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Autore: CottonCandyGlob    29/09/2016    1 recensioni
Questo è il surrogato di una storia d'amore. Non è esattamente un'epopea amorosa, perché tutti gli ingredienti che di solito ne infarciscono una, qui sono stati mescolati alla cieca. Risultato? Si trovano sottili tracce di assurdo e un retrogusto di ectoplasma. Tutto sommato è così che si vorrebbe raccontare le origini dei due amici tra i più inseparabili ed insaziabili dei cartoni animati.
Ma voi, al piccolo Norville, questa storia gliela raccontereste mai?
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Un talento di etichette
-C’è uno spiffero…possibile?
-Joe, siediti su.
-Ci sono, ci sono.
-Non me lo stavo immaginando, cavolo, ho proprio uno spiffero qui dietro-si alzò di scatto il padre, facendo larghi segnali verso la sua nuca. Il figlio guardava basso con la testa in bilico sul braccio.
-Ho passato il pavimento in cucina e ho bisogno che asciughi entro le nove. Devo anche fare uscire questo orribile odore di limone…mi rovinerà la cena.
-Ma pensa un po’ se ti rovina la cena. Dà un gusto decisamente fresco e moderno a casa nostra. Piuttosto dovresti lasciarlo lì dov’è e fermare il getto d’aria che mi sta trapassando la schiena.
La donna posò pentola e mestolo sul lato del tavolo incastrandoli con un rumore pari a un brindisi da ricevimento. Poi a passi corti si avviò in apnea verso la finestra della cucina.
-Che hai da ridere, tu?-minacciò l’uomo diretto sul ragazzo.
-Oltre allo spiffero, ti sei accorto che sei in canottiera?
-Quando anche tu trascorrerai le giornate a lavorare, giovinotto, capirai il perché di mille canottiere.
-Ma fa così caldo adesso?
-Che vuoi che sia, è primavera.
-Quasi primavera-annuì Joseph.
-Ma che perfettini che siamo diventati, eh? A proposito, Wendy, te l’ha raccontato di quel suo professore mezzo…-le si rivolse, non appena la rivide passare.
-Arrivo subito, caro, arrivo…ho sentito bussare alla porta.
-E’ lo spiffero di papà che non riesce più ad arrivare dalla cucina-sogghignò il ragazzo.
-Ma smettila, scemo. Sarà tua sorella che non ha preso le chiavi.
-E il campanello, papà?-domandò distratto cercando di sbirciare sotto il coperchio della pentola bollente.
-E il campanello? Tesoro, il campanello, non avevi chiamato per il campanello?
-Devo essermene dimenticata. Appena finiamo chiamo subito il tecnico, non ti preoccupare.
-Bene, meglio così…non vorrei solo trovarmi la ragazzina congelata fuori dalla porta una di queste sere.
-Primavera, eh?
Finley battè una pacca sulla spalla del figlio spostandolo il più possibile dalla sedia . Non che fosse un uomo dalla massa muscolare abbondante. Era solo più forzuto di quel giovanotto mingherlino, decisamente più maturo ed allenato, scattante nei suoi compiuti quarantacinque anni. Contro un pivellino di appena ventitrè era uno scherzo. Anche con le macchine che riparava ogni giorno era un gioco da ragazzi. Però si teneva distante dai tipi più grossi di lui, evitava di cercar rogne quando non fosse strettamente necessario. E quando anche i guai gli bussavano alla porta la sua capacità di non voltarsi mai gli permetteva di dare di sé l’immagine dell’uomo più silenzioso e pericoloso del mondo. Forse l’unica persona a tenergli testa era la sua cara mogliettina, una lingua biforcuta come la sua, una lastra di granito, dura come lui.
Un vociare sommesso giunse facendosi strada dalla porta di entrata, arrivando qualche secondo prima di madre e figlia. Erano così strette e sorridenti che Finley per un attimo non notò che il biondo di Paula era di gran lunga più iridescente dei capelli crespi e consumati di Wendy. Complice anche, ovviamente, il buio che la sua benedetta finestra chiusa gettava sul tavolo della sala da pranzo, del tutto scura, nonostante un piccolo lampadario pieno di ghirigori di vetro cercasse di neutralizzarlo, almeno sui piatti.
-Ciao-sorrise Paula ai due uomini seduti.
-Ehi, ciao-le rispose il fratello, lasciando andare con aria innocente il coperchio semichiuso.
-Buonasera, come va la mia piccolina? -la afferrò suo padre, stringendo un lembo della camicetta.
La ragazza se la risistemò proprio mentre gli stampava un piccolo bacio sulla guancia che probabilmente sapeva ancora del pasticcio di agnello che le aveva fatto assaggiare Minta. Man mano che saliva le scale capì che l’odore di pasticcio di agnello le era davvero rimasto impregnato fino alla punta dei capelli, e la seguiva come una scia invisibile in qualunque punto si fermasse per più di due secondi.
 In cima svoltò l’angolo a destra del corridoio e si fiondò nella piccola soffitta. Agguantò di un colpo il piccolo bauletto che stava sulla punta di una piramide di altrettante scatole, scaffali di mobili e teli di iuta, e vi ripose la paga del giorno, che era già impaziente di evadere dalla sua tasca durante la corsa. Evidentemente qualche spicciolo di mancia era riuscito nell’intento. Almeno sperava lo trovasse qualcuno a cui faceva piacere. Qualcuno che amava anche l’agnello possibilmente.
In fondo Minta le diceva sempre che i nasi dei suoi clienti facevano tutto il lavoro di quella ronzante scritta luminosa di fronte al locale. C’era da pensare che un giorno o l’altro l’avrebbe immersa direttamente in un pentolone per farne una pubblicità vivente. Oppure una zuppa che cammina.
Perché pensava alla zuppa? Ah, giusto, una ventata di odore di zuppa l’aveva investita non appena aveva messo i piedi in casa. Strano, non se ne era accorta. Ma ora le aveva fatto venire l’acquolina in bocca.
Per fiondarsi al tavolo rovesciò due scatoloni inermi di vecchi scarabocchi e nastri di biglietti di auguri datati almeno vent’anni prima, ricordi del passato dei suoi genitori con cui Paula non voleva avere a che fare. Con una manciata di carta sistemò l’impiccio e con il piede li spinse sotto un banco a tre gambe appoggiato al muro.
-Ma il professore è nuovo…?
-No, insegna da parecchio…almeno una decina d’anni…-deglutì Joseph, strappando un pezzo di pane.
-Che roba, proprio una bella roba quel tipo. E gli altri non sono da meno, eh?
-Sembrerebbe-annuì Wendy riempiendo il piatto della figlia, che aveva appena fatto capolino dalla porta.
-Sembrerebbe cosa?-si inserì sorridendo la ragazzina.
-Che tuo fratello è finito in un manicomio. Sempre che l’insegnante di salute mentale sia anche lui incompetente-rise il padre, afferrando il bicchiere.
-Ehi, Ma, me ne daresti ancora un po’?
-Dai, passa il piatto-fece cenno la donna.
Sappiate che Ma era l’ultimo approdo dei suoi trentott’anni suonati di vita. Fino a che la piccola Gwendaline trascinava i piedi tutti i giorni alla scuola elementare della sua assolata cittadina oltre il Mississippi, nessuno si era mai sognato di chiamarla Wendy. Lei era al massimo Gwen, Dalen, o Lina. Facciamo semplicemente Gwen, perché gli altri erano soprannomi usciti dalla lingua lunga di alcuni suoi amici.
Finley aveva coniato Wendy lasciandola visibilmente impressionata. Impressionata per un nomignolo così evidente che nessuno in famiglia aveva mai voluto rivolgerle. Credeteci o no, era stato uno dei motivi per cui si era follemente innamorata di lui. Joseph fortunatamente ne aveva ereditato certi tratti, sicuramente migliorando il fattore creativo, e se ne era uscito, sei anni prima, con Ma. Non era il soprannome di “mamma”, ma è ancora troppo presto per spiegarlo.
Comunque a distanza di qualche anno, prima di Ma, il ragazzo, o meglio, ragazzino all’epoca, aveva già iniziato a tirarne fuori mille altri, uno più scemo(possiamo dirlo) di quello dopo. Praticamente tutti gli rubavano le idee, e mezza città si chiamava come Joseph Stuart l’aveva voluta, magari senza accorgersene, mentre sorseggiava una bibita.
I nomignoli ovviamente davano un potere di etichettare le persone assolutamente straordinario, bello e spiritoso finchè non si pestava un tasto dolente. E’ vero che il signor Richter era estremamente soddisfatto che sua figlia Mallory fosse ufficialmente diventata “Angel” a scuola, ma il fegato gli si rodeva un po’ quando suo figlio Craig era chiamato dal quartiere “Tonno”, per via di quei suoi occhi chiari e strabuzzanti.
Poteva anche attirare antipatie, essendo così potente nel campo, perché certi soprannomi si appiccicano senza essere graditi e spesso vengono usati come piccoli spilli a tormentare le persone. Ma in fondo la vocina che gli suggeriva le idee era solo lì per ordinargli la memoria e riuscire a distinguere quello che per i suoi genitori era “Craig che abita al fondo della strada con due cani bianchi che abbaiano e disturbano la signora Densel” da “Craig, il cugino di tua madre che vive a San Francisco e ci manda i biscotti della sua terza moglie svedese”.
Quando si era sparsa la voce (non è da dimenticare che la sua fama veniva anche dalla velocità delle pettegole e dei ficcanaso) che il figlio maggiore di Stuart si era iscritto alla scuola di medicina di South Bay, la tanto odiata città aldilà del lago, tutti si erano immaginati i lunghi elenchi di nomignoli con cui in carriera avrebbe riempito i registri. Le voci tornarono come un turbine alle orecchie dell’interessato, e per la prima volta Joseph capì che quel talento lo avrebbe tenuto sottobraccio per tutta la vita. Che poi, dopo un po’, era solo il suo tono di voce, il suo schioccare la lingua e la sola sua persona a decretarne la supremazia nel campo. Insomma, raggiunti i vent’anni era abitudine e moda starlo a sentire.
Bisogna dire che come sempre certe etichette in famiglia rimanevano per pochi intimi, ma in sostanza valevano per chiunque mettesse piede o buttasse l’occhio sulla loro casa.
Suo padre era diventato Bell, perché dalla mattina alla sera rompeva le scatole con la questione del campanello, il che rimpiazzava notevolmente quel “Ruotapale” che se ne era uscito durante il carro allegorico dei mulini alla festa di autunno. Quello coi clienti metteva sempre un po’ di imbarazzo, specialmente i forestieri.
Questo discorso il mio caro collega che si spacciava per menestrello all’inizio del capitolo precedente non avrebbe mai potuto farlo, perché per lui non ci furono mai soprannomi firmati Joseph. Mi direte, certo, basta non conoscere Joseph e tutti saremmo allo stesso punto. Ma la questione sta nel fatto che lui non capirebbe l’importanza di questo ragazzo. Forse voi ci siete arrivati, se solo provate ad immaginare dove finirà questa avventura.
Nella maggior parte dei casi, però, sempre ammiro l’estro di Joseph come uno dei più utili al mondo, come un’arte di far sentire speciale, nel bene o nel male, chiunque spunti nella sua vita. Perchè possiamo inventare quanti più nomi vogliamo, ma i soprannomi e i nomignoli li batteranno sempre in numero, in allegria e in umorismo. Perché sono etichette che non vanno su documenti e scartoffie, sono pezzetti della nostra personalità che si sostituiscono nel tempo, si aggiornano, vivono con noi.
Se Craig degli occhi di pesce e Craig dei biscotti firmano col nome un documento, il burocrate tutto silenzioso sul suo scrittoio vedrà solo e soltanto Craig. Niente tonno e niente biscotti, cari. Perché quello è il mondo logico delle cose ufficiali.
Un mare di parole per questo ragazzo, un mare di lodi, direi. Non è decisamente il protagonista assoluto di questa storia, ma uno dei suoi piccoli fallimenti lo è. Paula, la sua cara sorellina, non era mai stata soprannominata in alcun modo. O la chiamavano per intero, oppure usavano i termini più generici di questo universo. Joseph non era riuscito ad attaccarle un’etichetta. Ma si sforzava comunque di conservarle quella che solo lui le vedeva addosso.
-Domani Minta tiene chiuso il locale, c’è la partita e non verrà nessuno-spiegò Paula passando il cucchiaino sul bordo del sorbetto.
-Bene, allora stasera potreste uscire-propose distratta la madre.
-Stasera? -sbuffò il padre-Faccio ancora un salto in officina per controllare due cose, ma poi sono definitivamente senza forze.
-Come va all’officina? -chiese la figlia, ripescando improvvisamente la questione di Tyler.
-Bene, bene. Come sempre-e mandò uno sguardo complice verso Wendy.
-Comunque- battè le mani lei-potete andare al cinema voi due, ragazzi. Non hai detto che volevi vedere quel film pieno di sangue?
-Sì-rise Joseph-che ne dici, Ni?
Santo Cielo, vi siete dovuti leggere una miriade di parole più o meno serie e ora quello che vedete sono solo monosillabi. In effetti ve l’ho detto, quell’etichetta la usava solo lui. Evidentemente non era un gran successo. Ma gli ricordava tutto sommato il momento in cui imparò a conoscere la sua piccola sorellina, quel piccolo bozzolo di panno rosa e guance rotonde che gli era stato presentato al parco, appena finito un acquazzone.
-Nola? Nola Puffs?-aveva balbettato una volta arrivato a casa.
-Sì, tesoro, suona così-si era messa a sghignazzare la madre.
-Ah, che roba! Joe, vieni, siediti qui. Senti un po’, come si chiama la tua sorellina?
-Nola-lo aveva guardato, ficcandosi un dito in bocca.
-Ma che brava, tua madre-aveva applaudito deluso verso la moglie-no, lo so che vivresti di Nola Puffs giorno e notte, ma tua sorella si chiama Paula. Fammi una P con la bocca. Forza! Come Papà!
-Papà, Nola Fz!-balbettò due o tre volte il bimbo. Portava la mano a cucchiaio verso la bocca e scuoteva la testa per dirgli quanto trovava divertente che si parlasse di quei cereali colorati.
-Sei poi tu che compri sempre certe schifezze.
-Basta, che storia è mai questa? Mia figlia si chiama Paula, diavolo!
Finley perdonò la lingua ancora infantilmente impastata del suo piccolo campione, ma per le settimane successive in cui la moglie sporgeva nella sua visuale ne uscivano sempre secchi pugni sul tavolo.
Proprio mentre Joseph affinava la sua funzione di fratello maggiore responsabile, la sua bocca iniziò ad accorciare il nome dei cereali da “Nola”, a “No”. Il “Puffs”, o meglio il suo”Fz”, si era perso già nel momento in cui per almeno otto volte di seguito il padre aveva chiamato la neonata, senza accennare per nulla a quel suono divertente che non dimenticava mai nel posare sul tavolo la scodella della colazione.
Capirete che chiamare una persona come un apparente avverbio di negazione poteva parer originale, contorto da capire, ma originale. La maestra della seconda elementare, rappresentando quel mondo di leggi e nomi che vi mostravo prima, censurò quella follia “di usare paroline viziose che creeranno confusione per chi lo avrà ascoltato o letto in futuro”.
Che? Seriamente? Forse quella donna se ne sta ancora nel suo letto di missionaria in Africa a ragionare sulle notizie che sono uscite dalle lettere dei suoi. Joseph Stuart? Ma era quello dei nomi strani? Pensare che ora a colpi di etichette è sulle labbra di tutta Borderlake, che i suoi nomi sono quelli giusti mentre i veri nomi suonano banali! Non a caso nessuno la chiama più signorina Brent, ma anche le suorine bruciate dal sole la conoscono come Zugal.
Strana traduzione africana?
Solo una marca di caramelle biancastre che molte sue conoscenti, su esempio di un bimbo, riconobbero nelle perle dei suoi fili per occhiali. Certo che le marche dominano il campo.
Ma perché divago di nuovo? Dovevo essere quella della storia dettagliata e coincisa, e non posso fermarmi se una linea su questo quadro colorato spunta da un lato con un sottile filo di colore, da solo, in un angolo. Però torno sul disegno centrale.
Liquidati “Nola” e “No”, poiché la enne gli suonava sempre più naturale dell’iniziale vera, Paula diventò semplicemente “Ni”. Il padre si era già rassegnato alla seconda opzione, che pur rischiava di essere confusa per un secco rifiuto, invece di ricordare il viso di quella sua bimbetta che a stento aveva imparato a parlare.
Paula ora aveva diciassette, quasi diciotto. ”Chi se ne frega”, gli appariva di scatto nella mente.” Che scemo arrabbiarmi…ero arrabbiato e basta. Finchè alla mia bimba non le torce un capello non m’importa come la chiama. E Joe, chi gliene dice…lui le vuole bene, un bene dell’anima.”
Joseph cancellò, seppellì sotto il più alto cumulo di terra quella storia del nome dei cereali, delle risate di sua madre e della sua lingua incapace. Era un racconto perfetto da tempo morto tra un’ordinazione e l’altra al ristorante, da panchina con estranei, da rimorchio, magari. C’erano decine di nomignoli che facevano la fila per quei momenti. Quello di sua sorella si rivelava il più complicato, da rivangare e forse in parte da perdonare a se stesso.
-Ni abbrevia “Nuova”, la mia sorellina è stata la novità in casa mia-sorrideva sempre.
Ma non ne era mai totalmente convinto nel parlarne, quindi mai convincente, mai persuasivo, mancava del superpotere. Al che si potrebbe trarne che la sua lingua azzeccasse solo quando agiva nella più completa e spudorata sincerità.
-E’ proprio pieno di sangue?
Già, torniamo al presente, insomma, all’avventura.
-I miei compagni dicono che se ne fa schizzare parecchio…ma danno anche una commedia se preferisci. Solo che inizia tardi, verso le undici, penso-storse il viso in un dubbio.
-Potremmo andare tardi, no? Così riusciamo anche a vedere l’inizio della lezione della mamma-si voltò la ragazza, appollaiandosi con le mani al bordo del tavolo.
-Sei proprio una fifona-gli fece la linguaccia Joseph.
-Ma io ci tengo davvero, mamma!-insistette.
-Grazie, ma vi ho già detto che mi mettete in soggezione se state qui.
-Piantala lì, Wendy, siamo la tua famiglia, e che diavolo!-sbuffò Finley.
-Lo so, ma questa cosa mi mette ansia…potrei essere disastrosa come insegnante…
-Ma dai! Non potresti sbagliare una sola virgola, sai tutto di sta roba economica e quelle tre talpe non replicheranno nemmeno-le prese la mano l’uomo.-So che andrai benissimo, Wendy. Ma se ti disturba la nostra presenza faremo gli invisibili.
Nel silenzio in cui la donna scaricava la cappa d’ansia che le si era stretta intorno, Joseph ebbe l’idea di guardare sul quotidiano locale se il Blue Vynil, cioè l’eccentrico cinema più aggiornato della città, proponesse qualcosa di inaspettato rispetto a quei due titoli che gli ronzavano in testa dopo le mattinate di scuola. Ovviamente l’annuncio principale conteneva un’intera pagina di cerchietti e triangolini azzurri e gialli che ne facevano venire altrettanti agli occhi che ammiccavano nel fissarli.
-Ci credereste? Hanno aperto il Drive-in!-sbarrò gli occhi sfiorando col viso un angolo del foglio.
-Già a marzo? Quelli non perdono mai tempo per far soldi.
-No, papà, non il supermegabidone di quei ricconi! Il nostro Drive-in!
-Quello vicino al lago?-trepidò Finley-Ma Oscar aveva detto che avrebbe aspettato il ragazzo…perciò…
-Dici che Hunter è tornato?-scattò in piedi Joseph, lasciando andare la pagina di giornale.
Paula aprì un sorriso con un urlo di gioia che le morì in gola.
-Può darsi che abbia deciso di provare ad aprire comunque.-mantenne la calma il signor Stuart.
In meno di cinque minuti i due ragazzi erano già saltati in macchina riservando al padre i sedili posteriori. Non potevano neanche trovare una scusa minima per perdersi quel film. Un film completamente da ignorare, oppure da vedere tutto per filo e per segno in balia dei ricordi. Perché quell’apertura voleva dire che Hunter era tornato, oppure che non sarebbe tornato mai più. Non ci si poteva mai fidare del giornalista che scriveva gli annunci: qualsiasi testo gli dessero, lui doveva rimaneggiarlo per renderlo più commerciale. Oscar poteva averglielo dettato con le lacrime agli occhi, oppure impaziente di gioia.
All’incrocio con Abbey Road il padre fece segno di fermarsi. Doveva passare all’officina, e si rivelava scettico nei confronti delle intenzioni di quel vecchio volpone. Scivolò in canottiera nel mezzo della sera, con il giornale ancora sottobraccio . “Andate avanti, telefonatemi dopo”gesticolò loro, prima che il figlio rimettesse in moto.
-Come li vuoi i popcorn?
-Come li vuoi tu-sorrise debolmente la sorella, scorgendogli il rivolo di una lacrima che scendeva lungo il mento.
-Scusa-tirò su col naso-potrebbe essere la volta che la finisco di preoccuparmi. Ma non so se l’hanno aperto per…per lui…
-Lo aveva giurato, in chiesa, di fronte al quartiere. E’ un miracolo, forse, questo. L’hanno aperto perché lui è qui. Sono vicinissima ad esserne sicura. Su, asciuga-gli porse un fazzoletto, il primo trovato a casaccio nella sua piccola tracolla.
-Ne serviranno altri, tienili pronti. Stasera in un modo o nell’altro piangerò-sorrise con gli occhi già rossi.
Chissà perché erano così sicuri che tra giuramenti, voti e annunci, quel cinema all’aria aperta aprisse proprio perché era il nipote del proprietario a volerlo, vivo o no. Tutta quella sicurezza poteva farli piangere per un nonnulla. Tutta quella corsa poteva stancarli per un nonnulla.
Ma quando apriva il Drive-in? E chi cavolo si era ricordato di leggerlo? Se non fosse stato il quotidiano del giorno e ci fosse stato scritto “Stasera”, probabilmente non avrebbero nemmeno previsto la data. Le informazioni erano andate a braccetto del padre fino in officina. E va beh, chiediamo all’ingresso.
Dentro la cabina del bigliettaio qualcuno però scorse subito il getto dei fanali di un’auto abbassarsi, e due figure che arrivavano di fretta, e per giunta un’ora in anticipo.
- Ragazzi, apriamo tra un’ora!-annunciò il bigliettaio, tale Morgan, indicando a braccia larghe la doppia sbarra che serrava il passaggio.
-Sì, sì, noi aspettiamo- fece timida Paula, non prima di tirare un sospiro di sollievo alla notizia che l’annuncio del giornale era vero.
-Il signor Malloy è già arrivato?
Joseph sentiva l’impazienza divorargli a morsi le orecchie, era sicuro che a breve avrebbe perso la capacità di ascoltare la risposta.
-Lei sa del signor Malloy?-balbettò l’omino, strofinandosi il polsino troppo stretto della giacca.
-In che senso?-arretrò imbarazzato il ragazzo-Cosa dovrei sapere?
-Ehm, cosa non dovrebbe sapere…ancora.
Fratello e sorella deglutirono confusi.
-Aspetti qui-agitò la mano. Con un’agilità inaspettata, subito dopo una decisa tirata delle braghe che larghe spiovevano ai fianchi, quell’ometto spalancò di un acuto cigolìo l’angusta porta della cabina e balzò sull’asfalto.
Udirono ancora per qualche secondo la sua corsa trafelata verso il parcheggio buio, da cui, per via dell’ora tarda, non riusciva a mostrarsi l’edificio principale: un’alta casa squadrata e regolare in mattoni.
In lontananza però spuntavano sullo sfondo dell’ultimo respiro del tramonto i profili nodosi degli alti alberi che facevano da muro naturale al lago. Poco sotto la parete di bosco, loro se lo ricordavano bene, il signor Oscar Malloy aveva fatto installare il telo bianco che dava via alla magia. Quei tre lunghi anni di attesa avevano lasciato solo qualche traccia delle linee che, come trovata geniale, erano state tracciate per terra per segnare i posti, piene di miscele di fosforo e altre “schifezze chimiche” che le facevano brillare nel buio.
Quando tutti i parcheggi erano occupati, da fuori se ne aveva un disegno a chiazze irregolari sparse laddove le tracce non erano coperte, e il risultato era un quadro identico al cielo stellato, in una versione più artificiale, e chimica.
-Che c’è?-chiese la ragazza, sorridendo allo sguardo attento del fratello.
-Niente… posso avere il permesso di guardarti?-rise Joseph, di un riso nervoso, teso.
-Ci sono cose migliori che potresti fissare-alzò le spalle lei allargando il braccio intorno al suo.
Oltre al fruscìo del vento che spazzava il battistrada, il rumore della porta cigolante si ripeteva incessante nelle orecchie.
-Non bastava l’ansia, ci vuole anche sta cantilena ora-sbuffò lui.
Che discorso stavano evitando? Cosa stava per dire un secondo prima sua sorella, quando gli aveva rivolto due occhi spalancati e lucidi? Era lo stesso pensiero che aveva piantato in testa mentre anche lui usava gli stessi sguardi contratti? Entrambi temevano l’imbarazzo di rivangare la questione. Così ne uscirono altre, incredibilmente insignificanti rispetto al dubbio che li tormentava.
-Che film danno stasera?
E che noia. Doveva ricordarsi che suo padre si era portato via il giornale, no? Su sta cabina maledetta non c’era manco un annuncio. Quando Joseph girò la testa in cerca di un manifesto, trovò il palinsesto di cartone vuoto, vuoto e inquietante, come se il proprietario non ci avesse fatto caso. Non era affatto un buon segno. Gli ricordò tutto la sciagura, l’ombra di una brutta notizia che per mezzo di messaggi nascosti oltre a brutta diventa misteriosa. Hunter. Hunter. Che tamburo aveva in testa per quel nome.
Faceva una bella orchestrina insieme alle orecchie che fischiavano e allo stridio dei denti. Se si aggiungevano i morsi nervosi che Paula dava alle unghie, si scandiva persino il tempo di una piacevole ballata di ansia.
-Spero in ogni caso non sia un horror-sviò poi la sorella.
-Come pensi di sopravvivere a questa società se non hai mai visto un horror?-scandì lui a lunghe scosse di capo.
Incredibile come i discorsi si bloccassero. In due era difficile tenerli su. Almeno su un numero di tre c’era più probabilità di avere una parlantina continua. Eppure sembrava utile rivangare la questione dei film horror, perché avrebbero potuto tenere uno stupido dialogo perlomeno teatrale tra un sapientone in materia e una totale imbranata nel campo. Avrebbero perlomeno riempito il silenzio di quella piccola piazzola.
-Adesso basta-piantò i piedi Joseph. Girò le suole in direzione di quella fastidiosa porta scricchiolante. Dopo quella, avrebbe dovuto solo far smettere il vento, che ululava impaziente anche lui, senza dare mai pace alle ciocche ribelli di Paula.
A tre passi e qualche pezzo di ghiaia dalla cabina, le orecchie dei due fratelli si rizzarono. La porta sembrava ferma e il vento era pressochè spento. Ma allora che cos’era quel rumore? Pareva gli stessi due fastidiosi suoni di prima, fusi insieme da ritmo alternato.
Eccolo, un segno di vita. Un piccolo faretto proiettò una lunga scia che tagliava in due le sbarre di passaggio, scavalcandole nel loro metro di altezza. Veniva avanti scorrendo sull’asfalto come la luce di un treno.
Al posto del rumore della locomotiva ne usciva invece quel suono strano, accompagnato, ogni tanto, da un tossicchiare sommesso, che Paula non resistette dal paragonare al verso stralunato della foca ferita che una settimana prima aveva visitato allo zoo con la classe di scienze. Diciamo che il ricordo di quella povera creatura accasciata la preparò in parte a provare compassione.
Poi arrivò un formicolio metallico, e le due sbarre si alzarono maestose, nonostante spruzzate qua e là di ruggine. E finalmente apparì rischiarato e ravvicinato lo strano strumento musicale.
-Buonasera-disse piano una voce.
-Dannato Spirito del Sacramento!-aprì le braccia Joseph, come se volesse risucchiare sotto la sua giacca tutta l’aria respirabile.
Volete anche una bella parentesi sulle esclamazioni, oltre che ai soprannomi? No, spero di no. Altrimenti diventereste miei seguaci e ve ne pentireste. Abbiate pazienza per qualche capitolo, e poi se vorrete partirà il mio sproloquio.
Il grido che si era rintanato tra le corde vocali di Paula provò un’altra volta ad uscirle, ma fallì ancora.
Hunter se ne stava composto e ritto, sorreggendo la piccola torcia che ora faceva un buco di luce netto sul fianco della camicia stropicciata della ragazza. L’amico si buttò a capofitto tra le sue braccia, stringendolo pur facendo attenzione a non storpiarlo. Nulla gli parve strano in quel suo gesto, neanche che dovesse raggiungere nel buio un volto che si trovava all’altezza della sua cintura. Quanto gli era mancato quel volto! E le spalle! Quelle dannate spalle squadrate e robuste. Loro lo avevano condannato e adesso si nascondevano colpevoli dietro insignificanti paragoni: sì, ora non erano altro che squadrate, squadrate proprio come lo schienale della sedia a rotelle.
-Buonasera-spezzò l’imbarazzo dei suoi occhi lucidi. Non sembrava intenzionato a smettere di ripetere quel saluto.
-Oddio.
Joseph fremeva in preda all’emozione, ma si limitava a guardare prima Paula, poi Hunter, il cielo e a sventagliare le mani a livello delle tasche dei pantaloni. Gli occhi, i sorrisi, i respiri: parlava di loro tutto ciò che non poteva parlare, mentre la voce si ritraeva, imbarazzata di sé.
E’ divertente pensare che da lì a un minuto si aggiunse alla scena uno dei personaggi per cui la voce era l’unico, eccelso e poderoso strumento. E fu un bene, perché Hunter aveva iniziato a piegare la testa di lato e a fare giochi di luce sui visi dei due ospiti, con ancora stampato sulle labbra quel “Buonasera”.
-Signorino, Santo Cielo! Signorino Malloy!-si sentì scalpitare, accompagnato da un ticchettio di scarpe sulla ghiaia.
Tacchi. Paula rimase delusa del fatto che erano solo qualche misero centimetro rispetto ai trampoli che si era immaginata. Ma una cosa l’aveva inspiegabilmente azzeccata. Erano bianche opache, con l’aggiunta però di un delizioso fiocchetto sul lato interno. Sorrise di quel dettaglio curioso persa talmente nei suoi pensieri che neanche immaginò chi potesse essere quella donna. Non che si capisse, dato che la divisa bianca immacolata era coperta da un golfino beige, legato a vita.
Quella scaraventò le braccia sulle manopole della sedia del ragazzo, poi aderì ad una con il gomito per potersi sistemare il ciuffo di capelli mossi, tinti di un bel color caramello. Era divertente vederla mezza spettinata e allo stesso tempo delicata e posata nei lineamenti.
-Signorino Malloy-ripetè a fiato mozzo-come le devo ripetere che non deve uscire assolutamente non accompagnato?!
-E poi suo zio le ha detto di non uscire fino a stasera, sa, per la sorpresa-commentò alle spalle Morgan, tirandosi di nuovo su i pantaloni.
-Ma quello è il problema minore, è la salute che corre rischi, qui! Ci vuole assolutamente una maglia! Forza, fattorino, vai a svegliare la mia collega. Si sarà addormentata in piedi davanti alla sua finestra!
L’uomo si voltò in un ovvio “Fattorino? E chi sei tu per dirmelo?”.
La donna sgranò gli occhi in un “Non discutiamone, sono un’onesta lavoratrice e sto sgobbando, qui. Sbrigati, esegui”. Oh, sì, tutto questo, parola per parola.
Quando rimasero di nuovo un gruppetto di quattro, la sconosciuta scosse le manopole e parve sciogliersi all’improvviso in confidenza-Hunter, potevi almeno avvertirmi!
-Ma…ma…
-Ma…?-rise lei.
-Ho saputo che qui…lui è il mio migliore amico…
Hunter cercò lo sguardo di Joseph. “Dopo due anni, sei sempre tu?”.
L’amico per poco non scoppiò di nuovo a piangere. “Ommioddio, sì”.
-Stavolta la passi, signorino!
-Oh, sto signorino mi sta uccidendo! Sono un uomo adulto ormai!
Poi si ricompose da vero soldato per finire la presentazione.
-Questo è Joseph, Stuart, il mio migliore amico. Joe, questa è la mia infermiera, Diane.
-Sono la sua ombra, in realtà, adesso-strizzò l’occhio, porgendogli la mano.
-E questa, sempre più cresciuta, è la sorella, Paula-le indicò la ragazza nella penombra.
-E’ un piacere, signora-fece lei imbarazzata, appena vi si trovò a due passi. Vide che nel buio il suo viso era ancora più levigato di prima. Le piccole rughe si mimetizzavano spostando l’attenzione su due zigomi rotondi e truccati.
-Signora? Ma che formalità! Diane va benissimo.
-Ma signorino invece devi tenerlo, eh?-protestò Hunter.
-Signorino perché ora sei veramente piccolino rispetto a me!-spalancò un sorriso segnando a mezz’aria la sua statura.
Vedendo il sorriso sulle labbra dell’amico, i due fratelli ebbero un sobbalzo. Scherzare sulla carrozzina? Sulle sue gambe…gambe…ah, già, come? Cosa era successo? Le gambe non andavano più? Non c’erano più? Ah, no, i suoi pantaloni erano riempiti da sagome verosimilmente di gambe. Ma chissà. E chi aveva coraggio di chiedergli come stesse? Imbarazzante. Però l’infermiera non lo aveva offeso…già, lei. Ci sembrava abituata, lei.
Una rapida occhiata distratta riportò a Paula il pensiero del film horror: sarebbe stato incredibilmente migliore guardarsi sei film horror di fila, che parlare di Hunter, con Hunter. Per parlare degli orrori che aveva visto. Che fifona, era.
Uno scalpitio sommesso annunciò l’arrivo dell’altra infermiera, e un rumore di stoffa, di pantaloni, che raschiava al suolo, quello di Morgan.
-Eh, Magda, deh! Dove eri rimasta?-battè le mani divertita l’altra.
-Ho preso tutto, ombrello, cardigan, coperta di lana, borsa dell’acqua, antipuntura, qualche flacone dalla scatola di emergenza…avrei preso anche le bende ma…una chiamata…che c’era una cosa urgente insomma…mi hanno detto di correre!-respirò a fatica, con le dita tese dopo il lungo elenco.
-Eh, bisogna imparare a scattare! Immaginati un’emorragia? Che faresti?
Hunter si coprì una mano con l’altra e lasciò trasparire un bel paio di corna.
-L’infezione potrebbe diventare grave, insopportabile…l-letale!-alzò la voce Diane-Si vede che devi ancora imparare, mia cara!
-Sì, signora.-riuscì finalmente a rispondere. Pareva sfinita eppure perfettamente curata e in ordine, meglio della sua collega più anziana. Di anni ne avrà avuti venti scarsi. Da come si muoveva pareva fatta di panna montata, di spuma, di aria. La sua stanchezza si agitava dentro una nuvola che sbuffava, rimanendo sempre bianca. Quel pallore e quella dolcezza cozzava con i modi imponenti ed estroversi dell’altra.
-C’era comunque-respirò-una chiamata per te. Era un negozio, una pasticceria sembrava, dal nome.
Diane allungò il polso di Hunter, munito di orologio-Ora? Sicura fosse per me?
-Cr…
Ma l’altra la bloccò sul parlare e le prese le guance-Certo, la torta, Santo Cielo! La torta!
-Ma allora alla fine te l’ha fatta ordinare a te?-accennò Hunter, sorridendo ad una vecchia conversazione. Forse ad una delle prime che aveva avuto con la sua infermiera.
Con il doppio di rumore dell’arrivo, Diane scomparì nella notte. Hunter riuscì a mandare via anche Magda, concedendole un caffè, che i suoi occhi cerchiati accettarono immediatamente. Morgan se ne era andato da un pezzo. Probabilmente a casa del suo vecchio collega per controllare di non aver confuso le uniformi da lavoro. Il ragazzo, spingendo le rotelle, sorrise nell’avvicinarsi ai suoi ospiti.
-Silenzio, grazie al Cielo-tossì imbarazzato Joseph.
-Dunque…
-Vieni, vieni anche tu-offrì un abbraccio Hunter, alludendo a Paula.
Lei si chinò senza poco disagio e gli prese le spalle. Ma non le usciva nessuna parola.
-Da dove volete iniziare?-si morse il labbro-Da questo trabiccolo?
Joseph si guardò le punte dei piedi.
-Oh, avanti, ragazzi, cos’è questo mortorio? Non mi dite nulla? Mi aspettavo che mi aveste preparato almeno una festa di bentornato!
-Tornato? E chi lo sapeva?-protestò l’amico.
-Ma smettila, so da fonte certa che passavi qui davanti ogni giorno…carino da parte tua-schioccò la lingua.
-Beh, a scuola ci devo andare, e qui ci devo passare, per forza-gli fece una smorfia.
-Sapevo che ti saresti fiondato qui appena pubblicavano l’articolo. Insomma, stasera verranno solo i miei amici e quei curiosoni che vogliono sapere perché mi trovo già qui, e vivo per giunta. Pazienza, ci guadagneremo qualcosa.
-Io verrò qui tutte le settimane, se vi serve per guadagnare-gli prese il braccio l’amico.
-Tranquillo, io e lo zio ci siamo sistemati per il meglio.
-Quindi ora abiti qui? Casa tua è ancora sprangata…
-Vedi che ti ho beccato?-gli diede uno schiaffetto-Ci venivi nella mia strada a vedere se ero tornato!
-Se eri tornato, o…temevo..sai.
-Sono vivo, Joe. Forse non completamente integro, ma sto bene. Ora sono tornato. Mio fratello se l’è vista peggio…lo dimettono tra una settimana dall’ospedale. I miei vivono praticamente vicino al suo letto.
-Cosa…?-prese coraggio Joseph.
-Ci ha rimesso la faccia, quel poverino. Mi ha fatto tanta compagnia laggiù, in quel postaccio. Non ho trovato amici degni di te. Di voi, insomma. Solo qualche compagno di reparto stranamente cordiale. Che cosa stupida sarà…ma ti ho pensato ogni volta che stavo per addormentarmi.
-Io l’ho fatto sempre. Probabilmente sarei morto subito a venire con te, ma ho odiato comunque il medico che ha timbrato il mio fascicolo. Cavolo, ogni tanto lo vedo ancora, sai? Ti ha condannato ad andare a morire, quello sciagurato. Medico senza cuore.
-Uh, ti sei iscritto alla scuola di medicina, grazie a me-si fece un applauso Hunter.
-Beh, in un certo senso-si grattò la nuca.
-Davvero, ti senti meglio?-azzardò Paula, usando una di quelle domande tabù che si era prefissa di non tentare.
Stupito, il ragazzo diresse le ruote su di lei-Certo, soprattutto ora che posso andare a letto alle dieci di sera…anche se non da solo, come avrete capito. Sono sorvegliato a vista. Scherzo, ovviamente. Adoro Diane.
-E’ simpatica-continuò l’amico.
-E’ una vera forza della natura. Vi assicuro che sto ancora cercando le altre sei paia di braccia che usa per fare tutto. E poi comunque…beh. Questa cosa delle infermiere mi ha fatto venire anche quel complesso strano…che…aspirante dottore, lei lo sa?
-Ma quella è psicologia! Io studio medicina legale!-scosse la testa l’altro-Però ho visto abbastanza film, qui dentro, per confermarti che esiste solo nella fantasia.
-Si vede che sei proprio legale, eh?-guardò Paula-Secondo me ha senso, insomma queste due donne mi stanno incollate giorno e notte come delle piccole mammine. Può capitare, una cottarella, dopo mesi di assenza!
-Non sembra il tuo tipo- lo fermò Joseph.
-Sarebbe stata il mio tipo, purtroppo…felicemente impegnata-sventolò l’anulare.
-Ti sei preso una cotta...per Diane? Credevo Magda.
-Per la tirocinante? Dovrei stare con lei? Oppure con quella che mi porta sempre un cioccolatino a metà mattino e mi ha persino comprato le bolle di sapone?
Va bene, ai due scappò quasi una risata. Cercarono di mascherarla da contentezza, perché sapevano che qualsiasi cosa ora si mostrasse ad Hunter doveva far parte di una vita che per lungo tempo aveva visto lontana, se non perduta.
-Ma non ci sarebbero una roba tipo una quindicina d’anni di differenza? Non ti disturba?
-Wow, credimi glielo dirò-si rivolse a Paula-lo sapete che quella donna potrebbe essere mia, anche vostra, madre?
-Davvero?-spalancò gli occhi la ragazza.
-Ma sì, io ci credo perché mi ha fatto vedere una foto vecchissima in cui c’è lei da bambina. Penso sia dell’annata di vostro zio…potrebbero essere stati compagni di scuola?
-Potrei chiedere, per esserne sicuro-rise Joseph-Come fa di cognome?
-Rogers, mi pare…ah, no ovvio, tuo zio potrebbe conoscerla con il nome da nubile…cavolo deve avermelo detto…
-Non importa, mi farai sapere…
-Dai, venite, venite a scaldarvi a casa. Guarda, puoi parcheggiare la macchina dentro se vuoi, davanti alla porta dello zio. Così salite un attimo tranquilli e possiamo parlare. Se Diane non sta ancora parlando al telefono, e sarebbe strano, puoi chiederle il nome da signorina. Ma ti prego non chiedergli dei suoi figli, e soprattutto di sua figlia. C’è un cavolo di matrimonio in corso e la vedo sempre più disperata, vi prego.
E potete rassicurarvi col fatto che non tirarono fuori nessun discorso del genere. Probabilmente avrebbe alterato tutta la storia, e compromesso un bel po’ di momenti. Mi dispiace, forse questo non è stato un episodio particolarmente brillante. Ma serviva a puntualizzare che tra Joseph e Paula correvano davvero delle buone acque, nonostante quei bigliettini di passato lontano che erano stati scansati dalla ragazza, proprio quel pomeriggio. Poi anche per puntualizzare che spesso, ma molto spesso, le persone si esprimono a soprannomi, ed essendo pari a un nastro, io li registro come vengono. Cercherò di non beccare delle scene in cui siano fitti fitti .
Da ultimo, come degno tiro mancino a quell’altro narratore sfacciato, volevo fare un’uscita meglio della sua. Lui disse ad Avery e, grazie alla mia citazione, a voi che Dirk era scritto nel futuro di Paula. Ebbene, le due infermiere che sono apparse in questo ricordo si rivelarono estremamente importanti rispettivamente per Joseph e Paula.
E guarda a caso quel giorno una parlò di matrimonio.
-Lo sai che anche Magda mi chiama Freck, come te?
-Straordinario, davvero.
-So che qui lo fanno tutti…
-Straordinario, straordinario.
A.A.
Direi che era ora che spuntasse fuori “Rogers” da qualche parte…
Scusate per il capitolo lunghissimo (seimila parole?), se l’avete trovato eterno. Altrimenti scusate il capitolo brevissimo. La voce del racconto ha già detto parte delle motivazioni per cui l’ho scritto. Io ne posso solo aggiungere una: vi prego non scioccatevi se scoprite ora che Paula si pronuncia come rima di “Nola”. A volte è imbarazzante da dire. Va beh, io lo metto per iscritto, quindi potete leggerlo come preferite. Mi scuso per il testo fitto e il titolo incollato al corpo, ma l'editor me lo fa rimanere sempre scombinato. Cercherò di rimediare.
CCB
  
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