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Autore: acchiappanuvole    30/09/2016    1 recensioni
Dalle gallerie asettiche percorse da gente a maree contrarie, il suono di una chitarra rimbalza sui muri scrostati, vortica nell'aria respirata mille e mille volte, si espande come un richiamo che Reira segue accompagnata sempre da quella infantile, folle, speranza che cancella le leggi divine, le riduce a incubi dai quali è possibile svegliarsi e ritrovare ciò che si credeva perduto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nana Komatsui, Reira Serizawa, Satsuki Ichinose, Shinichi Okazaki, Takumi Ichinose
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Era successo così, mentre saliva le scale del Jackson, una prima avvisaglia poi un dolore più intenso. Si era abbracciata il ventre, quel ventre  così grande e duro come un pallone di cuoio, le ginocchia l’avevano sorretta a malapena ed un brivido gelido le aveva percorso la schiena come una scossa. Aggrappata alla ringhiera, aveva iniziato a respirare, come le avevano insegnato, cercare di mantenere la calma, chiedere aiuto. “Non ora Satsuki, non ora…” aveva supplicato con il pensiero, “non ora”, ma la creatura dentro di lei sembrava desiderosa di venire al mondo; un’altra fitta, stavolta tenere il gemito le era stato impossibile. Alzando lo sguardo verso la strada aveva sperato di scorgere qualcuno, poi si era voltata, imponendosi la forza per raggiungere la porta del locale. Il dolore tuttavia sembrava intensificarsi, la ricerca del cellulare nella borsa risultava un’impresa epica. Uno squillo a vuoto, due, tre…la segreteria telefonica. Hachi si morse il labbro, un moto di rabbia e frustrazione le sporcò gli occhi, suo marito troppo impegnato in qualche motivo di lavoro per poter rispondere al telefono. Con un profondo respiro, il cuore che batteva a mille, selezionò un secondo numero. Anche in questo caso la sola voce che l’accolse fu quella della segreteria. “Nana sono Hachi…io…sono al Jackson e credo che ci siamo…ho paura Nana, ti prego vieni da me.” Forse per una magnanimità del grande demone celeste, la porta del Jackson si aprì rivelando l’immagine di Koichi, e per Hachiko fu l’equivalente dell’apparizione di un angelo.
“Nana che succede?” il ragazzo la raggiunse sulle scale e lei fu sollevata di aggrapparsi al suo braccio, spiegare la situazione, vederlo impallidire e aiutarla ad entrare nel locale. 
L’aveva fatta sedere su una delle poltroncine, le aveva intimato di stare calma, poi si era precipitato a chiamare un’ambulanza. Intanto, travolta dal panico, Hachi si era accorta dell’acqua che le scivolava lungo le gambe, un primo moto di vergogna e poi di paura, la vacillante imposizione di cercare di calmarsi. Di nuovo ricorse al cellulare e quando Junko rispose non poté fare a meno di scoppiare in lacrime terrorizzata supplicando l’amica di aiutarla.
L’ambulanza era arrivata piuttosto in fretta, e qualche minuto dopo, all’ingresso dell’ospedale, Hachi era stata grata di scorgere la figura di Jun raggiungerla in modo trafelato, avvicinarsi alla barella e stringerle forte la mano con parole rassicuranti. Hachi non ricorda molto del seguito, soltanto le pareti asettiche della stanza, ed il dolore continuo delle contrazioni, sembravano non voler finire mai. Di tanto in tanto, sfinita, volgeva lo sguardo alla porta bianca della stanza, la continua speranza che Nana vi facesse irruzione, sbraitasse dietro a medico e infermieri intimandoli di darsi da fare. Quell’immagine la rassicurava.
“Nana respira” Junko non le aveva mai lasciato la mano “così, brava. Andrà tutto bene. Ho chiamato tua madre, si sono già messi in viaggio.”
“Arriveranno quando Satsuki sarà già nata.” Mormorò malinconicamente per poi strozzare un gridolino all’ennesimo colpo.
“Non so se riuscirò a farcela, Jun.”
“La solita pappamolla, non sei la prima a partorire e non sarai l’ultima, invece di dire stupidaggine continua la respirazione.”
E in quel momento Hachi avrebbe volentieri mandato al diavolo l’amica, lei che ne sapeva di quel che si prova?!  Tenta di concentrarsi sul respiro, di seguire la voce di Jun, ma la paura  cresce in petto con vigore sempre maggiore.
“Mi faccia passare!”
Una voce perentoria, il soprabito scuro.
“Alla buon’ora.” Sopira Jun lasciandole la mano. E Hachi tenta di afferrare l’aria accanto a sé, Takumi ora l’affianca e la sua mano grande avvolge la sua, la tiene saldamente. Hachi piange, è venuto a salvarla ancora una volta.
“Takumi…Takumi..” chiama spaventata, “e se non ne fossi in grado? Se non fossi una buona madre?”
“E’ un po’ tardi per queste considerazioni mi pare.”
E avrebbe voluto incenerirlo se il dolore non le avesse smorzato le parole sostituite ad un gemito.
“Satsuki pare non vedere l’ora di vederti e anch’io onestamente non vedo l’ora di avere tra le braccia la nostra bambina.”
Nostra.
Il suono di quella parola è così bello da farla sorridere tra le lacrime.
“Andrà tutto bene, entrerò con te okay? E ti terrò la mano tutto il tempo, sarò lì con te.”
Hachiko annuisce, volge un’occhiata a Junko con gratitudine, sa che è merito suo se Takumi ora si trova lì.
“Non ci saranno videocamere o roba simile ad immortalare l’evento, vero?” chiede perplessa.
“Santo cielo no! Sono un ragazzo sensibile non ho nessuno intenzione di immortalare una scena splatter.”
E vedendola assumere una colorazione grigiastra Takumi comprende che la battuta non è stata gradita.
“Voglio andare a casa!”
“Nana non fare la mocciosa.”
“Bella forza te ne stai lì a sindacare mentre io sono qui che…oddio mio che male!”
“Facciamo così, durante il parto potrai inveire contro di me quanto vorrai.”
“Quanto voglio?”
“Garantito.”
“E se iniziassi ora?”
“Non ti allargare.” E all’ennesima stretta e contorsione Takumi si rivolge ad un’infermiera. C’è un via vai di camici azzurrini intorno al letto di Nana, la stanno preparando, la incoraggiano, ora dipende tutto da lei. Solo da lei.


“Mi dispiace…mi dispiace io…non avrei dovuto dire quelle cose.”
“Non è tanto importante il fatto che tu le abbia dette quanto il fatto che tu possa pensarle per davvero. Potrei darti un milione di attenuanti su tutto, Nana. Ma non sui nostri figli, questo no, non posso proprio.”
“Forse volevo solo ferirti,” la voce esce stanca, arresa, “tu con me ci sei riuscito così tante volte che…”
“…volevi rendermi il favore” Takumi fa una pausa, ancora non si volta, “forse anch’io volevo solo ferirti, siamo pari in questo.”
Nana passa una mano sulla stoffa  come a voler lisciare le pieghe invisibili del lenzuolo, quanto tempo è passato dall’ultima volta che sono stati insieme in quel letto? La penombra a riparare da sguardi che potrebbero dirsi troppo, rinfacciarsi troppe cose.
Le spalle di Takumi sono forti, Nana ne conosce la tensione sotto la stoffa scura della camicia, quel suo stare sempre in posizione eretta come il pennone maestro di una nave. Si domanda se quelle spalle siano mai state sul punto di cedere, di rinunciare a tutto, di lasciare andare tutto, compreso il gigantesco orgoglio. Forse Takumi può esserne stato tentato. Forse, chissà. Vorrebbe chiederglielo, vorrebbe chiedere tante cose; chiudere a doppia mandata la porta di quella stanza e con essa il mondo, ogni cosa, e avere la libertà di conoscerlo, conoscere per davvero suo marito. Non parlerebbe d’amore, poiché l’amore ancora la confonde, non saprebbe dire come inizia e ancor meno come finisce, il perché finisce, il quando finisce. Se tutto potesse rimanere come il primo giorno, il primo momento. Così perfetto da sembrare finto.  Una stupida ragazza che affetta pomodori in un’atmosfera festosa, un ragazzo bellissimo, idolo dell’adolescenza, che esprime un commento tanto semplice e banale su una verdura altrettanto banale. Sulle labbra di Nana si abbozza un sorriso a quel ricordo, il cuore le era battuto forte tutta la sera da impedirle di dormire.
“I pomodori. A Takumi piacciono i pomodori.”
Il primo bacio, rapido e improvviso, davanti ad un semaforo, l’euforia improvvisa e la conseguente consapevolezza di essere una delle tante. Eppure…
“Mi hai mai amato, Takumi?” e si sorprende lei stessa dalla lucidità della domanda, del modo in cui le parole le siano uscite dalle labbra senza alcuna difficoltà.
Finalmente scorge una reazione, lui si volta, la guarda attraverso la semi oscurità della stanza e lei si ritrova a trattenere il fiato come si trattasse di una lunga, infinita apnea. Lui è così serio, la fronte corrugata e gli occhi che la scrutano, affondano, forse a cercare una Nana Komatsu che non esiste più.
“Non è difficile innamorarsi di te, Nana. ”
Nana riprende a respirare, elabora quanto appena detto, lo ingloba dentro di sé, non sa che sapore dargli. Dolce e amaro. Sì, un sapore simile. Sa maledettamente di rimpianto, di vuoto, lo stesso che li separa anche ora,  un vuoto che Nana vorrebbe colmare, abbracciandolo da dietro, nascondendo il viso contro quella schiena forte.
“Nana credo che il modo migliore per parlare con Ren sia farlo insieme. Fino ad ora abbiamo sempre percorso binari paralleli con entrambi i nostri figli, se parlassimo loro francamente sono certo che si confiderebbero. Non credi?”
Nana accoglie quel repentino cambio d’argomento, ancora una volta Takumi la porta lontana da loro, dalla loro storia, e le restituisce una strada franca, una fuga sibillina. Ren e Satsuki prima di ogni altra cosa. E lei sa  che non c’è nulla di più giusto.
“ Vorrei che però tu non mi remassi contro, Takumi. Tengo alla felicità dei nostri figli più che a qualsiasi altra cosa, lo sai.”
Takumi annuisce, “lo so e appunto per questo ti sto proponendo collaborazione.”
Takumi non accenna a Nobu, ha eliminato anche solo la possibilità di una simile richiesta. “E’ meglio andare a dormire. Scusa se sono entrato in questa stanza, l’ho fatto senza pensare.” Si alza, percorre i pochi passi che lo separano dalla porta.
“Puoi restare…” la voce di Hachi è sottile ma perfettamente udibile “è la nostra stanza.”
“Nana…”
“Siamo ancora sposati, dopotutto. Nessuno avrebbe nulla da ridire.” E sembra voler convincere più sé stessa che lui.
“Il problema è che non mi fido sufficientemente di me stesso.”
“Bella novità” sospira lei,“ io invece ora mi fido sufficientemente di me stessa per dirti che se vuoi rimanere qui io…io sono d’accordo.”
E le piace leggere quell’espressione vagamente sorpresa e smarrita sul volto del marito. Quegli occhi che si fanno un po’ più dolci quando si piega su di lei sfiorandole la fronte con le labbra.
“Buona notte, Nana.”



L’appartamento di Chikage è piccolo ma ben arredato, colori tenui e buon gusto, una mite pacatezza d’insieme. Misato sorride, tutto rispecchia pienamente il carattere della sua migliore amica.
“Per ora devo farti dormire su questo futon ma appena possibile potremo andare a cercare insieme un bel letto.”  Propone,quasi imbarazzata, per non poterle dare una sistemazione migliore.
“Così è perfetto Chi, non preoccuparti. E poi non ho intenzione di disturbarti per molto, sono già alla ricerca di un appartamento.”
Chikage non ne sembra entusiasta, “lo sai che per me non è affatto un disturbo. Ho sempre sperato che un giorno saremmo state coinquiline. Mi rendo conto che qui è troppo piccolo, ma se il colloquio alla Happy Berry andasse bene… potremmo cercare insieme un appartamento più grande, non trovi?”
Misato annuisce con dolcezza, ma si è resa conto di essersi trasformata in un’anima troppo solitaria che esige uno spazio tutto suo.
“Non mi vuoi proprio dire che è successo con Shin?”
“Divergenze di opinioni, l’atmosfera si stava facendo pensante” taglia corto iniziando a sistemare i pochi vestiti all’interno dell’armadio. “Che buon profumo.”
Chiakage le mostra un sacchettino color malva “è essenza di zagara, me ne sono innamorata. Volevo proporre un vestito primaverile utilizzando i filamenti di questa particolare pianta per dare un effetto profumato al tutto; certo sarebbe solo per la passerella, i filamenti sono simili alla seta e potrei utilizzarli in quantità limitata, senza contare che il profumo finirebbe con lo smorzarsi poco a poco. Però mi pare un’idea creativa…o forse sono solo folle.” Ride impacciata come se avesse detto qualcosa di sciocco.
“Invidio così tanto la tua creatività,” e Misato è profondamente sincera, “trasmetti così tanta passione, mentre mi parlavi ti brillavano gli occhi.”
“Misato anche tu sei creativa.” Chikage le si avvicina, “scrivi testi bellissimi.”
“Oh per favore!” sbuffa “ sono paranoie adolescenziali che non portano da nessuna parte. L’unica arte in cui eccello è il disordine. In quello sono maestra.”
Chiakage scuote la testa con fare rassegnato, “la verità è che hai poca fiducia nelle tue capacità, e questo è un male.”
“Sì, mamma”
“Non prendermi in giro! Accidenti è tardi, se perdo anche questo lavoretto part-time finirò sotto i ponti. Al ritorno prenderò qualcosa da sporto.”
“Penso io alla cena, non preoccuparti.”
Chiakage fa per protestare ma infine desiste. Raccoglie velocemente i capelli in una coda, sembra ancora una ragazzina, il viso pulito, le guance un po’ arrossate. Saluta e scompare oltre la porta fiorata.
Misato ora è sola in un ambiente troppo dolce per il suo umore. Rimane immobile al centro della stanza, su una parete Chikage ha messo insieme un significativo numero di polaroid che ritraggono i momenti più disparati.  In alto a sinistra, risalta una loro foto di ragazzine. Chikage timida e composta, con lo sguardo sereno dietro le lenti degli occhiali, e lei agitata e ribelle in quegli abiti punk così simili a quelli di Nana. Quanto desiderava emularla a quei tempi.
Il campanello suona, Misato sussulta, osserva la porta ed il campanello suona ancora.
“Scommetto che hai dimenticato le chiavi!” esclama mentre la apre. Ma la persona che si trova davanti non è certo Chikage.
“…perché sei qui?”
Shin la sta fissando, c’è qualcosa di simile al rimprovero in quegli occhi.
“Mai mi ha detto che ti sei trasferita qui, oltretutto sei ancora la mia assistente e manchi dal set già da un paio di giorni.”
Misato arretra di un passo, “mi dispiace ho intenzione di dare le dimissioni oggi stesso.”
“Non le accetto.” E il tono è così freddo che Misato se ne sorprende.
“Non spetta a te ma alla Shikai accettarle o meno.”
“Di fatto tu sei la mia assistente ne consegue che sono io ad avere l’ultima parola.”
Misato sospira esasperata con la forte tentazione di chiudergli la porta sul muso.
“Dimmelo francamente vuoi punirmi?”
“No, voglio impedirti di fare stupidaggini. E comunque potresti farmi entrare non è carino tenere un ragazzo sulla porta, soprattutto quando si è preso un pomeriggio libero per avere a che fare con l’insubordinazione di una sua dipendente.”
“Prego?!” Misato strabuzza gli occhi, Shin la spinge da parte entrando nell’appartamento.
“Ehi io non ti ho dato il permesso di entrare!”
“Sono certo che Chikage non avrebbe nulla in contrario.” Strizza l’occhio con ironica seduzione, “è carino qui.”
“Sì può sapere che vuoi!?”
Shin le porge un’agenda, una semplice copertina nera a custodire un buon numero di fogli.
“L’avevi lasciata da me.”
Misato arrossisce recuperando l’oggetto. “Non me ne ero accorta…grazie.”
“Sono dei bei testi.”
“Tu…tu li hai letti?”
“Non è stato intenzionale, giuro.”
“Figuriamoci.” Misato gli gira attorno, si abbandona su di una poltrona  improvvisamente priva di forze. “come se potessi fidarmi delle tue “non intenzioni”.”
Shin sorride, le siede di fronte, liberandosi del cappello che fino a pochi istanti prima gli adombrava gli occhi.
“Diciamo che non avevo intenzione di leggerlo quanto tu non avevi intenzione di lasciarlo da me.”
“Credi lo abbia fatto apposta?”
Shin alza le spalle, “io una volta lasciavo un oggetto al quale tenevo molto nella stanza di qualcuno fingendo di dimenticarmene. Vecchia scuola.”
Misato accenna un sorriso, “già. Non avrei mai avuto il coraggio di chiederti di persona di leggerlo. Dall’altra parte però non avrei potuto immaginarmi nessun altro che avrebbe potuto darmi un giudizio sincero.”
“Black Roses parla di tua madre, vero?”
Misato annuisce, “volevo far sgorgare le parole di Nana, mi sono immedesimata in lei nel tentativo di scrivere quel testo. Ma poi il mio sentire ha preso il sopravvento e così…”
“E così hai fatto uscire i tuoi sentimenti. Cantala.”
“Che?”
“Qui, adesso, per me.”
“ Te lo puoi scordare!”
“Andiamo Misato, hai scritto testo e musica. Ed io ora voglio sentire la tua voce.”
Misato scuote lentamente il capo, non ha mai cantato davanti a qualcun altro, le sue sono sempre state melodie solitarie rivolte ai fantasmi della vita. Nana, la sua forza fragile, una barca alla deriva sotto l’inclemente scroscio della pioggia; non le era stato dato di poterla conoscere, di poterla abbracciare e chiamare nee-san, cosa che probabilmente Nana avrebbe scherzosamente disapprovato. Misuzu. Misuzu è il nome di un’estranea, di una madre dai mille retroscena, troppe maschere dietro le quali non si riesce più a riconoscere un volto vero. E’ pensando a Misuzu che Misato ha scritto la canzone. Abbozza un sorriso amaro realizzando che le due figure femminili più importanti della sua vita hanno qualcosa che le accomuna: la fuga davanti agli eventi. Non saprebbe dire dove è una e dove è l’altra, le immagina solitarie su traghetti stranieri mentre attraversano acque grigie cariche di rimpianti e malinconie, ma questo non la compassiona, anzi, suscita solo rabbia.
Sprofonda un po’ nel cuscino di piuma e con consapevolezza nuova impugna la vecchia chitarra acustica, regalo di un padre distrutto dal tradimento della moglie, qualche accordo per dare la giusta tonalità.
“L’ho pensata accompagnata da un pianoforte,” dice prima di intonare la prima strofa.
Posso vedere i tuoi occhi fissi nei miei,
ma è un campo di battaglia e tu sei dall’altra parte.
Sai scagliarmi addosso parole più affilate di un coltello,
e lasciarmi al gelo di un’altra casa in fiamme.
Mi nascondo, mi nascondo a guardare i ponti bruciare.
Mi nascondo, che altro potrei fare?
Ora tu mi porti solamente rose nere che diventano
polvere una volta afferrate.
Ora mi porti solamente rose nere sotto il tuo
incantesimo.
 Me li ha ripetuti per due volte tutti i tuoi buoni consigli
ma non riuscivo a comprendere che ero annebbiata dalle tue
bugie.
Finirai col fumare, ha detto, stai alla larga da quel ragazzo perché
porta guai.
Mi nascondo, mi nascondo a guardare i ponti bruciare.
E ne ho abbastanza di essere quella giusta,
raccogliendo i pezzi di ciò che è andato in frantumi.
Ne ho abbastanza di essere obbediente,
chi mi dirà un falso ti voglio bene?
Me ne sto andando.
Ora tu mi porti solamente rose nere che diventano
polvere una volta afferrate.
Ora tu mi porti rose nere ma io non sono più
sotto il tuo incantesimo.”*

C’è una lacrima solitaria sulla guancia di Misato, una lacrima che Shin si china a raccogliere a fior di labbra, con una dolcezza che persino lui si sorprende di possedere. Ed è meravigliosa Misato in quel momento, libera delle sue pene, con gli occhi lucidi e le labbra increspate di emozioni troppe volte trattenute.
“Devi far ascoltare la tua voce, Misato.”
“Non sono come Nana, non ce la farei ad affrontare un palco e tutto il resto.”
Shin le prende la mano, “Nana voleva fare musica per riscattarsi della vita avuta, tu hai l’anima che canta ed è un peccato continuare a tenerla rinchiusa in gabbia, ti pare?”
Un’occhiata torva, “Shinichi Okazaki non siamo in uno dei tuoi sceneggiati.”
Shin si allontana non nascondendo una certa soddisfazione per aver centrato il bersaglio, “certo, in uno sceneggiato non mi sarei perso troppo i dolcezze e parole, avrai detto una grossa banalità e poi probabilmente saremmo finiti a letto. Invece sto parlando seriamente, farai una demo di questa canzone ed io la proporrò alla casa discografica.”
“Perché ti sta tanto a cuore? Visto e considerato poi quello che è successo tra noi…”
E la domanda lo sorprende perché non ha una risposta. Una vera risposta.
“ Non lo so perché ci tengo, “ ammette “ma è così, qualcosa in contrario?”
Misato sospira, e in quel sospiro libera la tensione e la gratitudine. “No. Niente in contrario.”

Il Casba uno dei locali più trendy di Shibuya, Satsuki ha insistito sull’influenza paterna per poterne affittare una delle grandi stanze orientali, uno spazio capiente adatto per ospitare tutti i suoi amici. Satsuki sorride all’arrivo di ogni invitato, gli amici più intimi e i compagni di classe; arrossisce quando Hiroki le bacia le guance consegnando il regalo, si sente orgogliosa sentendo Izumi Aino, la ragazza più popolare della classe, proclamarsi soddisfatta per la location. Dispensa ringraziamenti a tutti, da brava padrona di casa, è una quindicenne ora, avvolta nel vestitino cobalto, i capelli raccolti che la fanno sentire donna adulta. Una sicurezza che vacilla quando Ko fa il suo ingresso vestita in look boy, i capelli mogano tagliati corti ed un filo di trucco che le conferisce un’aria più matura. Ko non si atteggia, è sé stessa, si muove con sicurezza ed un tratto a Satsuki appare anni luce da lei e tutti gli altri compagni. Si abbracciano, chiacchierano per qualche istante, Ko le tiene la mano, calda e un po’ sudata.
“Sei nervosa?”
“Un pochino, sono venuti tutti, mi sento un po’ sotto esame,” ammette Satsuki.
“Non devi, è la tua festa e siamo qui tutti per questo. Non vedo adulti a guardia di noi scapestrati…”
Satsuki sospira, “ci sono ci sono, sono radunati in una saletta qui accanto, è il patto che ho fatto con mamma. Loro mi lasciano campo libero a patto di poter venire a dare una sbirciatina ogni tanto. In realtà non ero contraria al fatto che stessero qui con noi ma…” si avvicina all’orecchio di Ko, “in classe ho sentito Izumi dire che avere degli adulti al proprio quindicesimo è l’equivalente di qualsiasi festa per bambini.”
“Da quando ti preme tanto assecondare le opinioni di una come Izumi!?”
Satsuki fa spallucce, “non lo so, mi ha fatto sentire inadeguata.”
Ko assume un’espressione materna che a Satsuki provoca un lieve fastidio, come se la sua amica fosse sempre su un gradino più alto rispetto a lei. Il primo giorno di scuola, quando l’aveva scorta per la prima volta, quell’aria cool e distaccata l’aveva affascinata subito. Ko doveva essere così sicura di sé, giudicava il mondo con maturità e distacco, per questo Satsuki ne era rimasta così colpita. Ma ora quel senso di inferiorità le pizzica gli angoli degli occhi. Si allontana con una scusa, deve salutare un po’ di gente e soprattutto…soprattutto scorgere la persona che più d’ogni altra desidera vedere.

Si fa largo tra gli invitati, sistema la gonna del vestito, controlla che i capelli siano ancora in ordine. Shin è fermo sulla porta, sta parlando con Nobu; Satsuki allarga un sincero sorriso, pochi passi ancora prima di fermarsi di colpo. Accanto a Shin c’è una ragazza, Satsuki la conosce, è Misato la sorella di Nana. Non ci sarebbe nulla di male nella sua presenza, ma alla ragazzina non sfugge la mano di Shin appoggiata sulla spalla di lei, di tanto in tanto sembra esercitare una lieve pressione, un gesto protettivo che fa leggermente arrossire le guance di Misato. Così bella Misato, così simile alla foto della Osaki che sua madre custodisce gelosamente. Di fronte a lei che fine fa una quindicenne con troppi sogni e poca concretezza? Satsuki arretra, si nasconde nel nugolo di compagni che ballano e schiamazzano, improvvisamente innervosita dalla loro presenza. Vuole restare sola. Svicola il loro entusiasmo, deve raggiungere il bagno e prega dentro sé che Ko non la veda, o perlomeno abbia la buona grazia di non seguirla, non sopporterebbe nemmeno lei.
Ko non la vede, in verità non vede nessuno, tutti i presenti sono festanti che lei invidia e ai quali sente di non appartenere. Sorseggia dell’aranciata, il forte suono della musica le fa fischiare le orecchie e necessitare una boccata d’aria. Tenta di individuare Satsuki ma sa che la sua amica si starà divertendo con l’energia e la gioia di vivere  che da sempre la caratterizzano. Ne era rimasta affascinata fin dalla prima volta che si erano conosciute, lo sguardo innocente di Satsuki, il suo sorriso e la tendenza a trovare sempre il lato positivo nelle cose. Ko avrebbe dato qualunque cosa per avere un po’ di quella positività, di quella gioia. Non era mai stata abile nel fare amicizia, una timida insicurezza di fondo che mascherava dietro una corazza più dura. Le altre ragazze si trovavano in soggezione vicino a lei, la guardavano come si guarda qualcosa che non si riesce a comprendere, a distinguere. Desistevano lasciandola al suo mondo. Ma Satsuki no. Satsuki si era imposta nel suo cuore con una semplicità tale che adorarla era stato inevitabile.
Sospira individuando una porta finestra che permette un po’ di solitudine. L’aria esterna è piacevole ma le increspa leggermente la pelle. Intorno le luci di Tokyo avvolgono i suoi pensieri, abbagliano con il loro artificiale splendore, ma Ko vorrebbe che ogni cose si spegnesse per lasciare campo libero alle sole stelle, alla loro presenza distante e rassicurante. Guardare quel cielo colmo di fiammelle tremolanti e poter respirare, un lungo profondo respiro liberatorio.
“Non ti piace la festa?”
Sussulta voltandosi di colpo. Ren ha appena attraversato la porta, l’affianca senza guardarla direttamente. Ko segue con lo sguardo la medesima non direzione.
“Purtroppo non so stare molto in mezzo alla gente.” risponde con tono neutro.
“Idem.” Ren ora la guarda, sembra studiarla con discrezione e questo la spaventa.
“E’ da un po’ che non ci si vedeva, ti sei deciso a tornare in Giappone.”
“Ripartiremo dopo domani. Londra è la mia casa, qui…”
“Qui ti fa paura.”
Un lieve sorriso dipinge le labbra del ragazzo, “dimenticavo che hai la vocazione alla psicologia.”
“Scusami, tento sempre di analizzare gli altri, come se questo mi aiutasse a comprendere meglio. Mio padre mi dice spesso che sono vecchia per la mia età,” fa una smorfia, “che è come dire che sono tremendamente noiosa.”
“Uhm credo che sia più o meno quello che pensano di me anche i membri della mia famiglia.”
“Quindi siamo noiosi.”
“Già.”
“E spaventati.”
Ed è nella naturalezza con cui Ko lo ammette che Ren si trova spaesato e tuttavia l’affermazione in se stessa non lo destabilizza, come se la presenza della ragazza potesse mitigare il tumulto che si trascina dietro.
“Londra deve essere molto bella, qualche volta immagino di salire su un aereo e lasciarmi tutto alle spalle. Ricominciare da capo. Poi mi rendo conto che sarei sempre io e probabilmente il mio modo di essere non varierebbe, non cambierebbe niente. Questa età è davvero uno schifo, non vedo l’ora di essere più adulta e vedere le cose sotto una luce diversa, adesso anche le banalità sembrano insormontabili.”
“Non è che gli adulti siano meglio, anzi…per esperienza direi che sono molto più problematici di noi.”
Ko sorride, ed è bella quell’improvvisa luce che le accende il viso. “Non sono mai salita su un aereo.”
“Mai?”
“Mai. Quindi uno dei miei passatempi è andare all’aeroporto.”
E lo sguardo perplesso di Ren non la demoralizza, anzi la diverte.
“Prendo la metropolitana e scendo all’aeroporto, almeno una volta a settimana. Dico a tutti che vado in palestra per giustificare di avere con me un borsone che mi da l’idea del bagaglio,” indica un punto indefinito oltre lo skyline della città, “quando sono lì osservo gli aerei che partono, guardo il tabellone delle destinazioni e ne scelgo una. Non fare quella faccia, è così pazza come cosa?”
“Oddio di certo è insolita.”
“Fin da piccola per me gli aerei erano una cosa che si vedeva in cielo. Lontanissimi. Quasi invisibili. Più rumore che materia. Per questo già allora scappavo da scuola e me ne andavo all’aeroporto a vederli decollare e atterrare. Quel momento perfetto in cui abbandonano la pista, in cui si disinteressano dell’attrazione della terra…io li guardo salire e mi dico sì sì…un giorno ci sarò anch’io lì dentro. In prima classe.”
Arrossisce, come se si rendesse conto di aver rivelato troppo di sé stessa, come se un giudizio negativo dovesse improvvisamente investirla. Ma negli occhi di Ren c’è dolcezza, forse sorpresa, ma nulla che lasci intendere che la reputi una svitata osservatrice di aerei.
“Io invece scappo da scuola per andare al mare.” Dice invece, “prendo un treno fino a Brighton, una delle località di mare più vicine alla città, e me ne sto lì in contemplazione. E’ un po’ come se il mare mi chiamasse, immagino di immergermi, di sprofondare dolcemente sul fondo, osservare la luce del sole attraverso l’acqua, le scie schiumose delle barche…mi fa sentire protetto.”
“Come in un ventre materno.”
Il volto di Ren si incupisce un po’, “può darsi. Mia madre mi ha detto che quando ero nel suo ventre non mi facevo mai sentire, non calciavo nemmeno. Mio padre prendeva la chitarra, sedeva accanto a lei e suonava per me e solo allora io palesavo la mia inconsapevole presenza. Premevo appena sul ventre, “una carezza”, dice mia madre. Ovviamente non ne ho memoria e può darsi si siano inventati tutto di sana pianta.”
“Perché dovrebbero?”
Ren sospira teatralmente, “non so se hai presente ma i miei vivono la rappresentazione di un dramma da una decina d’anni a questa parte. Non so distinguere se quello che esce dalle loro bocche sia verità o l’idea di una verità. Immaginarli vicini sul divano in un’idilliaca rappresentazione di vita coniugale è surreale.”
Rimangono entrambi in silenzio per qualche istante, sotto di loro vortica un traffico composto, coppie per mano sullo sfondo di vetrine colorate.
“Posso accompagnarti?” Ren rompe il silenzio, le sue dita battono uno strano ritmo nervoso sulla balaustra in ferro.
“Accompagnarmi?”
“All’aeroporto. Potremmo scegliere insieme una meta, qualche posto talmente distante da dare l’idea che un ritorno sia impossibile.”
“Sei serio?” Ko sembra allibita.
“Serissimo. Sgattaioliamo via, nessuno farà caso a noi.”
“Ma è la festa di Satsuki.”
“Ritorneremo prima che se ne accorga.”
“Impossibile.”
Ren si allontana dalla balaustra e le porge la mano, la sta invitando a seguirlo, a lasciarsi andare, ad allontanarsi dalla festa della sua migliore amica per fingere di poter scappare lontano, mano nella mano.
E razionalmente Ko sa che è sbagliato, sa che Satsuki lo reputerebbe un terribile tradimento…o forse no? Vacilla, volge un’occhiata all’interno, la pista da ballo, le luci, il divertimento. Afferra la mano di Ren, quella strana affinità che la ipnotizza e le promette un’evasione da tutto il resto.


Note: E’ passato un bel po’ dall’ultima volta che ho aggiornato e me ne scuso. Se ancora non lo sapete vi posto qui una notizia che,come è successo a me, vi farà felicissime!!!
A seguito di ciò ho intenzione di concludere questa fan fiction per il mese di ottobre, quindi gli aggiornamenti saranno più rapidi e ci avvieremo a conclusione.
Qualche precisazione dovuta:
volevo ridare un po’ di impronta musicale anche alla mia fic per richiamare ancor meglio il mondo di Nana. Ovviamente il testo della canzone “Black Roses” non è mio ma appartiene alla serie televisiva “Nashville”. Ho tradotto il testo in italiano per rendere un po’ più chiara l’idea ( anche se tradotti i testi perdono molto del loro appeal) e qui trovate l’interpretazione originale.
La prima volta che ho sentito questa canzone l’ho subito associata a Nana, ma la voce dell’interprete Clare Bowen è molto differente da quella della Tsuchiya così ho pensato che potesse essere adatta a Misato. E’ vero che non conosciamo la voce della sorella di Nana ma, nel mio immaginario, è una voce più dolce rispetto a quella della Osaki.  Scusate dunque se mi sono presa questa libertà.
Il Casba è un locale effettivamente esistente a Tokyo ed è molto conosciuto perché frequentato principalmente dall’ambiente della moda, cosa che ho trovato il linea con le passioni della Yazawa.  Ovviamente essendo un posto frequentato principalmente nell’after dinner e in tarda serata dubito che si svolgano compleanni per quindicenni XDD ( ma magari con una buona parola e soprattutto un buon esborso da parte dell’ex leader dei Trapnes chissà…XDDD) quindi è un’altra libera concessione che mi sono presa.

 

https://blog.screenweek.it/2016/08/nana-ai...-ter-528448.php
  
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