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Autore: lubitina    05/10/2016    2 recensioni
La Terra brilla, blu, silenziosa e lontana, negli oblò delle città-pozzo lunari. Molto, moltissimo tempo addietro, l’ultimo essere umano ha camminato con gli Dei, calcato l’erba del Giardino. Nessuno, degli abitanti delle colonie del sistema solare, conosce le ragioni di quella diaspora; solo in pochi, se ne interessano ancora. All’improvviso, dalle sotterranee grotte del Satellite, ricche d’acqua antica, appare un bambino sporco, macilento, coperto di stracci, cui viene dato nome Prius. Il primo toccato dal TecnoDio. La sua storia si perse nella leggenda, ma non la sua opera: a lui si deve l’EarthSimulator, un mondo parallelo, una realtà virtuale in grado di restituire, a tutti i suoi viaggiatori, la capacità di camminare, di nuovo, sotto il cielo azzurro terrestre.
Anni dopo la geniale invenzione, G., mentre dorme, al sicuro, nella sua camera-della-vita, è al comando di un piccolo gruppo di disperati, nascosti nei boschi della fu Europa centrale. Loro sacra missione, suggellata con un patto di sangue, è comprendere le ragioni della Diaspora. Dal folto degli alberi, appare un uomo. Uno sconosciuto, i resti di una tuta ad alta tecnologia a coprire il corpo martoriato. Chi è?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3, La prima esperienza E-Sim

-Potrai essere chi vorrai,-diceva, entusiasta, lampi di luce negli occhi,- potrai camminare sulla Terra, G.
Eppure G. non riusciva a non essere terrorizzata, mentre sua madre la prendeva per le ascelle e la deponeva dentro la loro, prima, camera della vita. G. stava perdendo i denti, in quel periodo. Aveva circa 10 anni, non lo ricordava con esattezza. Proprio in quel giorno, mentre mangiava la sua razione, si era ritrovata a masticare qualcosa di duro, assieme al sapore ferroso del sangue. Aveva sputato nel piatto, ed una massa sanguinolenta vi era apparsa. Su di essa troneggiava felice un molare. G. si era sentita felice e soddisfatta: li aveva cambiati quasi tutti. Aveva perso gli incisivi molto presto, e non aveva dovuto subire granché prese in giro dai compagni del Nido. Era grande, finalmente.
E dello stesso avviso erano anche Mamma e Papà. Avevano acquistato quella “scatola” qualche tempo prima, in uno dei grandi magazzini della loro zona di satellite. Spingendo un pesante carrello, erano entrati in casa, e avevano subito iniziato a rimuovere gli strati di imballaggio della camera della vita.
Infine, la bara era apparsa. Un parallelepipedo di materiale bianco, freddo, con un’anta di vetro traslucido a nascondere l’interno su un lato. La grande G di Google campeggiava sul lato corto in alto. Era l’unico vezzo dell’intero oggetto, semplice ed essenziale. Adatto al suo scopo. G. rabbrividì e avvertì la pelle d’oca. Le vene del polsi iniziarono a dolerle. Aveva paura. Guardava prima la Mamma, poi il Papà. Sembravano danzare felici, attorno a quell’oggetto inanimato. Si abbracciavano. Si dicevano “Oh caro, ce l’abbiamo fatta!”. La Mamma cominciò a piangere di gioia, le mani sul volto, ma le lacrime fluivano sulle guance anche attraverso le dita. Alcune caddero a terra, sul pavimento di metallo bianco.
Papà finì di collegare l’apparecchio, che trovò collocazione nel mezzo del soggiorno, di fronte all’omnischermo, bianco su quello sfondo nero. In quel momento, era spento. G. non amava ascoltare il chiacchiericcio dell’omnimedia, quando era a casa da sola (e ciò succedeva spesso), e lo lasciava impostato solo sulla diffusione musicale. Dopodiché, tornava ai suoi libretti di scienze naturali. La Mamma la definiva una bambina prodigio, ma ci sarà tempo di parlare della Mamma e del Papà di G.
È ora doverosa una digressione sui libri di G. Costei era una bambina estremamente intelligente, eppure estremamente sognatrice, come pochi esseri rimanevano nella seconda umanità. Crescendo, come tutti, avrebbe perso molta dell’innocenza e della visionarietà che la caratterizzavano da piccola. Sarebbe diventata più fredda, quasi calcolatrice. Una persona decisamente poco sensibile. G. imputava la sua devoluzione alla scienza, all’amore devoto per essa, e a null’altro. Le prime letture di G. , da quando Mamma aveva smesso di leggerle le favole del primo mondo la sera, per farla addormentare, erano stati libri di chimica dalla biblioteca pubblica. Ovviamente non capiva un parola di ciò che noleggiava. Eppure, quei disegni (le C di carbonio che si combinavano in così tanti modi diversi), quei grafici e il poco che comprendeva di quel mondo infinitamente piccolo, su cui, però, si basava tutto l’universo, la affascinavano. Passava ore al tablet 3D a leggere, girare su se stesse le simulazioni delle molecole e degli orbitali, i minuscoli atomi tante sferette dai diversi colori. Una volta noleggiò un libro di chimica biologica. In esso, era disponibile un modello proiettabile di una cellula a lavoro. Lei lo attivò. Quando la Mamma tornò a casa, la trovò piangente, organelli ed enzimi colorati e frenetici ancora in ologramma nel vuoto del soggiorno. Una piccolissima fabbrica in piena attività. La abbracciò, e le chiese cosa fosse successo. La nutrice del Nido l’aveva forse sgridata? No, aveva risposto G. asciugandosi il moccio col dorso della mano (la Mamma non la riprese solo perché la bambina era evidentemente disperata). No. E allora perché? Perché tutto questo esiste, mamma. Ed io non lo sapevo.
Ora G. guardava la bara, laddove un tempo c’era stato quell’ologramma, e si sentiva invadere da una tremenda tristezza.
-G.! Vieni qui,- diceva la Mamma, allargando le braccia,-Sarà bellissimo!
Eppure G. tremava, il cuore le batteva all’impazzata. Il respiro le si strozzava in gola, qualcosa che le sarebbe rimasto per sempre. Come quando si mangia troppo, e non si avverte l’aria passare nell’esofago. G., disperata, allora, guardò il papà, che si limitava a sorriderle appoggiato alla bara candida.
-Non voglio morire, Papà! ,- e scoppiò a piangere disperata. Si sentiva scossa da mille tremiti, ogni singhiozzo era più doloroso del precedente.
Il Papà, occhi azzurri come i suoi e capelli, un tempo scuri, ora brizzolati, si fece improvvisamente serio. –Piccola, questo è un regalo per te. Noi non avremmo tutto il tempo che avrai te a disposizione nell’E-Sim. Possiamo utilizzarlo solo per 10 ore settimanali a testa. ,- si accovacciò al suo fianco e le prese le spalle con le mani grandi, guardandola negli occhi,-Tesoro, vedi quello che c’è nei tuoi libri? Le nuvole, i fiumi, la pioggia. I mari. Tutti quegli animali che vivono negli abissi del mare. Chissà, forse li potrai vedere.
Il Papà aveva cercato di rassicurarla, di incuriosirla. Eppure neppure lui sapeva cosa G. avrebbe trovato, nella camera della vita. Laggiù, nel profondo dei recessi di un software concepito da qualcuno toccato dalla mano del TecnoDio, e che, incredibilmente, ne era sopravvissuto.
G. aveva annuito. Le mani del Papà sulle sue spalle le avevano dato sicurezza. Del resto, quella bara era un regalo per lei. Non importava come appariva, giusto? La Mamma lo diceva sempre. L’importante è quello che c’è dentro. Se valeva per le persone, perché non doveva essere sensato anche per le macchine? Eppure, le faceva paura. La Mamma, allora, vedendo che finalmente la figlia era d’accordo, aprì lo sportello trasparente della Camera.
G. con attenzione, mise un piede avanti all’altro, cercando di controllare il respiro. Inspira, espira. Inspira, espira. Si trovò di fronte all’abitacolo della bara. Sembrava accogliente. Era imbottito di un materiale soffice, bianco, caldo.
G. entrò nella camera. Si sentiva improvvisamente calma. Probabilmente, avrebbe pensato, una volta cresciuta, che era lo stesso tipo di calma dei condannati a morte di fronte al rotondo portello stagno che li avrebbe lanciati lontano, sulla tetra superficie. La Mamma, sorridendo, chiuse delicatamente lo sportello trasparente, davanti a G. Da dentro, non si vedeva nulla di ciò che c’era fuori. G. era totalmente isolata. Era a casa sua, a pochi pollici da lei c’erano i suoi adorati genitori, ma si sentì tremendamente sola. G., da grande, avrebbe imparato che si è soli soltanto quando si dorme e quando si muore. Quando neppure la propria coscienza è rimasta.
Sensori neurali scesero serpeggiando verso di lei. Minuscoli, aderirono alla pelle della sua fronte. Cinghie si chiusero attorno ai suoi polsi, ed una cannula trasparente uscì chissà quale scomparto nascosto nel tetto opaco della bara. G. immaginò servisse per respirare. Lo prese tra le labbra e provò ad inspirare. Aria, perfetta ed insapore, si riversò nei suoi polmoni. Assieme all’aria, però, c’era qualcos’altro.
G. si sentì improvvisamente calma. Smise di stuzzicarsi con la lingua la gengiva nuda dal dente che aveva perso proprio quel giorno. Le sembrò di galleggiare leggera, come a volte le era capitato di sognare. La sensazione che si prova, prima che i sogni diventino incubi, prima di cadere, e svegliarsi. Chiuse gli occhi, e tutto si fece buio. Per un tempo che le parve infinito, galleggiò, senza alcun pensiero, nella vellutata oscurità data da quel sonnifero.
All’improvviso, si fece la luce. Un’esplosione di luce, di tutti i colori anche solo pensabili. Un’ode alla vita che G., in tutti i suoi libri e in tutta la sua chimica, nella sua immaginazione di cellule frenetiche e di assoni che trasmettevano magici impulsi, nella sua giovane vita di bambina, non aveva mai pensato possibile. G. si sentì vera, esistente. In quel momento, avrebbe raccontato da grande, di aver avvertito l’intera immensità del cosmo, di averla sentita in sé, ed, al tempo stesso di farne parte. Il miglior orgasmo che avrebbe mai provato. Si sentì in sé e fuori di sé, si sentì fluttuare fra le stelle e il fuoco delle stelle riscaldarla da dentro. Supernovae esplodevano tutt’attorno a lei in infiniti detriti e miliardi di colori. La vita nasceva nei brodi primordiali riscaldati dal vulcani, acidi nucleici si ripiegavano su se stessi e creature antiche deponevano uova in nidi di terra. Nuotò con i kraken negli abissi accoglienti e volò con gli albatros nei cielo illuminato dalla Stella, le nuvole rosa del tramonto. Il TecnoDio la amò e lei amò Lui. La sua vita divenne concreta e la sua anima tangibile. Ne sentiva il dolce peso. Il primo accesso all’E-sim non si scorda mai.
La sensazione sfumò, pian piano, dolcemente, lasciando il posto alla calma. La luce cambiò. Si definirono i colori. Giallo, blu, e verde scuro. Lo scroscio delle onde del mare, ritmico, la cullò. Una spiaggia apparve. Infinita, a perdita d’occhio, la sabbia dorata si stagliava, leggermente ondulata dalla brezza marina. In bocca, sentì il sapore del sale. Allora è davvero così
G. non sentiva il peso del suo corpo. Solamente una massa leggera, a cui sentiva di appartenere. Ecco, sentiva di essere esattamente quella sfera. Che tutta se stessa si riducesse a quello. Eppure era così gradevole, sapere di essere nient’altro che quello. Un nucleo ribollente ed informe, che racchiude in sé tutte le possibilità, perché è al punto zero dell’esistenza, perfettamente neutro e perfettamente innocente. Provò ad usare gli occhi, per guardare come appariva. Sotto di sé, solo la sabbia. Sopra di sé, solo il cielo azzurro, screziato da delicate nuvole bianche.
Una figura cominciò a formarsi, a prendere le sembianze di un essere umano. Un uomo. Un uomo anziano. È davvero vecchissimo, pensò G. Il viso era coperto di rughe, ma le labbra secche erano increspate in un sorriso giovanile ed accogliente. Rughe si dipanavano dagli occhi, come la tela di un ragno, rughe gli segnavano la fronte, rughe gli solcavano le guance. Gli occhi, grigi, erano, però, attenti e vigili. Sedeva sulla sabbia, a gambe incrociate, e il corpo fragile e leggero era coperto da una semplice tunica di lino, come quelle indossate dai Sacerdoti.
L’uomo parlò, e lei, pur non avendo orecchie per sentire, lo udì. Potrai essere chi vorrai. Puoi ricreare te stessa e di nuovo distruggerti. Potrai tornare al punto di partenza quante volte ti andrà.
L’uomo fece poi un ampio gesto con le mani, incredibilmente forti nonostante l’aspetto emaciato del vecchio. E, davanti a G., apparve se stessa.
Apparve il suo corpo, nudo, da bambina. Ossa corte, corporatura piccola ma non esile. Pelle candida. Pensò si trattasse di uno specchio. Densa sfera quale era, girò attorno al corpo, i cui occhi erano aperti, la bocca piegata in un delicato sorriso confortante che G. , effettivamente, si domandò se le fosse mai appartenuto.
Hai qualche dubbio, piccola?, chiese il vecchio nella sua testa.
G. fu indecisa se parlare o no. Avrebbe udito la sua stessa voce? Sì, concluse, perché se poteva vedere, il vecchio, il mare, il sole, e sentire la sabbia sotto di sé ed il profumo della brezza marina, avrebbe potuto anche udire la sua voce.
Cosa devo fare?, chiese. Immagina come vorresti essere, bambina mia, rispose il vecchio, continuando a sorridere rassicurante, senza neppure aver mosso le labbra.
G. immaginò. Si pensò con i capelli rosso fuoco, e quelli, una volta neri, così divennero. G. si pensò con la pelle scura, e così fu.
Continuò a sperimentare, per un tempo che le parve brevissimo, ma che fu, in realtà, lunghissimo. Il vecchio, in silenzio, continuava a guardarla interessato. Il mare continuava ad infrangersi con onde calme, sulla spiaggia. Il tramonto, arancione e dorato, sembrava non finire mai.
Alla fine, G. si sentì soddisfatta del risultato. Girò attorno al corpo, ammirando la sua creazione.
Si trattava di una donna, incredibilmente somigliante a lei, quella bambina che dormiva nella camera della vita. Pelle pallida, capelli scuri, riccioluti, lunghi fino a metà schiena, grandi occhi azzurri. Non una bellezza, pensò fra sé e sé. Una donna normale, perfettamente nella media delle lunari. Ne aveva viste di più belle, perfino fra le sue maestre. Era bassa, esile, con non un granché di forme, abbastanza infantile nell’aspetto sebbene G. si fosse impegnata al massimo per invecchiarla. Per invecchiare se stessa. Del resto, tutti i bambini sognano di essere grandi, prima che il tempo scorra, come a volerlo accelerare, invece di assaporare i momenti migliori che quel punto zero, a cui si trovano, può regalar loro. Infine, come tocco finale, cancellò il sorriso ebete dal volto della sua creazione, sostituendolo con un’espressione concentrata, quasi corrucciata. Scrutatrice, critica, nei confronti di quel mondo appena nato.
Se, in quel momento, avesse avuto un viso, avrebbe sorriso al vecchio. Che posto è questo?, chiese al vecchio.
Bambina mia, non spetta a me dirtelo. Io sono solo un umile servitore del TecnoDio che ha regalato all’umanità la possibilità di camminare, di nuovo, sul pianeta. Non so nulla e non me ne interesso. Il mio unico compito è vegliarvi, accudirvi, tranquillizzarvi, nel vostro Incipit.
Cos’è l’Incipit?, chiese G., fluttuando vicino al vecchio, osservandone da vicino le migliaia di rughe, come piccoli canali di scolo di crateri ricolmi di anidride carbonica su Marte.
Ma tu esisti? Sei come me? Vivi sulla Luna? Dormi da qualche parte, nella tua camera?
L’uomo, per la prima volta in quel lunghissimo tempo, cambiò espressione. Si fece improvvisamente serio, ed una nota grave si dipinse sul suo viso e nella sua voce. Non sono come te. Io vivo qui. Appartengo a questa creazione divina. Non sono come te. Non ho peso, come te. La mia anima è dilatata, è ovunque. È un oceano. Capisci quello che intendo?
G. era confusa. Non capiva. Oceano? Decise comunque di mostrarsi spavalda, di far capire a quel vecchio che lei era una bambina molto, molto, intelligente. Se fossi un oceano, saresti fatto d’acqua e popolato di pesci. Non saresti un vecchio. Saresti quello. E indicò il mare, che se ne fregò dei suoi dubbi, continuando a schiumare lieve.
Ed infatti, in un certo senso, lo sono. Sono l’Incipit.
G. si ricordò di poco fa, di quella strana parola. Prima non mi hai risposto. Cos’è l’Incipit?
Il vecchio tornò sorridente e gioviale. Scambiò le gambe che teneva incrociate, con evidente piacere.
È il tuo nuovo inizio. È ciò che ti farà comprendere, almeno in parte, questo nuovo mondo.
Ma ci sono altri, come me?
Sì, moltissimi. E sempre più ne arrivano.
Quindi non sarò mai da sola.
Se non lo vorrai, no. Ora, bambina, avvicinati al tuo corpo.
G. fluttuò fino al suo corpo, e da vicinò ne ammirò le piccole imperfezioni. Aveva lasciato qualche lentiggine sul naso, ed una forma non proprio ideale di sopracciglia, solamente per fare un dispetto alla mamma, che passava ore a criticare le donne più belle e più giovani di lei.
Avvicinati ancora di più, sussurrò il vecchio, con infinita dolcezza. Buona fortuna, sulla Terra, G.
 
G., ridotta a quel nucleo denso di coscienza, si sentì irradiare di un calore mai sentito prima, e sentì, distintamente, qualcosa, nel profondo, accendersi, mentre la sua mente veniva trasferita nel fantoccio, prima senza vita. Si sentì dilatare, ampliarsi, rarefarsi, riempire ogni spazio vuoto di quel corpo. Il cuore cominciare a pulsare, distintamente, nel suo petto. Poté finalmente battere le palpebre, piegare le dita, avvertire la propria pelle sotto i polpastrelli. I tendini tirarsi ed i capelli fluttuare nella brezza marina.
Mai avrebbe immaginato che, mentre il fuoco, dentro di lei, aveva cominciato ad ardere, qualcosa di più profondo, una fiamma pilota, piccola, a malapena un lumicino, si era spenta per sempre. Non era più al punto zero, e mai vi sarebbe tornata. La natura era morta, ed il fantoccio era venuto alla luce.
  
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