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Autore: Kiki S    25/09/2016    0 recensioni
Rachel è una ragazzina di quattordici anni.
Rachel ha ancora paura del buio.
Dopo quell'episodio notturno durante l'ultima gita scoltastica è diventata lo zimbello dell'intero istituto: le prese in giro e gli scherzi crudeli, ormai, sono all'ordine del giorno.
Rachel decide che non può far altro che giocare la sua ultima carta per riprendersi almeno la propria dignità.
Questa carta ha un nome: Zoe Collins.
Genere: Dark, Generale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV
 
LA PROVA FINALE
 
Quella notte Rachel non riusciva a dormire, e questo non perché nella sua stanza non c’era la luce accesa; a quello ormai aveva fatto l’abitudine, erano due settimane che si sentiva serena a stare al buio da sola. Continuava a pensare alla prova finale di cui le aveva parlato Zoe; anzi, a dire il vero l’amica non le aveva detto un bel niente in proposito, e il problema era proprio quello.
Non sapeva di che cosa si trattasse, non aveva idea di che cosa dovesse aspettarsi, e questo la preoccupava. La sua paura del buio ormai era superata, ne era certa, perché continuare? Perché addentrarsi in qualcosa di complicato e sconosciuto? Non le piaceva l’ignoto, non avrebbe mai fatto per lei. Il motivo stesso che l’aveva spinta a smettere di temere l’oscurità era stato proprio il fatto di non considerarla più tale; vi si era abituata. Ma questo non sarebbe mai avvenuto senza l’aiuto di Zoe; forse doveva fidarsi di lei, perché Zoe sapeva sempre quel che doveva essere fatto.
Eppure quelle stesse due parole non la persuadevano: prova finale. Esisteva un che di inquietante al loro interno. Forse sarebbe stata più tranquilla se avesse saputo ciò che a Zoe passava per la testa, ma non c’era stato verso, la dark era stata irremovibile e non aveva voluto sbilanciarsi.
Eppure erano tre giorni che Rachel le chiedeva, anzi, la pregava insistentemente di dirle che cosa si accingeva a fare, di darle almeno un’idea o un accenno in proposito, tanto per rassicurarla; ma Zoe aveva detto che non la riguardava, perché se avesse saputo prima di che cosa si trattava, non sarebbe stato possibile affermare con sicurezza se aveva superato o meno la sua paura.
L’effetto sorpresa doveva ricoprire un ruolo importante. O almeno, Zoe aveva detto che sarebbe stata una sorpresa fino all’ultimo istante. Quando fosse giunto il momento, le avrebbe rivelato tutto. Ma questo non sarebbe giunto prima della sera successiva, quella del sabato.
Zoe l’aveva invitata a dormire a casa sua per l’occasione, perché sosteneva che il tutto dovesse avvenire di notte. Quindi, viste le premesse e l’idea di non saperne ancora nulla, come avrebbe mai potuto dormire? Eppure ormai le piaceva stare al buio, sentiva quel silenzio positivo di cui Zoe le aveva sempre parlato, riusciva a pensare e a rilassarsi quando le luci erano spente, che cosa poteva avere da temere? Quale poteva essere la fantomatica prova finale? Zoe non sapeva che Rachel oramai dormiva al buio nella sua stanza, forse voleva metterla alla prova proprio su questo aspetto; voleva farle trascorrere un’intera notte al buio nella sua camera, magari da sola, così si sarebbe convinta di averla riabilitata. Fosse stato così non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi.
Il problema era che Rachel non sapeva mai che cosa aspettarsi da Zoe, era strana la ragazza; proprio come quanto un attimo prima si faceva fredda, sarcastica e scocciata, per poi travolgerla improvvisamente con il suo calore e dimostrarle apertamente la sofferenza della sua solitudine.
Forse era solo lunatica, ma Zoe cambiava spesso atteggiamento. Una volta, per esempio, le aveva regalato uno dei suoi disegni, quello raffigurante la rosa nera. Rachel aveva deciso di conservarlo come un tesoro, anche perché era stata l’amica a consegnarglielo di sua spontanea volontà, addirittura insistendo perché lo tenesse. Poi però, dopo un paio di settimane, aveva cambiato idea: glielo aveva richiesto indietro e sul suo viso non era disegnato alcun tratto di imbarazzo.
Anzi, pareva quasi che fosse stata Rachel a compiere una grave mancanza nei suoi confronti, quasi l’avesse sottratto dalla sua stanza senza chiederglielo. Quando il giorno successivo glielo aveva reso, Zoe quasi le aveva strappato il foglio di mano, e con freddezza aveva affermato che era maleducazione prendere le cose degli altri. Non le aveva dato nemmeno la possibilità di ribattere, perché se n’era andata subito dopo e Rachel non era più riuscita a parlare con lei per tre giorni.
Aveva addirittura avuto paura di averla persa per sempre, di aver visto sgretolarsi sotto ai suoi occhi il sogno della sua amicizia perfetta, senza aver capito il motivo di ciò che era avvenuto.
Ma poi Zoe era tornata a cercarla e le parlava come se non fosse mai accaduto nulla. Le aveva anche fatto pressione perché si sbrigasse ad andare a casa sua uno dei pomeriggi successivi per riprendere le loro sedute, perché non dovevano perdere tempo.
Quando Rachel rientrò infine in camera di Zoe, aveva notato che il disegno della rosa nera era di nuovo lì, appeso tra gli altri. E aveva scelto di non domandarle niente in proposito.
Aveva avuto paura di quella che avrebbe potuto essere la sua reazione, perché in fondo non aveva capito che cosa fosse successo.
Così anche in quel momento temeva ciò che sarebbe accaduto la sera successiva. In proposito doveva soltanto fidarsi di Zoe e della sua capacità di scavare a fondo senza fatica, individuando sempre quel che era meglio per lei. E Rachel aveva piena fiducia nella sua amica dark, solo che era difficile non essere in ansia.
In fondo era lei che sarebbe stata messa sotto esame.
Però immaginava che si sarebbe sentita meglio una volta che fosse tutto finito; ormai non aveva più paura del buio, aveva ragione di credere che sarebbe andato tutto bene. Qualunque fosse stata l’idea di Zoe per la notte dopo, non poteva essere così terribile.
Sperava soltanto che la dark non cominciasse ad allontanarsi da lei, una volta che avesse assolto del tutto il suo compito. Rachel l’aveva voluta vicina che ricevere il suo aiuto in merito alla sua paura, ma ora che questa era sparita non voleva certo perderla.
Era strano ammetterlo, e un po’ forse la spaventava, ma Zoe era tutto ciò di cui le importasse, era tutto il suo mondo. Era solo grazie a lei che non era crollata in quegli ultimi sei mesi.
Restò a occhi aperti a fissare il soffitto. Le venne in mente che Zoe le aveva detto che, una volta che avesse superato la sua paura del buio, non avrebbe nemmeno più ricordato come avesse fatto a provarla. Era vero, non lo ricordava più. Le sembrava perfino così assurdo.
Non esisteva niente di spaventoso nel buio. Certe cose accadono solo nei film.
Si sentiva più serena quando chiuse gli occhi e si sforzò di prendere sonno.
-L’uomo muore di freddo, non di oscurità- ripeté tra sé e sé a fior di labbra per convincersi che non c’era niente da temere. E oramai per Rachel non esisteva più nemmeno il freddo, e questo non solo perché l’inverno era finito.
Era anche perché accanto aveva Zoe. Non sarebbe esistito gelo fino a quando le fosse rimasta vicina; se non soltanto, forse, quello che quest’ultima le riservava di tanto in tanto, quando aveva la luna storta. Ma anche quello faceva parte di lei.
E Rachel non voleva cambiarla di una virgola.
 
**
Zoe si era presentata a casa di Rachel molto presto quel giorno, prima ancora dell’ora di pranzo. Non era salita con la sua scala ricevuta in eredità fino al suo davanzale come aveva fatto la notte in cui era iniziata la loro amicizia, e come era avvenuto anche in seguito durante quei mesi, ma si era limitata a colpire la sua finestra con dei sassolini, fino a quando non l’aveva costretta ad affacciarsi.
Zoe le sorrideva.
Rachel si era sentita gelare senza sapere il perché, ma in ogni caso aveva scelto di raggiungerla in cortile. Lì l’amica l’aveva abbracciata forte: -Wow, Rach! Sei eccitata quanto me per stasera?- le aveva detto mentre la stringeva tanto da non lasciarla respirare.
Rachel si sentiva un po’ stranita e sbigottita: che cosa mai doveva esserci di eccitante quella sera? In che cosa diavolo doveva consistere quella benedetta prova finale? Cominciava a essere sempre più tesa. Comunque fosse, Rachel ricambiò l’abbraccio, per lo meno nel tentativo di indurre l’amica ad attenuare la sua stretta soffocante. -Non so ancora di che cosa si tratta … come faccio a essere eccitata?- rispose preoccupata mentre cominciava a scansarsi da Zoe.
La dark allora assunse un’espressione contrariata: -Ah beh. Allora non hai fiducia in me- fece offesa. -Male, colombina mia. Male- e detto questo il suo sguardo si fece di ghiaccio.
Rachel sospirò, atterrita e confusa. La verità era che non ci stava capendo più niente, né dell’atteggiamento di Zoe, né di che cosa stesse accadendo. A momenti non ricordava più da che cosa tutto quello fosse cominciato. Ma era stata davvero necessaria tutta quella pagliacciata?
-Zoe, mi fido di te- iniziò dunque titubante, sentendosi in soggezione sotto lo sguardo collerico dell’amica; il potere che Zoe aveva su di lei non intendeva scemare. Anche se si stava facendo tutto così strano, Rachel non aveva intenzione di perderla.
-Ma…- la interruppe subito l’altra con aria di sfida. -Ma non è molto rassicurante dover fare qualcosa che non si sa nemmeno cosa sia. E poi che cosa dovrebbe esserci di eccitante nella tua prova finale? È una cosa così strana?-. E Rachel deglutì rumorosamente quando Zoe le fu addosso con scatto felino e la afferrò per le braccia, tirandola molto vicina a sé. Sentiva il suo respiro che si mescolava con il proprio ed era inquietante. Ma non solo quello; in fin dei conti non era mai cambiato niente.
-La MIA prova finale? La MIA? Vuoi dirmi che ho solo perso tempo con te in questi mesi, Rach? E questo che mi stai facendo capire?- tuonò a occhi spalancati. E questi sembrava che brillassero.
-Rachel cara, io ho fatto tutto questo per te. Per aiutarti. E tu ora non ti fidi di me? Non capisci nemmeno che tutta questa faccenda appartiene a te e non di certo a me?- la squadrò intensamente e Rachel si paralizzò sotto la sua presa che si faceva sempre più salda. Sentiva che a momenti avrebbe iniziato a tremare.
-Io potevo benissimo farne a meno, sai? Sia di te che delle tue stupide sedute con le candele. Io non sono una piscialletto, né una stupida mocciosa, potevo continuare a farmi gli affari miei, e invece ho voluto aiutarti, starti accanto, perché pensavo lo meritassi- fu in questo momento che Zoe la lasciò andare e abbassò anche lo sguardo. -Ma forse ho sbagliato tutto, sono stata un’idiota a credere che fossi diversa dagli altri e potessi capirmi. Mi dispiace-. Tornò a guardarla, poi le sorrise debolmente. <prova finale- affermò decisa -così non sarai mai sicura di aver superato la tua paura, ma in fondo non sono affari miei- e detto questo si voltò, facendo quindi per andarsene. -Addio, colombina. Ognuna torna per la sua strada- e alzò una mano in segno di saluto.
Rachel lasciò che Zoe facesse due o tre passi, poi non resistette. Corse verso di lei e la afferrò per le spalle, affondando quindi il viso nei suoi capelli neri.
-No, Zoe, ti prego, non mi lasciare così- piagnucolò. Era più forte di lei, non era proprio capace di evitarsi quel tono da marmocchia di cinque anni, anche se ormai ne aveva quasi quindici. Non volle farci troppo caso, così si limitò ad abbracciarla da dietro.
-Sono io l’idiota, e lo sai bene. Tu hai ragione, hai fatto tutto questo per me, avresti anche potuto fregartene, è solo merito tuo se ora è tutto passato- esclamò sull’orlo delle lacrime, appoggiando pesantemente il capo alla schiena dell’amica.
-Non andare via, ti prego! Io ti voglio bene!- piagnucolò di nuovo.
Zoe la obbligò a lasciare la presa su di lei, ma fu solo per potersi voltare a guardarla in viso; la sua espressione si era ammorbidita.
-Mi vuoi bene … davvero?- chiese atona; Rachel annuì mentre si sforzava per non scoppiare in lacrime. Improvvisamente si era resa conto che davvero non esisteva niente di più importante di Zoe nella sua vita, che doveva fidarsi ciecamente di lei, perché Zoe era l’unica in grado di capirla.
La dark allora le prese la mano, la guardò intensamente negli occhi per alcuni istanti, poi le sorrise: -Allora sei pronta per la prova finale?- le domandò serena; l’altra fece di nuovo cenno di sì con il capo. -La MIA prova finale- affermò quindi Rachel mentre si asciugava dalle guance quelle due lacrime che le erano sfuggite nonostante i suoi sforzi.
-Che brava colombina che sei- si complimentò dunque Zoe sorridendo e passandole un braccio intorno alle spalle; a quel punto si incamminò con lei verso la strada.
-Proprio una brava colombina!- ripeté.
Da quel momento camminarono insieme in silenzio per un po’ di tempo.
 
**
Zoe le aveva offerto da mangiare sia a pranzo che a cena: il primo lo consumarono in giro, acquistando un paio di panini al primo bar che capitò loro a tiro, la seconda avvenne a casa di Zoe. Non cucinò sua madre, a quanto pareva non si sentiva bene ed era rimasta a letto per tutto il giorno; fu la dark a preparare tutto: fece due belle bistecche con contorno di purè di patate e non volle che Rachel si scomodasse ad alzare un solo dito per aiutarla.
Così la ragazza se n’era rimasta per tutto il tempo al tavolo della cucina mentre l’amica si prodigava ai fornelli, un po’ chiacchierando con lei, un po’ osservandosi le unghie pitturate di nero, come quelle di Zoe. Quel pomeriggio Zoe aveva insistito perché si applicasse il suo stesso smalto; era una piccolezza, ma a Rachel faceva piacere esserle simile.
Anche perché Zoe non aveva più dimostrato l’astio e la collera nei suoi confronti che le aveva riservato quella mattina sotto casa sua. E Rachel non aveva intenzione di rischiare che il fatto si ripetesse: aveva deciso che era giusto fidarsi di lei al cento per cento, semplicemente perché glielo doveva. Zoe era stata l’unica a capirla e a volerla aiutare mentre gli altri la prendevano in giro, e per altro giustamente. Era stata l’unica a non darle mai della bambina, sebbene dimostrasse spesso di essere tale. Era anche stata l’unica ad avere fiducia in lei, a credere che potesse farcela.
E se Zoe credeva fosse necessario sottoporla all’ormai famosa prova finale, doveva avere sicuramente ragione. Lei la sapeva sempre lunga, che voleva saperne Rachel in proposito?
La ragazza se l’era ripetuto più volte; aveva anche finito per non pensare più così spasmodicamente a ciò che l’aspettava. Se aveva davvero superato la sua paura non aveva niente da temere.
Dopo cena chiacchierarono ancora un po’, dopodiché Rachel aiutò Zoe a sparecchiare e a lavare i piatti; in questo caso la dark acconsentì a dividere le ultime mansioni della serata con lei e sembrò persino lusingata quando accettò l’offerta di Rachel in proposito.
Quando conclusero, Zoe lasciò l’amica da sola in cucina a finire di asciugare gli ultimi piatti, mentre lei si dirigeva al piano di sopra a salutare sua madre e ad assicurarsi che stesse meglio, ma fu presto di ritorno.
Fu proprio in quel momento che le parlò con espressione seria; le aveva preso le mani nelle sue e la guardava fissamente negli occhi.
-È ora, sai?- affermò risoluta, come se si stesse riferendo alla cosa più importante del mondo. O come se le stesse facendo presente che ormai era giunto il momento di condurla al patibolo.
Il suo sguardo dava l’idea di intendere più o meno quello.
Rachel sbarrò gli occhi e non rispose; per tutto il giorno aveva evitato di pensarci, ma ora che il momento si faceva imminente in lei tornavano a serpeggiare l’angoscia e l’inquietudine.
Sentiva che il cuore le batteva più forte. Forse un po’ troppo forte; quasi le girava la testa.
Zoe era ancora molto seria. -Siamo … anzi, SEI finalmente all’ultimo stadio, ora devi solo dimostrare di avercela fatta per davvero- le illustrò. Peccato però che Rachel ci stesse capendo ancora meno di prima.
-Co … cosa devo fare?- domandò pallida in viso e visibilmente frastornata.
-Hai paura?- chiese Zoe sorridendole e sfiorandole una guancia con le nocche, -un po’- confessò Rachel e subito temette che l’amica potesse adirarsi di nuovo per quelle sue parole. Fu per questo che si affrettò a ricordarle che si fidava di lei.
Fu in quel momento, allora, che Zoe prese a ridere con foga. Continuò così per quasi due minuti, tanto che Rachel si preoccupò che forse stesse impazzendo; e se fosse accaduto non sarebbe stato consolante, perché era lei ad essere in gioco quella sera e già le bastava non essere al corrente di ciò che l’avrebbe riguardata di lì a poco. A questo sarebbe soltanto mancato da sommare un’eventuale caduta nella follia da parte di Zoe e si sarebbe detta facilmente spacciata. Se doveva affrontare quell’ultima prova, che fosse, ma voleva per lo meno che quel maledetto mistero finisse.
E Zoe che rideva in quel modo sguaiato senza arrestarsi era inquietante.
-Sei forte, colombina mia- riprese la dark quando la sua ilarità finalmente si affievolì -di che cosa dovresti avere paura? È tutto a posto, è tutto molto più semplice di quanto credi- e lo disse scuotendo la testa; infine andò ad asciugarsi dagli occhi le lacrime causate dal troppo ridere.
-Ora posso sapere che cosa devo fare?- azzardò Rachel timidamente, ma subito venne delusa. Zoe sorrideva e agitava piano il capo.
-No, no, colombina. Non ancora. Te lo dirò quando saremo arrivate-
-Arrivate? Dove? Non restiamo a casa tua?-
-Sarebbe troppo semplice, no? Casa mia già la conosci- fece Zoe divertita, poi le strizzò l’occhio. -Avanti, colombina. Andiamo! Ormai è arrivato il momento- e detto questo la dark la trascinò praticamente fuori di casa.
Quella sera il clima era piacevole: l’aria era tiepida, non c’era umidità. Il cielo era oscurato giusto da qualche nuvola, ma niente di più. Rachel non aveva fatto altro che domandare all’amica dove la stesse portando e a fare che cosa, ma per quanto si sgolasse non ricevette mai la minima risposta.
Zoe sembrava quasi aver cambiato dimensione; pareva non sentirla. Lei la trascinava avanti con sé e basta, voleva soltanto condurla a destinazione.
Fu solo quando finalmente si fermarono che Rachel cominciò a capire; e quel che comprese non fu piacevole.
-Oh no, Zoe. Non vorrai mica che passi la notte qui, vero?- domandò spaventata e preoccupata, indicando con mano tremante i capannoni abbandonati che aveva a lato; quelli che si intravedevano da quel lato isolato del cortile della scuola.
L’altra le sorrise senza scomporsi, totalmente indifferente alla paura di Rachel. E il suo sorriso aveva assunto un che di spettrale al chiaro di luna.
-Rach, tranquilla. Che vuoi che sia? Per essere sicura di aver superato la tua paura devi passare una notte in un luogo che non conosci, tutto qui- le rispose con naturalezza.
-Tutto qui? Questi sono capannoni abbandonati … io non voglio restare qui, ho paura- e ancora una volta Rachel si ritrovò a piagnucolare.
-Che lagna che sei, colombina! Sempre a frignare! Fidati di me una buona volta: se non hai problemi a passare qui dentro questa notte significa che ce l’hai fatta- Zoe guardò Rachel sorridendo. -Potrai essere finalmente fiera di te. Non vuoi esserlo?-.
-Sì, ma …-
-Sempre ma, vero colombina? Sei così sciocca a volte. Avanti, niente paura-.
A Rachel tremava il labbro inferiore mentre guardava il sorriso imperscrutabile di Zoe.
-Devo restarci da sola?- domandò cominciando a piangere. -Che domande: è ovvio! Se sto qui a farti compagnia come facciamo a sapere se hai davvero superato la paura del buio?- Zoe la abbracciò e di nuovo la strinse molto forte. -Su, non piangere. Hai con te il cellulare, no? Se non ti senti tranquilla mi chiami e io verrò subito a prenderti. Questo vorrà dire che non sei ancora pronta, ma non importa, ci riproveremo più avanti, sai che io non mi prendo gioco di te-.
Rachel si sciolse dal suo abbraccio e si asciugò le lacrime.
-Davvero verrai subito, se ti chiamo?- chiese apprensiva. -Sì, Rach. Sì- rispose Zoe cantilenante, quasi fosse seccata dalla sua domanda.
-E tu dove vai adesso?-
-A casa. È vicina, no? Lo sai. Sarò qui in un baleno se riceverò una tua chiamata-.
Rachel deglutì e annuì, un po’ rincuorata. Ma non di certo molto.
-Tranquilla, d’accordo? Qui non ci viene nessuno- e mentre parlava Zoe aveva aperto la porta del primo capannone e aveva invitato l’amica a varcarne la soglia.
-Tu rilassati- le disse infine in tono solenne, mentre Rachel si trovava già all’interno del capannone. Gli occhi di Zoe brillavano di nuovo come quelli di un gatto.
-Vedrai che domani sarà una giornata splendida. Se ce la fai ti porto a festeggiare-.
Dopo quelle ultime parole la porta si richiuse con un tonfo, lasciando la povera ragazza nell’oscurità più totale. Da dietro l’uscio Rachel sentì i passi di Zoe mentre si allontanava.
 
**
Già, doveva stare tranquilla. Zoe la faceva facile, non era lei a trovarsi seduta per terra in un luogo buio e dimenticato da Dio e dagli uomini.
Che cosa poteva esistere di più semplice che rilassarsi in quelle condizioni? Un gioco da ragazzi, non c’erano dubbi. Però forse Zoe aveva ragione, doveva essere così: poco ma sicuro, Rachel non avrebbe mai più avuto alcun dubbio sul superamento della sua paura, se quella notte fosse trascorsa senza che fosse preda del panico.
E per il momento stava andando tutto bene; per lo meno, bene inteso nei canoni di ciò che si può pretendere trovandosi soli in un posto isolato in piena notte. Era un po’ agitata, questo sì, ma aveva smesso di piangere e si era messa il cuore in pace, decisa a portare fino in fondo quell’ultima, dannata, stramaledetta, odiosa prova. Magari davvero il giorno successivo Zoe l’avrebbe portata a festeggiare. E dove? Come? Si era domandata. Era stata molto vicina a lanciare la sua stessa testa contro la parete alle sue spalle quando in mente le era balenata l’immagine del Luna Park, con tanto di zucchero filato e giochi in cui si vincevano i peluche. Ma come le saltava in mente? Era possibile che le sue concezioni si fossero fermate all’età dell’asilo? Niente Luna Park, niente zucchero filato.
Zoe avrebbe saputo cosa fare, lei sì che ragionava come una persona adulta. Non per niente non l’aveva mai sentita piagnucolare come invece era solita fare lei.
Doveva toglierselo quel brutto vizio. Oh sì, non c’erano dubbi. Ma aveva già superato la sua paura del buio, il tormento di cui era certa non si sarebbe mai liberata, e per una ragazza che si comportava da mocciosa era senz’altro un gran traguardo.
Più avanti avrebbe pensato anche al resto.
In quel momento aveva altro per la testa. Tirò fuori dalla tasca il cellulare, pigiò un tasto qualsiasi e osservò il display che si illuminava: era mezzanotte. Solo mezzanotte.
Ne aveva di tempo da trascorrere lì dentro ancora, tanto valeva che si desse pace; almeno un po’ di più di quando se ne fosse data fino a quel momento.
In effetti, Zoe aveva visto giusto anche in quel caso: si sarebbe sentita fiera di sé la mattina dopo, se tutto fosse andato bene. E lei voleva davvero sentirsi così, non le era mai capitato prima.
Chiuse gli occhi, appoggiò il capo alla parete e si arrese al buio.
Tutto sommato oramai lo conosceva, aveva imparato ad ascoltarlo. Dentro non vi esisteva niente di mostruoso.
Tutto stava nella capacità di resistere … ancora quanto? Sei ore? Non era consolante, ma se non altro non si sentiva in procinto di urinarsi addosso, quindi non avrebbe potuto essere tanto peggio di quella notte diventata famosa all’istituto.
Avrebbe atteso, all’alba Zoe sarebbe andata a riprenderla e a quel punto avrebbe finalmente tirato un sospiro di sollievo. Anche perché non aveva più intenzione di farsi trascinare in esperienze simili. Le andava bene che quella fosse la prova finale, ma poi non voleva più sentirne parlare.
Meglio le scappate notturne sulla spiaggia sotto la pioggia.
Sbuffando distese le gambe sul pavimento. Pensò che tutto sommato era stata fortunata: se quella prova le fosse toccata in inverno sarebbero stati guai seri; forse non avrebbe avuto problemi con il buio, come stava effettivamente avvenendo in quel momento, ma non dubitava che sarebbe diventata un ghiacciolo.
L’uomo muore di freddo, non di oscurità. La frase preferita di Zoe padroneggiava sempre in quel contesto.
E Rachel non aveva intenzione di morire per il buio, non in quel momento in cui vi aveva preso confidenza.
Lo pensò anche quando cominciò a sembrarle di sentire quei rumori.
Di rumori non ce n’erano davvero. Si disse più volte. Certe cose avvengono soltanto nei film. Si impose di credere. L’uomo muore di freddo, non di oscurità. Si ripeté.
Ma quei rumori continuarono e presto fu sicura di non immaginarli.
Parevano dei cigolii, come quelli delle porte i cui cardini abbiano bisogno di un’oliatura. E forse, ascoltandoli attentamente, poteva anche sembrare di catturare dei lamenti.
Si strinse con forza le ginocchia al petto e si impose di respirare a fondo. Forse non stava immaginando quei rumori, ma con ogni probabilità non erano poi così vicini come le sembravano.
Forse non avevano niente a che vedere con il capannone in cui si trovava, né con lei.
Forse presto sarebbero cessati.
Invece si accrebbero. E a questi si sommarono le voci sussurrate. Non che Rachel capisse che cosa stessero dicendo, ma erano chiare, tante e sovrapposte.
Immediatamente le venne da piangere, ma poi ricordò le parole di Zoe: era semplice, bastava che la chiamasse e lei si sarebbe subito precipitata a prenderla e l’avrebbe portata via.
E non era poi così importante che non avesse superato quella stupida prova finale, Rachel non aveva certo intenzione di restare lì in compagnia di quegli strani fenomeni.
Improvvisamente il buio non le sembrava più così conosciuto; a un tratto le parve anche essersi fatto più fitto ed era inquietante la rapidità con cui stava tornando a spaventarla.
Il numero lo compose con mano tremante, ma infine riuscì a far partire la chiamata; le scappò un grido quando la voce robotica dall’altro lato della linea la informò che il cliente chiamato era irraggiungibile. Zoe non era rintracciabile. Zoe non sarebbe accorsa per salvarla dalle tenebre da cui si sentiva nuovamente inghiottire.
Al diavolo, a che cosa erano serviti quei sei mesi? A farla trovare in una situazione peggiore di quella originaria? E quella volta aveva le sue buone ragioni: non stava piangendo perché il buio sembrava nascondere qualcosa di mostruoso, ma perché era certa che lo celasse davvero.
Nel frattempo, le voci al suo udito si erano fatte più insistenti, anche se restavano ancora incomprensibili.
Il cuore le saltò irrimediabilmente in gola quando, in fondo al capannone, fu certa di aver scorto un’ombra in movimento.
D’istinto si alzò in piedi e iniziò a indietreggiare; l’ombra nel frattempo era apparsa di nuovo e pareva proprio venirle incontro. Accennò anche una risata.
Rachel gridò. Disperatamente tentò di nuovo di comporre il numero di Zoe, ma per il terrore il cellulare le cadde di mano e si aprì, lasciando scivolare all’esterno la batteria; non si curò di abbassarsi per recuperarlo. Stava ancora indietreggiando, anche perché si era resa conto che non c’era soltanto un’ombra attorno a lei. Erano varie: cinque, forse sei, non era stata in grado di distinguerle chiaramente.
Nel frattempo i rumori e le voci sussurrate erano cessati, ma questo non la sollevò; era tornato quel silenzio, quello spettrale e atroce. Quello che risvegliò prepotentemente la sua innata paura del buio.
Perché se lì dentro ci fosse stata la luce non sarebbe accaduto nulla, è solo nell’oscurità che si nasconde l’ignoto, l’orribile, l’atroce e l’errato.
Solo nel buio.
Subito riprese a sentire, come non le capitava da ormai molto tempo, quelle mani gelide che la toccavano nell’invisibilità del nulla. Si scosse urlando nel tentativo di scrollarsele di dosso, ma senza successo, perché quelle dita ghiacciate esistevano solo nella sua mente. Ma non poteva scacciarle; erano tornate.
E le ombre avanzavano ancora, come degli spettri. Sembravano averla attesa fino a quel momento.
Se solo Zoe avesse saputo. Se solo Zoe avesse previsto ciò che sarebbe capitato.
Zoe. Che non sarebbe giunta per sottrarla a quell’inferno in cui temeva di morire.
Camminando all’indietro, improvvisamente inciampò nei suoi stessi piedi. Quando si rialzò stava piangendo più forte.
Aveva avuto ragione fin dal principio, non avrebbe mai dovuto chiedere aiuto a Zoe né darle retta: non bastava conoscere il buio, non era sufficiente abituarsi a esso e lasciarvisi avvolgere.
Il buio era subdolo, si camuffava da amico per poi dimostrarsi un mostro tremendo.
Aveva sempre fatto bene a temerlo, avrebbe dovuto continuare a farlo, senza ricorrere a stupidi stratagemmi per evitarlo; avrebbe dovuto continuare a dormire con la luce accesa nella sua stanza, in quel modo non si sarebbe mai trovata in quella situazione.
E intanto le ombre erano ancora lì, anche se ormai si erano fermate.
Erano poco visibili, ma Rachel le notava e più di ogni altra cosa le sentiva. Percepiva i loro respiri; o forse si trattava del respiro del buio stesso, che era pronto ad inghiottirla.
Perché finalmente l’aveva in pugno, poteva fare di lei ciò che voleva. Era diventata sua schiava, si era arresa a lui convinta di potersi fidare.
Ma ormai quel che contava era soltanto uscire da lì.
Tra le lacrime sussurrò più volte il nome di Zoe, come a volerla invocare, ma lei non sarebbe accorsa. Lei non c’era. Rachel era sola, come forse era sempre stata.
Fu d’improvviso che, voltandosi, si ritrovò dinanzi una ragazza vestita con una tunica nera, il viso pallido e la bocca aperta macchiata di sangue. Non aveva idea da dove provenisse quella luce improvvisa che le aveva illuminato il volto, mostrandole l’abominio in tutto il suo orrore.
La ragazza-mostro si protese verso di lei con un balzo; Rachel indietreggiò e fu per un soffio che riuscì a trovare la porta che conduceva all’esterno.
Scappò a gambe levate, senza sapere dove si stesse dirigendo, anche se era a pochi passi dalla scuola.
Stava piangendo, urlava. E si era urinata addosso.
 
**
Zoe osservò Rachel che si dileguava nella notte e rise mentre la sentiva urlare.
Era stato un vero spasso prendersi gioco di quella ragazzina; per sei lunghi mesi si era finta sua amica, si era anche scomodata a cercarla, ma ne era proprio valsa la pena. La scena di quella notte la ripagava di tutto il tempo perso.
Quando non la vide più stava ancora ridendo, ma si ricompose per richiamare gli attori.
Erano i compagni di classe di Rachel, i quali avevano accettato di buon grado di prendere parte a quello scherzo maligno. In fondo non chiedevano di meglio che umiliarla ancora.
Ma lei no, non l’aveva fatto solo per quello.
Per Zoe c’era di più, lei andava oltre.
Quando le furono tutti dinanzi, mentre veniva illuminata dalla grossa torcia che aveva mostrato a Rachel il viso della ragazza con la bocca sporca di sangue, e che veniva retta da uno dei ragazzi, si inchinò a tutti loro senza demordere dal suo largo sorriso.
-Complimenti, colombini. Lo spettacolo è finito. Ora tutti a nanna, prima che arrivino i veri mostri- scherzò sadica e compiaciuta.
I compagni di classe di Rachel confabulavano a bassa voce, ma a Zoe non interessava quel che si dicevano. Tra di loro c’erano anche quelli che avevano portato lo stereo e l’amplificatore.
Quelli con cui erano stati trasmessi i cigolii e le voci sussurrate. Erano stati tratti da un film dell’orrore: ottimo mezzo per spaventare qualcuno.
Anche se la trovata migliore senza dubbio erano state le ombre che si muovevano verso la malcapitata. Quello doveva averla spaventata a morte, anche se in realtà si trattava solo di semplici ragazzi vestiti di nero che si muovevano nell’oscurità.
Prima ancora che gli attori se ne andassero, Zoe aveva già smesso di rivolgersi a loro e non li stava nemmeno più guardando.
Rideva di nuovo, e sonoramente.
Era soddisfatta del proprio spettacolo macabro, in fondo le sembrava un po’ un’opera d’arte.
Perché non poteva esistere niente di più spettacolare che mettere paura a una ragazzina stupida che aveva abbindolato per sei mesi; una ragazzina della quale aveva ottenuto la fiducia.
In alcuni momenti era arrivata a credere che Rachel si fosse innamorata di lei, e questo, se fosse stato vero, avrebbe reso tutto ancora più divertente.
Era tanto presa dai suoi pensieri di gloria che quasi la infastidì quella voce che la chiamò.
-Che vuoi?- sbottò infatti senza voltarsi; voleva bearsi della notte e di quel che le sussurrava.
La ragazza con la tunica nera, il volto truccato per apparire cadaverico e la bocca macchiata di rosso, era dietro di lei.
-Sarà tornata a casa?- fece questa con tono preoccupato. Si trattava di Judith, la compagna di classe di Rachel che si era sempre prodigata con molta allegria a sfotterla a più non posso.
-Dettagli- fece Zoe secca. Perché quella sciocca stava sciupando la sua euforia?
-È stato divertente, Zoe. Ma ho paura che tu abbia esagerato. Che abbiamo esagerato tutti. Che cosa facciamo se Rachel non torna a casa e le succede qualcosa?-.
In quel momento Zoe si voltò verso di lei e la fulminò con lo sguardo.
-Smettila di scocciarmi. Vattene- sibilò tra i denti, e i suoi occhi brillavano di nuovo.
-Non te ne frega proprio niente? Insomma, va bene uno scherzo, ma forse abbiamo superato la linea. Dovremmo andare a cercarla- si impuntò Judith.
-Se ci tieni tanto, vacci tu, io ho di meglio da fare-
-Zoe …-
-Quale parte di “vattene” ti è poco chiara, colombina? Àndale! Telare!- e detto questo smise di prestarle attenzione.
-Sai cosa, Zoe? Questa sera abbiamo sbagliato tutti, ma tu sei veramente cattiva. Lo sei per davvero … dentro-; dopodiché Judith si arrese e se ne andò.
Quelle parole stavano facendo sorridere Zoe; sì, lei era cattiva. Lo era sempre stata, le piaceva esserlo. Era proprio per questo che si era presa gioco di Rachel fingendosi sua amica per poi spaventarla a morte con quello scherzo crudele. Non lo faceva per infantilismo come tutti gli altri, le prese in giro verbali erano una stupidaggine di poco conto, non valeva la pena abbassarsi a tanto.
Lei aveva giocato con Rachel perché era stata una goduria farlo; non era passata notte senza che ridesse di gusto per quel che aveva in serbo per lei.
Perché Zoe era cattiva.
Lo era diventata quel giorno di sei anni prima: papà era morto da poco e lei, anche se sua madre le aveva detto di non toccare l’urna contenente le sue ceneri, l’aveva presa in mano comunque, perché voleva tenersi stretto il genitore scomparso; voleva sentirselo vicino.
Ma poi il contenitore le era caduto, e le ceneri si erano sparse per casa senza che fosse più possibile recuperarle interamente.
Quel giorno sua madre le aveva detto per la prima volta che era cattiva, e da quel momento in poi glielo aveva ripetuto infinite volte.
Ma fin dal primo momento in cui aveva sentito rivolgersi quella parola, aveva capito che era la sua vera natura, e doveva essere tale.
Lei era cattiva; diceva bene Judith, lo era dentro.
E non avrebbe potuto sentirsi più felice per il fatto di esserlo.
   
 
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