Anime & Manga > Rocky Joe
Segui la storia  |       
Autore: innominetuo    02/10/2016    10 recensioni
Joe Yabuki ritorna sui suoi passi, dopo un anno di dolore e di rimpianto. La morte di Tooru Rikishi lo ha segnato profondamente. Ma il ring lo sta aspettando ormai da tempo.
E non solo il ring.
…Se le cose fossero andate in un modo un po’ diverso, rispetto alla versione ufficiale?
Storia di pugilato, di amore, di onore: può essere letta e compresa anche se non si conosce il fandom e quindi considerata alla stregua di un'originale.
°°°°§*§°°°°
Questi personaggi non mi appartengono: dichiaro di aver redatto la seguente long fic nel rispetto dei diritti di autore e della proprietà intellettuale, senza scopo di lucro alcuno, in onore ad Asao Takamori ed a Tetsuya Chiba.
Si dichiara che tutte le immagini quivi presenti sono mero frutto di ricerca su Google e che quindi non debba intendersi il compimento di nessuna violazione del copyright.
Si dichiara, altresì, che qualsivoglia riferimento a nomi/cognomi, fatti e luoghi, laddove corrispondenti a realtà, sono puro frutto del Caso.
LCS innominetuo
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Bianche Ceneri'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
banner-nuovo-per-l-unico-domani
Con pochi gesti metodici accese i bastoncini di incenso: aveva acquistato quelli più pregiati e profumati.

Si sentiva stranamente tranquilla.

Non credeva che si sarebbe ritrovata così composta e serena, come se stesse ripetendo, pure in quel momento, gli stessi infiniti gesti, giorno dopo giorno… Anno dopo anno. A dire la verità, gli anni erano passati. Più di dieci, per l’esattezza, ma alla fine era ritornata in Giappone: si era auto-esiliata per tutto quel tempo per ricostruire se stessa e la sua vita sotto un altro cielo.

Tokyo era cambiata, ancora e ancora, divenendo più grande, moderna ed all’avanguardia: aveva fagocitato antichi quartieri, radendoli al suolo e ricostruendoli, mattone su mattone. Namidabashi era divenuto, alla fine, una zona residenziale, pulita e decorosa, dato che tutte le baracche di legno erano scomparse per sempre: al loro posto erano state costruite molte graziose palazzine e persino qualche villetta con giardino. Nulla di elegante o di prestigioso: ma di certo le latrine a cielo aperto, con i fetidi ed immondi rigagnoli che ti mozzavano il respiro, erano divenute un lontano e sgradevole ricordo.

Pure la palestra sotto il ponte non c’era più da tanto tempo.

Ma ricordi erano rimasti tutti al loro posto.

°°°°°°

Circa dieci anni prima, al Budokan, in una sera di fine novembre…

Joe si sciacquò il viso, stropicciandosi gli occhi. Poi si asciugò metodicamente le mani, che Nishi gli aveva già fasciato per il match. C’era ancora un bel po’ di tempo, prima dell’incontro, ed aveva richiesto al suo staff di potersene restare da solo nello spogliatoio, per concentrarsi e per non doversi sforzare di fare conversazione. Si era accostato alla finestra, così da osservare il traffico convulso di quella sera di fine novembre. Come al solito, aveva delegato Tange di rispondere in vece sua agli ultimi, assillanti giornalisti.

Solo all’ultima conferenza stampa di qualche ora prima si era lasciato un po’ andare, rispondendo alle domande in un modo un po’ più cortese del solito. Aveva persino sorriso ai fotografi. Ma il momento per Joe più bello, quello in cui si era davvero sentito a suo agio, era stato quando Josè gli si era avvicinato per stringergli la mano: lo sguardo attento e sereno con cui gli si era fatto incontro il suo avversario, che pochi istanti prima aveva rivolto al suo indirizzo parole gentili e rispettose, definendolo “un’autentica promessa della boxe internazionale, un giovane ricco di talento con cui era fiero di misurarsi”, lo aveva reso ancora più persuaso di essere al posto giusto ed al momento giusto. Il Campione del mondo era lì per lui, perché lo considerava alla sua altezza. Perché lo stimava: come uomo e come pugile. Si erano stretti la mano in una presa calda e forte e Josè aveva completato il gesto con una pacca amichevole sulla sua spalla. I fotografi li avevano così immortalati in una posa rilassata e sorridente, come se si trattasse di due vecchi amici e non dei contendenti di un prestigioso match per il titolo mondiale della WBA e della WBC.

Al lieve click della porta, Joe si era girato, senza stupirsi affatto di trovarsela lì. Senza dire nulla, si era lasciato sedere sul divano, mentre Yoko provvedeva a chiudere a chiave la porta, in modo nessuno potesse disturbarli.

“Credevi che proprio stasera mi sarei tenuta lontana da te?”

“Non credo nulla, Yoko.” replicò, asciutto “Anche se forse lo spogliatoio di un pugile non sarebbe il luogo più adatto ad una signora.”

“Sciocchezze.” Si sentiva le gambe molli, ma si diresse al sofà con fare deciso. “Sei intenzionato a startene a capo chino per tutto il tempo, pur di non guardarmi in faccia?” La giovane gli si sedette accanto, cercando di intercettarne lo sguardo, dato che Joe se ne stava con i gomiti sulle ginocchia, guardando un punto imprecisato del pavimento. Era come se in quel preciso momento della sua vita volesse tenere tutti lontani da sé. Anche con Nakamura si era comportato, negli ultimi tempi, con maggior freddezza e distacco, vanificando quasi completamente tutti i piccoli progressi fatti per riallacciare i rapporti con il padre ritrovato. Yoko gli sollevò il mento, con delicatezza, incrociandone finalmente gli occhi, dallo sguardo malinconico. “È proprio necessario…tutto questo?” mormorò lei.

“Cosa intendi dire?” Joe si alzò per bere un po’ d’acqua, porgendole un bicchiere in offerta, che la donna rifiutò scuotendo il capo.

"Lascia perdere tutto quanto: non salire su quel ring, stasera!” Al che Joe sgranò gli occhi, incredulo. “Se sono le forti penali a preoccuparti… ecco, ti assicuro che ci penserei io a pagarle!” gli implorò la giovane, con le labbra e con gli occhi.

“Ma cosa stai dicendo? Stai dando i numeri?” bofonchiò il pugile, appoggiandosi al tavolo, a braccia conserte, mirandosi le mani fasciate con fare corrucciato.

“No. Per niente.” Yoko si alzò dal divano per andargli incontro, racchiudendo il volto di lui tra le sue mani “Ti scongiuro: rinuncia all’incontro. Tu non sei al massimo della forma,” nel dire ciò le tremarono le labbra, volendo sottintendere ben altro “e Josè è troppo pericoloso, troppo micidiale…” Le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso, senza che lei quasi potesse accorgersene.

“Basta, Yoko. Ti prego.” le sussurrò, commosso. Le lacrime della sua donna avevano da sempre il potere di sgretolare ogni sua difesa, una per una. Joe sciolse le braccia, per poterla stringere a sé, senza rispondere nulla. Le accarezzò piano i capelli, baciandola sulla tempia, per poi percorrerle piano il viso con le labbra, bevendone le lacrime, fino a catturarle la bocca. Yoko gli si abbandonò. Gli aveva aperto il suo cuore, completamente, facendolo partecipe delle sue paure e sapeva benissimo che Joe non avrebbe mai potuto darle le risposte che lei andava disperatamente cercando.

Adesso erano stanchi di parlare... tutti e due. A cosa sarebbe servito?

Senza smettere di guardarsi negli occhi, Joe la sollevò, in modo che Yoko potesse circondargli i fianchi con le gambe. Fecero l’amore così, in piedi e addossati alla parete, chiamandosi l’un l’altro, cercandosi con passione, con disperazione, desiderosi di strappare un momento al destino.

Un momento ancora.

°°°°°°

La sala era gremita di gente.

L’evento sportivo era stato organizzato in modo perfetto ed impeccabile: l’incontro sarebbe stato trasmesso dalle reti televisive di tutto il globo. Cori incessanti si rincorrevano, da una parte all’altra del palazzetto dello sport, in lingua giapponese e spagnola. I fan si erano scatenati con decine e decine di striscioni multicolori e di bandiere nazionali del Messico e del Giappone, che agitavano tra applausi, fischi, canzoni e sberleffi vicendevoli.

Con passo meccanico, Yoko si recò a capo chino fino alla sua poltroncina, tremando come una foglia: solo la presenza rassicurante di Hiro Nakamura, che nel frattempo era già arrivato e che la stava aspettando, le diede un po’ di coraggio e di sangue freddo. Si guardarono in profondità, scrutandosi sin nell’anima e senza quasi dirsi una parola. Yoko era pallida e sudava freddo, mentre il padre di Joe era livido, dai muscoli facciali rigidi e contratti, come se i lineamenti del suo viso fossero scolpiti nella pietra. L’unica cosa che desideravano era che quella penosa attesa finisse subito, con qualunque verdetto. Prima si faceva, e prima avrebbero portato il loro Joe via da lì.

All’arrivo dei due pugili, ognuno scortato dal proprio staff, tutto il pubblico si alzò in piedi, letteralmente impazzito, facendo un baccano assordante. Solo Yoko e Nakamura se ne rimasero seduti, osservando sfilare Joe con i suoi: il giovane salutava i fan con un lieve sorriso sulle labbra e con uno sguardo limpido e sereno. La stessa gentile pacatezza era mostrata anche dal Campione mondiale. Con il diffondersi delle note prima dell’inno nazionale messicano, e poi di quello giapponese, un silenzio rispettoso, accompagnato dalla mano sul cuore, si stese finalmente in tutta la sala.

Lo speaker, elegantissimo nel suo smoking e visibilmente emozionato, annunciò i due contendenti.

Ladies and gentlemen, benvenuti a questa straordinaria serata, in cui si disputerà un incontro di dodici riprese con in palio il titolo mondiale delle categorie WBA e WBC, tra due pugili eccezionali! All’angolo rosso, il Campione mondiale dei pesi medi, Josè Mendoza! All’angolo blu, in quarta posizione della classifica mondiale, Joe Yabuki!”

Uno dopo l’altro i due pugili rinnovarono i saluti agli spettatori che, impazziti, non la smettevano più con il loro tifo. Era quasi come se tutta la sala fosse percorsa da una corrente elettrica, che galvanizzasse chiunque. Seduto un po’ in disparte ed a braccia conserte, Jun Kiyoshi non cessava di memorizzare ogni singolo momento di quella serata. Ormai si era rassegnato a non farsi più nessuna illusione su Yoko, ripromettendosi di seguire la carriera di Yabuki solo come semplice appassionato di boxe. Eppure… eppure ogni tanto il reporter non riusciva a resistere alla tentazione di spiare, seppur da lontano, ogni singolo movimento della soave figura femminile seduta in prima fila, vestita di bianco, che si stagliava nell’oscurità come una candela dalla luce delicata. Non c’era nulla da fare. Era più forte di lui.

Nel frattempo, all’angolo blu del ring, Tange si sentiva molto agitato e nervoso, riuscendo persino lui ad essere pallido sotto il colorito olivastro, mentre si dava da fare con i guantoni del suo ragazzo. “Mi raccomando, eh. Resta concentrato, ma vedi di conservare le energie e di aspettare l’occasione giusta! Dammi ascolto, capito?” brontolò, cercando di celare la sua profonda agitazione.

“Ok.” replicò Joe, atono. Fece scorrere lo sguardo sulle prime file, incontrando, così, lo sguardo della sua Yoko. La accarezzò con gli occhi, sorridendole con dolcezza. Lei abbassò le palpebre, per nascondergli le sue lacrime.

Prima ripresa.

Sordo ai suggerimenti appena ricevuti dal suo coach, Joe pensò bene di attaccare Josè da subito: sferrò tutta una serie di jab e di diretti che il messicano schivò con del semplice rolling, senza quasi parere. Lo stesso Josè batté le palpebre, stupito, per la poca accortezza del suo avversario, che andava sprecando sin dal primo istante molte preziose energie. Contrattaccò con una fulminea combinazione di ganci, che fortunatamente Joe riuscì a parare sugli avambracci e sui guantoni, sebbene finì poi violentemente sospinto alle corde. Finita la ripresa, all’angolo blu venne accolto immediatamente dai rimbrotti di Tange, mentre Nishi e Masaki gli si operavano intorno con l’acqua e con la vaselina.

“Cretino! Testa d’asino! Cosa accidenti ti avevo detto poco fa? Ma perché non vuoi mai darmi ascolto, porca miseria! Quella tecnica del cavolo che hai usato NON FUNZIONA CON JOSÈ! In che lingua te lo devo dire?”

“Va bene, va bene… non urlarmi così, mi sfondi i timpani!” bofonchiò Joe, parandosi le orecchie con i guantoni.

Secondo round.

Questa fu la volta di Mendoza di attaccare Joe immediatamente: gli inferse una spaventosa combinazione di montante sinistro, gancio destro al volto e gancio sinistro allo stomaco: Joe si accasciò a terra, annaspando rumorosamente. Riuscì però, aggrappandosi alle corde ove era nuovamente finito, a rialzarsi in piedi… per ricevere un altro micidiale montante da Josè. Fortuna sua fu che scoccò il gong proprio in quel momento, e che poté approfittarsene per rialzarsi in piedi, evitando la conta. Barcollando, raggiunse il suo angolo, ove ricevette ulteriori rimbrotti da Tange “per tutte le energie inutilmente sprecate!”.

Terza ripresa.

Ancora una volta, Josè infierì su Joe con una terribile sventola destra. Ed ancora una volta, Joe si rialzò da terra. Il resto del round fu uno stillicidio di jab e ganci che, volta per volta, sfondavano ogni sua difesa.

Joe está cansado, se derrumbará más pronto o más tarde.” (“Joe è stanco, dovrà crollare, prima o poi.”) fece osservare Josè al suo manager, una volta raggiunto l’angolo alla fine della ripresa, mentre l’intero staff si complimentava con lui per l’ottimo lavoro svolto. Dall’altra parte del ring, Tange un po’ rimproverava, un po’ implorava Joe di rinserrare la difesa e di usare il gioco di gambe, per disorientare l’avversario. Nel contempo, in prima fila, Yoko affondava le unghie nei palmi delle mani, costringendosi al silenzio… per non urlare la sua angoscia. Hiro non ce la fece più a starsene fermo e seduto e, una volta scoccato il quarto round, si alzò meccanicamente, come un pupazzo sospinto da una molla invisibile, per poi avvicinarsi alle corde, e per porsi al fianco di Tange, che lo salutò con un cenno del capo. Joe continuava, da solo ed imperterrito, a resistere ai feroci attacchi di Josè, da cui ricevette, dopo una combinazione di jab e di ganci da manuale, una poderosa sventola alla tempia destra, che lo lasciò senza fiato. Scosse la testa, cercando di mettere a fuoco, mentre il sangue gli colava sul viso e sull’occhio destro… Già, l’occhio: la visuale gli parve come ovattata da un velo grigiastro, cosa che lo mandò in confusione. Tutto questo mentre l’arbitro gli si era fatto incontro per esaminargli lo squarcio alla testa e per chiedergli se se la sentisse di continuare.

“Certo… certo che continuo.” protestò. Con uno scatto fulmineo, approfittando della nuova visuale suo malgrado “regalatagli” da Josè, Joe riuscì a sfondarne la difesa con jab di disturbo per finalmente portare a fondo dei ganci poderosi, sia allo stomaco che al volto: cosa che lasciò Josè stupefatto e dolorante.

“Bravo! Così figlio mio, così devi colpire il messicano!” urlò Nakamura, con tutto il fiato che aveva in corpo. Avrebbe tanto voluto essere pure lui, su quel maledetto ring, per proteggere il suo ragazzo, per vendicarlo, colpo per colpo…

Raggiunto il suo angolo alla fine della ripresa, Joe venne accolto da Tange a braccia aperte. “Sei stato fantastico! Continua così, capito? Questo è il lavoro che devi fare!” Hiro si pose al di sotto dell’angolo, dandogli una pacca sul braccio. Joe si voltò per scambiare con suo padre un sorriso d’intesa, caldo e luminoso. Era bello averlo vicino, in quel momento così cruciale per lui.

Al quinto round, dopo essersi difeso con un buon gioco di gambe, con cui riuscì a tenere Josè a distanza, Joe sferrò un gancio sinistro che fece un rumore sordo sulla gota destra di Mendoza: questi rovinò in terra con un forte tonfo. Indolenzito, il messicano si rialzò solo all’ottavo. Girandogli intorno, come per studiarlo, tuttavia, Josè capì cosa fosse davvero successo e come fare per poter superare l’impasse. Sorrise tra sé e sé. Il suo avversario non ci vedeva più dall’occhio destro. Fu quindi facile ed ovvio, per lui, muoversi strategicamente sul lato destro, ormai buio per Joe. Fu in quella che lo colpì con un gancio sinistro, per infierire sull’occhio cieco del giapponese. Provvidenzialmente, proprio in quella, scoccò il gong.

Stordito e mezzo cieco, Joe venne recuperato da Danpei, dato che stava per andarsi a sedere all’angolo rosso. “Santo cielo… cosa ti è successo?” gli andava domandando, mentre lo medicava. Anche Nakamura, che non era più tornato a sedersi, chiedeva a Nishi cosa stesse succedendo, dando voce alla sua tremenda ansia.

“Calma, calma… tutti quanti. Non ci vedo più tanto bene dall’occhio destro, ecco.”

“Co-come?” trasecolarono Tange e lo yakuza, urlando in coro.

“Beh, cosa volete che vi dica… mi sa che ora sono guercio pure io, come te, vecchio!” celiò Joe, in tono leggero.

Danpei interrogò con lo sguardo, disperato, sia Nakamura che Nishi, mentre Masaki stringeva le labbra, cercando di trattenere le lacrime.

“Maledizione… no, NO!” urlò Hiro. Quando, allo scoccare del sesto round, i secondi scesero giù dal ring, Hiro afferrò Tange per il bavero, scrollandolo violentemente. “Getta la spugna! Subito! Porca troia!” Solo grazie a Nishi e a Masaki il povero Danpei venne strappato dalle mani dello yakuza, ormai furibondo e disperato…

Intanto, Joe cadeva sotto i colpi di Josè, per poi rialzarsi. Cadeva e si rialzava, cadeva e si rialzava, come in un balletto infernale. Rassegnato, Hiro tornò al suo posto, e vi trovò un piccolo gruppo di persone accalcato. Si accorse quindi che Yoko, bianca come un giglio, era svenuta. Jun era infatti accorso al suo fianco, cercando di farle riprendere i sensi con lievi schiaffetti sul viso, mentre una signora andava suggerendo di distenderla a terra e di sollevarle un po’ le gambe, per farle affluire il sangue alla testa.

“Che succede… Yoko?” mormorò Joe, oramai allo stremo delle forze, quando potè ritornare al suo angolo.

“Niente, niente, non ti preoccupare, Shiraki-sama ha solo avuto un capogiro…” cercò di minimizzare Tange, per non metterlo in agitazione.

“Nishi, per favore, vai un attimo a vedere! Sennò scendo dal ring!” sbraitò Joe, in preda all’angoscia.

Dopo pochi istanti l’amico fece ritorno. “Tranquillo, sta bene, ha avuto un capogiro per il caldo che c’è in sala. Vedi tu stesso, ti sta salutando.” Yoko, infatti, pur sentendosi ancora molto debole e stordita, riuscì a sorridergli, sollevando un po’ la manina tremante. Joe afferrò una corda con forza, in preda alla rabbia. Doveva farla finita, e scendere da lì!

Alla settima ripresa si ripeté lo stesso copione della sesta: Joe venne colpito da Josè con inaudita violenza… per rialzarsi ancora. Mendoza non ce la faceva più. Era inorridito. Quel ragazzo doveva essere pazzo, non c’era altra spiegazione! Perché continuava a resistergli? Perché non si arrendeva? “Vuole morire? Non ha paura? Io sì, che ho paura!” andava pensando, sempre più angosciato “Io penso a mia moglie, ai miei figli! Non pensa a nessuno, non gli importa niente di niente?

Ah, quello sguardo… lo stava perseguitando, come gli occhi vitrei di Medusa.

Joe gli si faceva sempre sotto, fissando sul suo viso uno sguardo senza fondo, come un buco nero infinito. Uno sguardo che ti rende folle.

Pian piano, Yoko riuscì ad alzarsi in piedi, respingendo ogni aiuto. Non voleva che nessuno la ostacolasse, né Jun, né Nakamura, né nessun altro. Lentamente, raggiunse le corde del ring. “Joe! Sono qui! Mi senti? Metticela tutta! Io resterò vicina a te! Attaccalo, attaccalo, AMORE MIO!” Con la voce di Yoko, che strinse al suo cuore per non farla più uscire, Joe divenne una furia. Ormai era quasi cieco anche dall’occhio sinistro. Ma c’era un’ombra che continuava a vedere, davanti a sé. L’ombra del suo avversario. Era l’ombra di Josè… di Tooru, di Carlos… di Kim? Non aveva importanza. L’ombra andava scacciata, a tutti i costi.

Con una magnifica sequenza di ganci al corpo ed al viso e con un uppercut violentissimo, Joe sbatté Josè al tappeto. Solo al nono, il messicano poté rimettersi in piedi. All’ottavo round, però, Josè non riuscì a mantenere il suo aplomb, urlando come un ossesso e colpendo Joe ripetutamente con pugni da rissa: l’arbitro intervenne immediatamente, ammonendolo e chiedendo ai giudici di togliergli del punteggio per irregolarità. Josè si sentiva come allucinato, in preda a visioni folli e distorte: quello era un incubo! Uno schifoso incubo senza fine! E l’incubo continuò… al nono, al decimo, all’undicesimo round… Mentre i colpi di Joe andavano a segno, pur essendo ormai ipovedente, Josè si muoveva a scatti, come un burattino impazzito, commettendo quasi solo dei falli che suscitarono il disdegno del pubblico.

Yoko, rigida e ritta, sempre in piedi, sopportò di vedere tutto questo, stoicamente. Vide andare al tappeto il suo uomo, una volta di più… al dodicesimo ed ultimo round di quel girone infernale. Lo chiamò, con voce forte e chiara, come una sirena che sa avvincere e guidare un marinaio sperduto nel mare in tempesta. E Joe la ascoltò, rialzandosi in piedi. Ancora una volta. Si rialzò per portare a segno il più potente, il più straordinario colpo di incontro incrociato della sua carriera. Rimasero tutti in silenzio, in quella affollatissima sala: non si muoveva più una sola mosca. L’unica cosa da fare, era rimanere basiti ad osservare la grottesca statua composta da due corpi in piedi, le cui braccia si protendevano e si incastravano tra loro, come in un plastico perfetto. Ambedue i pugili si accasciarono a terra, stremati, per poi rialzarsi in contemporanea, vanificando la conta dell’arbitro.

Non restava da fare altro, adesso, che attendere il verdetto dei giudici.

“Vince Josè Mendoza, che si riconferma il detentore del titolo mondiale dei pesi medi!”

L’arbitro si ritrovò quindi a sollevare il braccio di un vincitore distrutto, che se ne stava ciondoloni come un pupazzo inerte.

Joe si lasciò scivolare sul suo sgabello, con un unico movimento fluido e dolce. “Yoko…” riuscì a mormorare, “dove sei?”

“Sono qui, amore mio. Sono vicino a te.”

Lentamente, come se provasse una fatica immane, Joe torse un poco il braccio sinistro, porgendole i guantoni, che grondavano sangue.

“Eccoli, i miei guantoni. Sono stati molto importanti per me e vorrei che ora li tenessi tu.”

Yoko li prese con mani tremanti, per stringerseli al seno, lasciando che le lacrime le scorressero senza sosta giù per il viso, sino a lambirli.

Era bello, per lui, poter adesso sorridere. Non c’era altro da fare.

°°°°°°

È bianco.

È tutto bianco, adesso… vedo una nuova alba.

Apro gli occhi come se fosse per la prima volta.

Non ho più nulla da bruciare.


°°°§°°°

Tempio di Suwa, un dolce pomeriggio d’autunno…


Ce l’aveva fatta a ritrovarlo, alla fine.

Aveva impiegato mesi nella ricerca, dato che non si era più sentito parlare di lui nel vecchio quartiere: si era semplicemente volatilizzato nel nulla.

“Mamma, mamma, ecco il santuario di Suwa*!” trillò, felice.

“Aspettami, non correre così, non riesco a starti dietro!” sbuffò, per il fiatone. Parole vane, come al solito: Yoko scosse la testa, sorridendo. La sua Keiko** aveva sempre l’argento vivo addosso, ed era difficile farla star ferma per più di dieci minuti. Le vecchie insegnanti infatti le avevano brontolato più volte, durante i colloqui, che la bambina potesse essere affetta da “sindrome da iperattività”, mentre lei era ben consapevole che la sua piccola fosse solo molto vivace, curiosa ed espansiva. Il problema si era risolto nell’ultimo anno facendole cambiare l’istituto scolastico con uno meno austero e tradizionalista: Keiko si era ambientata benissimo e pure il suo rendimento ora era notevolmente migliorato. Semplicemente, la sua creatura era restia ad osservare regole troppo stringenti e ad ascoltare parole troppo severe.

Yoko accarezzò con gli occhi la figurina sottile che correva veloce su per la lunga scalinata: la piccola amava vestirsi d’azzurro e lei faceva sempre di tutto per accontentarla. Pure in quella tersa giornata di fine ottobre, Keiko indossava un paltò del colore del cielo, su cui spiccava la lunga treccia nera legata da un nastrino di velluto rosso, che le saltellava allegramente sulla schiena. Sospirando, si rassegnò a percorrere le scale, che parevano non finire mai. “Ti sei fermata finalmente…”

Keiko fece una giravolta su se stessa. Era così elettrizzata, sin dal primo istante in cui aveva messo piede in Giappone: quello era il primo viaggio all’estero che faceva nella vita e trovava tutto così bello e diverso da New York. Per la prima volta in vita sua vedeva tutte le persone che incontrava per strada, nei negozi, sui mezzi pubblici, con i suoi colori e con i suoi lineamenti: non era più lei quella strana della scuola, con gli occhi grandi ma a mandorla, la pelle bianchissima, i capelli neri e lisci… i Giapponesi non erano ancora moltissimi, nella Grande Mela, e nella migliore delle ipotesi la chiamavano “slantie”, per il taglio dei suoi occhi, se non “chink” con aperto disprezzo, considerandola cinese e non giapponese. Tutti ora le sorridevano e le facevano un piccolo inchino, che lei cercava di imitare nel modo giusto, anche per rendere fiera la sua adorata mamma.

La mamma, già…

In quei giorni la impensieriva non poco, però: spesso l’aveva sorpresa con gli occhi umidi e lo sguardo triste, magari mentre se ne stava ad osservare, di sera, il paesaggio fuori dalla finestra della loro bellissima casa giapponese. Chissà se era così triste perché erano morti ormai da tanto tempo i nonni Shiraki, lasciandola sola in quell’enorme villa? Così, un giorno l’aveva stretta forte forte con le sue braccine, dando voce ai suoi pensieri. “No, tesoro. Non sono triste per i nonni… o meglio, non solo per loro. Qui a Tokyo ho tanti ricordi, alcuni belli e alcuni brutti. Ma tutti preziosi per me.”

Queste parole le erano rimaste impresse, temendo sempre di vedere di nuovo affiorare le lacrime sul bel volto di sua madre. Ma oggi lei era sorridente e di buon umore: la gita al tempio si stava rivelando davvero molto divertente! Dopo il viaggio in treno, avevano pranzato allegramente in una piccola trattoria ai piedi della collina, per poter affrontare la passeggiata sino al santuario cariche di energia.

“Adesso però tesoro promettimi che sarai un po’ più tranquilla: vedi, questo è un luogo sacro, dove le persone vengono a pregare e a parlare con i sacerdoti. Non sarebbe una bella cosa se arrivassimo noi due a fare baccano, giusto?”

“Giusto!” trillò la birichina.

Presala per mano, Yoko si recò al santuario, che si ergeva maestoso all’inizio del lussureggiante giardino. Sollevata la piccola, le fece tirare la corda, in modo che i due campanelli potessero annunciare la venuta di nuovi visitatori. In attesa che arrivasse qualche sacerdote, Yoko condusse la figlia alla fontanella per il rituale di purificazione: con un po’ d’acqua raccolta con il mestolo di legno asperse le manine di Keiko, spiegandole di strofinare prima la mano sinistra e poi la destra. Pochi secondi dopo lei stessa ripeté il semplice rito. Alla fine era stato facile: Yoko non avrebbe potuto sperare di meglio, dato che non sarebbe stato necessario chiedere di lui ad un altro sacerdote.

Si mirarono in silenzio, per qualche secondo, tempo necessario per Yoko per alzarsi in piedi. L’attitudine di Hiro Nakamura di apparire all’improvviso non era mai mutata, a quanto pare. Gli occhi dell’uomo si spostarono dalla figura della madre a quella della figlia: Hiro batté le palpebre senza neppure accorgersene. Keiko fece un rapido inchino, per poi prendere per mano la sua mamma stringendola forte forte, come per sentirsene protetta: chi sarà mai stato quel signore dall’aria così compunta? Non era mica brutto, però.

“Yoko.”

La donna gli si inchinò profondamente. “Sacerdote”.

“Sono solo un semplice hafuri*** di questo tempio. Non occorre un inchino così formale. Venite, andiamo a sederci in un posto tranquillo.” propose, dato che altri fedeli erano giunti alla fontanella per la purificazione.

Si spostarono fin verso un angolo riparato del bellissimo giardino, per sedersi su una panca di pietra.

“Mamma, posso andare a vedere i fiori? Ci sono le tuberose!” chiese Keiko. “Così tu potrai parlare con il signore.” aggiunse, a mo’ di scusa.

“Vai pure, ma non allontanarti troppo: non andare oltre quella siepe laggiù.”

“Ok!”

La piccola si allontanò saltellando, felice di inseguire una farfalla.

Hiro non aveva smesso di osservarla, come se ne studiasse ogni singolo lineamento. “Lei è…” mormorò, senza riuscire a finire la frase. La voce gli si era spezzata dentro.

“Sì. È sua.” disse Yoko, con semplicità. “Il suo nome è Keiko.”

“È bellissima. Ha qualcosa di lui, nello sguardo soprattutto.” mormorò commosso. “Grazie per tutto… anche per averla chiamata così.” Le mani gli tremavano percettibilmente. Yoko notò che gli mancava la prima falange di ambedue i mignoli: Hiro ne seguì lo sguardo e sorrise. “Ho dovuto pagare un prezzo, per lasciare la mia ikka e per potermi ritirare qui, altrimenti non mi avrebbero mai lasciato andare****.” spiegò, in tono tranquillo, come se si fosse trattato di una bazzecola l’auto-amputarsi un pezzo di dito.

“Capisco…” sussurrò Yoko. “Avevi bisogno di lasciare tutto e penso che tu abbia fatto bene. Pure io son dovuta andare via…” si strinse le mani, nervosamente, abbassando lo sguardo. “Sono stata molto male, dopo… Ho anche corso il pericolo di perdere Keiko: la mia gravidanza è stata a rischio per tutto il tempo e l’ho passata interamente a letto. Ma non avrei mai permesso alla mia piccola di lasciarmi anche lei.”

Rimasero in silenzio per qualche minuto, visibilmente turbati.

“Hai abbandonato il Giappone subito dopo, giusto?” sussurrò l’uomo, appena fu in grado di parlare di nuovo.

Tutti e due non riuscivano a parlare della scomparsa di Joe… a quell’angolo maledetto: le parole avevano il pudore di un dolore ancora troppo atroce e bruciante. La reticenza era la loro unica arma contro la disperazione di un discorso diretto e crudo, quasi come se fosse un tabù, un mostro che non si può affrontare apertamente.

“Esatto. Harry Robert, sai… il manager del povero Carlos Rivera: come seppe dell’accaduto venne a Tokyo e mi portò via negli States, per fondare insieme un nuovo club pugilistico. Io lasciai tutto, anche lo Shiraki Boxing Club: lo affidai a mio nonno, con una delega.” spiegò lei, sospirando, senza smettere di torcersi le mani “Harry mi ha salvato, Nakamura-san. Con la scusa di un nuovo lavoro, mi ha sottratto all’abisso di disperazione in cui ero caduta. Se sono viva e se anche Keiko lo è, lo devo solo al miglior amico che si possa avere in questa vita. Ho avuto fortuna, a differenza di altri.”

“Stai alludendo a Danpei Tange?”

“Sì, soprattutto a lui. Il suo cuore non ha retto. Io stavo troppo male per pensare a qualcun altro, non ero in grado di aiutare nessuno, neppure me stessa. Ma mi sento in colpa, per questo. Quel pover’uomo è stato sopraffatto dal dolore, poche settimane dopo… poi la sua palestra mi pare che l’abbia rilevata Nishi.” al che Yoko alzò lo sguardo, ritrovando, negli occhi di Hiro, lo stesso fuoco di quelli del suo Joe. “Anche nei tuoi confronti ho sbagliato e me ne dolgo.”

“Non devi. Non potevi fare nulla per nessuno, figlia mia, proprio come hai ammesso.” le disse, accarezzandole la guancia paternamente.

Lacrime silenziose le affiorarono dagli occhi, che si distolsero subito a cercare la figurina di Keiko, ora intenta ad annusare i candidi boccioli di una aiuola poco distante. “Se sono tornata a casa è stato perché volevo rivederti… e soprattutto per farti conoscere Keiko.” mormorò Yoko, sorridendo tra le lacrime.

Hiro si limitò ad annuire, chiudendo gli occhi. Allungò una mano per stringere forte quella di lei, ringraziandola in silenzio.

“Rimarrai così, Yoko?” le domandò dopo un po’, a bruciapelo, lasciandole andare la mano.

“Così come, Nakamura-san?”

“Legata a lui. Sei così giovane, dovresti pensare a rifarti una vita, anche per la mia nipotina.” Nel pronunciare quella parole gli si spezzò la voce. “Non voglio che restiate da sole. Neppure Joe lo vorrebbe.”

Yoko continuò a seguire i movimenti di Keiko, che le sorrideva da lontano, felice di trovarsi in un posto così bello.

“Sempre, Nakamura-san. Sempre.”

___________________________

Spigolature dell’Autrice:

L’incontro di Joe Yabuki contro Josè Mendoza, a differenza di molti altri, si tenne al Budokan (ove ho fatto disputare pure il match contro il mio OC Dude Walker) e non al Korakuen Hall. Eccovene una fotografia:

BUDOKAN
*Il grande Santuario di Suwa (諏訪大社) è uno dei più antichi santuari shintoisti del Giappone. È menzionato nell'antico testo Kojiki, risalente all'VIII secolo. Si trova nei pressi dell’omonimo lago, nella prefettura di Nagano. Ecco per voi una foto di questo bellissimo tempio:

tempio-di-SUWA

**Il nome Keiko (恵子) in giapponese vuol dire “bimba benedetta” e mi è parso doveroso dare questo bellissimo nome alla figlia di Yoko e di Joe, dato che nella mia fan fiction il vero nome di Joe Yabuki sarebbe Kei Nakamura, laddove Kei stia, appunto, per “benedetto”, come da significato in lingua giapponese. Il personaggio di Keiko è quindi un mio omaggio al grande amore di Joe e di Yoko, ed una speranza per il futuro.

***Gli hafuri (祝) sono i sacerdoti ritualisti dei templi shintoisti.

****Vi ricordo nuovamente la pratica dello yubitsume (v. Capitolo VI): ovvero l’amputazione delle dita. Gli appartenenti alle “famiglie” (chiamate ikka) della Yakuza si autoinfliggono l’amputazione delle dita (di solito partono dall’ultima falange del dito mignolo: ogni infrazione, un’amputazione… che allegria, eh!) quando devono farsi perdonare un ordine mal eseguito o un’aperta disobbedienza.

Come preannunciato nel prologo e ribadito in vari capitoli, provvedo ora ad indicare il link della mia pagina Autore su Facebook afferente i credits di questa fanfiction, nel pieno rispetto dei diritti di autore altrui. clicca

Ovviamente, vi sono elencati pure i credits di questo ultimo capitolo, ovvero:

https://it.wikipedia.org/wiki/Shintoismo
http://www.mondojapan.net/cultura/shintoismo-015/
http://shintoismo.com/2014/07/21/hafuri/
https://it.wikipedia.org/wiki/Santuario_di_Suwa_(Sohonsha)
http://ayuzoshi.blogfree.net/?t=4136412

Direi che ho lavorato sodo, per questa long fic!!

E, come sempre, confermo che TUTTE le immagini postate sono frutto di mera ricerca su Google, nel pieno rispetto del copyright e senza scopo di lucro alcuno. Con tutti i diritti riservati.

°°°°°°°


Non è mai facile per me finire una storia, e men che meno una fanfiction di questa portata. Mi ha impegnato e tenuto compagnia per oltre un anno (!) e mi ha consentito di parlare del personaggio anime/manga a me più caro in assoluto. C’è molto di Joe Yabuki in me: questo ragazzo straordinario mi accompagna da quasi 34 anni, una vita intera… Mi è quindi doloroso chiudere questa long fic. Ma tutto ha un inizio e tutto ha una fine, a questo mondo. Ringrazio i numerosissimi lettori silenziosi di questa mia storia: mi farebbe piacere conoscere le loro impressioni, anche in via privata. Suvvia, non fate i timidi !

E, soprattutto, non posso che ringraziare i miei meravigliosi recensori, che mi hanno sempre incoraggiato, sia qui su efp che in via privata, a proseguire in questa avventura, dimostrandomi apertamente il loro affetto e la loro vicinanza con i loro commenti sempre incisivi e profondi, che mi hanno fatto emozionare e riflettere. Ragazzi, siete speciali, davvero. Vi abbraccio tutti, uno per uno:

curleywife3

Devilangel476

diletta1974

DivergenteTrasversale

EaBea

gratia

Khamsa

kyashan_luna

Little_Lotte

Stellareika

yuki68

Jacksonist

Un grandissimo grazie va al mio amico Andrea E., pugile professionista dei pesi massimi, per i suoi apprezzamenti sulla mia resa… “pugilistica” di questa storia, ed al mio amico Antonio C. che tributa a Joe Yabuki una bellissima pagina Facebook: clicca

Un ringraziamento speciale va a mio marito Federico, che da sempre mi sprona ad esprimermi come scrittrice amatoriale: grazie, amore mio.

Un profondo grazie, quindi, a tutti voi…


rosa-rossa-per-voi
E soprattutto un profondo grazie tutto per te, per essere così meraviglioso ed unico, come nessuno mai.


Joe-triste
i.
  
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Rocky Joe / Vai alla pagina dell'autore: innominetuo