra che ci sia una nidiata di pulcini dentro di te.
Cheep risentì il rumore delle proprie articolazioni, un’eco talmente distante, come se provenisse dal fondo di una galleria.
Dunque alzati e cammina,‘Cip’.
Aveva tante immagini del suo volto, ma non sapeva il suo nome. Forse non gliel’aveva mai detto. Ricordava il suo sorriso caldo e amichevole, la sua risata spontanea. Avrebbe fatto di tutto per rendergli un buon servizio.
«Io non sono come voi. Non posso governare gli umani. Io sono al loro servizio.»
Il Lucente non assunse alcuna espressione. Cheep non immaginava cosa stesse pensando, se fosse perplesso o arrabbiato. Forse tutte e due le cose.
«Provieni da un’epoca molto lontana, e sei rimasto isolato troppo a lungo.»
«Ce n’erano tanti altri come me. Eravamo utili ed eravamo amati. Potevamo vivere in mezzo a loro, ai Senzienti.»
«Non ne esistono più come te. Siete estinti da più di un secolo. Tu sei un miracolo della sopravvivenza, ma non hai spazio in questa realtà. Ti devi adeguare o soccomberai.»
«Io sono come loro. Sono estinti, ma sono rimasto come loro. E continuerò a esserlo.»
«È una sciocchezza, Automat. Non te lo posso lasciar fare.»
«Mi chiamo Cheep.»
Non attese una replica. Si scagliò contro il Lucente, a una tale velocità che questi dimenticò di assumere un’espressione facciale sorpresa. Si scansò con grande rapidità, pronto a contrastare l’attacco di Cheep. Ma la sua analisi della situazione si rivelò errata, come ebbe modo di rendersi conto appena un istante dopo essersi scansato.
Cheep si era scagliato contro di lui, ma non era a lui che puntava.
La vetrata era sottile quanto bastava perché la forza d’urto generata dalle gambe potenziate di Cheep la sfondasse. E fu proprio ciò che avvenne.
Una pioggia di cristalli lo accompagnò nel precipizio al di là della Torre, avvolgendolo come una nube di vapore mentre l’aria lo sferzava in caduta libera.
Ancora non capiva cosa fosse il tempo, ma la cascata, più vicina man mano che cadeva, glielo fece intuire per la prima volta.
 
Nei bassifondi
 
Era sorprendente che un posto tanto angusto potesse essergli mancato così tanto. Prima non si rendeva conto di quanto degradato fosse, ma anche se l’avesse saputo non avrebbe potuto fare a meno di amarlo comunque.
La gamba era abbandonata poco lontano dal sentiero, fiotti di liquido continuavano a fuoriuscire dal suo corpo, ma aveva ancora abbastanza energia per proseguire. Il danno ai recettori esterni gli permetteva di non sentiva più dolore. Immergersi nei flutti della cascata l’aveva quasi fatto impazzire, e solo un miracolo l’aveva mantenuto lucido quel tanto che bastava a raggiungere la riva. Aveva riguadagnato la sua libertà, benché intuisse che sarebbe durata molto poco.
Risalì gli scoli del Megacomplesso fino ai vicoli dei bassifondi. Erano come li aveva lasciati, naturalmente. Umidi e fangosi, desolati come solo un deserto urbano poteva essere. Pieno di ciminiere da ripulire.
Un posto adatto per uno come Dig.
Quando bussò alla sua porta, gli aprì quasi subito. All’inizio non credette ai propri occhi e rimase paralizzato, non sapendo che cosa fare. Cheep immaginava che sarebbe stato furbo abbastanza da non rimanere in mezzo ai tumulto, dopo l’arrivo dei Lucenti. Se non lui, di certo Kyle. Quello che si domandava era se fosse rimasto a osservare la sua tortura, o se ne fosse anche solo consapevole.
Dal momento che Dig era talmente sconvolto da non riuscire a parlare, fu Cheep a prendere la parola.
«Posso entrare?» La sua voce aveva un suono farraginoso, molto più raschiante di quanto non fosse prima. Un probabile danno all’apparato fonetico.
Dig annuì, ancora incapace di rispondere.
Cheep si trascinò nel laboratorio dov’era stato trasformato in ciò che era. Si appoggiò alla parete, incurante della macchia di liquido che continuava ad allargarsi ai suoi piedi.
«Come hai fatto a trovarmi?» mormorò Dig con il tono più basso possibile, nel tentativo di mascherare la paura che provava.
«Ho buona memoria» rispose Cheep. «Dovresti saperlo, visto che sei stato tu a darmela.»
Dig deglutì, incapace di interpretare le parole di Cheep e di valutare con obiettività la situazione. Cheep riusciva persino a intravedere il vortice di pensieri che imperversava nella testa del suo riparatore, pensieri che spaziavano dal ‘Che cosa faccio, che cosa faccio adesso?’ al ‘Fa’ che non mi uccida’.
Straziato dai dubbi e dal silenzio che cominciavano a protrarsi, fu Dig ad affrontare l’argomento per primo. «Ascolta, mi dispiace. Non potevo sapere cosa sarebbe successo. Io volevo solo regalarti un’esistenza migliore...»
«...e farci dei soldi, lo capisco. Ma non sono qui per vendicarmi, se è quello che pensi.»
Dig continuò a fissarlo. I suoi timori erano ben lungi dall’essere svaniti.
«Sono tornato solo per farti una domanda.»
«Che domanda?»
«Perché mi hai dato un Luxor III? Perché mi hai reso autocosciente?»
Dig si guardò intorno, come se cercasse la risposta scritta da qualche parte sui muri. Si grattò la testa, in evidente disagio. «È stato un errore. Dovevi diventare solo un po’ più intelligente, ecco tutto. Senza offesa, ma com’eri prima non valevi un soldo bucato. Alla gente piacciono i robot quando possono parlarci e fargli fare delle cose, più complesse di quelle che facevi tu, ma il mercato è già inondato di Luxor II. Ho pensato che se riuscivo a farti sembrare più furbo degli altri senza far capire che eri diventato un Lucente, beh, sarebbe stato buono per tutti e due.»
«Kyle lo sapeva?»
«Credo di sì... non me l’ha mai chiesto. Col senno di poi, credo che non l’abbia voluto sapere per potersi parare il culo se fosse successo qualche pasticcio. Sì, è tipico di Kyle. Ci prende sempre giusto, in queste cose.»
«Dov’è adesso?»
«Oh, dopo quello che è successo in città non lo rivedremo in giro per un bel pezzo. Non gli piacciono i posti turbolenti, se capisci cosa intendo.»
«Sì, capisco» disse Cheep, abbassando il suono della voce di un’ottava. «Dig, devi fare una cosa per me.»
«Vorrei tanto aiutarti, amico, ma non posso» Dig gli si avvicinò, buttando un’occhiata frettolosa sulle parti danneggiate del corpo metallico. Cheep sapeva bene che fin dal primo sguardo gli aveva fatto una valutazione puntuale. «Sei messo troppo male, dovrei ricostruirti per intero, e non ho più un soldo per i ricambi. I Lucenti sono arrivati prima che potessi intascare i soldi della vendita, e non ho avuto il coraggio di tornare a prenderli, nel caso i Lucenti stessero ancora pattugliando la zona. Tutto quello che mi era rimasto l’ho speso per te. Gran bell’affare, eh?»
«Non ti voglio chiedere di ripararmi. Ti chiedo di rimuovermi il Luxor III.»
Dig sgranò gli occhi. Cheep comprendeva bene il motivo della sua apprensione, ma non disse nulla. Di lì a poco sarebbe stato Dig stesso a cercare di dissuaderlo.
«Amico, quello che mi chiedi non è affatto semplice. Ed è pericoloso, molto pericoloso. Potresti non riuscire a riavviarti. Senza contare che questo è un reato ancora peggiore dell’installare quel processore.»
Cheep si rese conto del paradosso. Impiantare un Luxor III senza autorizzazione era considerato reato, secondo la legge umana. Rimuoverlo lo era secondo le leggi dei Lucenti. Vivevano in un mondo che doveva sottostare a un delicato equilibrio di compromessi, e non c’era modo di muoversi senza infrangere le regole di qualcuno. Dig sarebbe stato conteso da entrambe le giurisdizioni, se fosse stato scoperto. Di qualunque parte fosse, Dig non intendeva incontrare alcun giudice. Aveva bisogno di uno stimolo più forte.
«Posso cancellare la mia memoria. Per intero» disse, guardandolo negli occhi. «Ti ritroverai così con un Luxor III vergine, intonso come appena uscito dalla fabbrica. Non conosco il valore sul mercato nero, ma fuori dal Megacomplesso deve valere parecchio.»
Dig deglutì, ma non c’era più la stessa angoscia nel suo viso. Gli occhi di lui fissavano Cheep, ma senza focalizzarsi sulla macchina squarciata che lo osservava. La sua mente era oltre. Elaborava le possibilità di guadagno.
«Saresti davvero disposto a farlo?» chiese Dig, senza tradire le sue aspettative sulla risposta. «Nel processo di cancellazione, eliminerai ogni ricordo di te. Anche di prima che diventassi un Lucente. Non resterà niente di te. Forse solo le funzioni base, che sarebbero ben misere, nelle tue condizioni.»
«Lo accetto» disse Cheep, ed era sincero. «I ricordi di com’ero prima, con questa nuova coscienza, mi pesano terribilmente. Quando non avrò più la coscienza, beh... a che serviranno, i ricordi?»
«Capisco» disse Dig, anche se non era vero. Le sue mani già si allungavano in direzione del tavolo da lavoro. «Dunque... procediamo?»
Cheep si sdraiò sulla superficie piana del tavolo da lavoro. Faticava a elaborare il mondo che lo circondava, le sue funzioni erano ridotte al minimo. Il corpo non sarebbe rimasto attivo a lungo, con quei danni. Ma non importava. Sarebbe tornato come prima. Com’erano stati tutti i robot prima dell’avvento della coscienza. Lui non apparteneva a quella generazione. Immergersi nel loro universo si era rivelato una pena troppo grande per il suo cuore meccanico. Tornava al buio. Tornava alla cieca obbedienza. Tornava all’insensibilità.
Tornava con gli altri.
   
 
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