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Autore: A J Foster97    09/10/2016    0 recensioni
[Non Dirlo al Mio Capo]
Napoli.
Lisa Marcelli è una giovane vedova in difficoltà economiche alla ricerca di un posto di lavoro. Con uno stratagemma si fa assumere come praticante avvocato nello studio legale di Enrico Vinci, un uomo affascinante, ma con un brutto carattere al quale nasconde l'esistenza dei suoi due figli, Mia e Giuseppe. Allo studio suscita la gelosia di Marta, ambiziosa e desiderosa di sposare Enrico, il quale invece non sembra interessato ad arrivare all'altare. A casa invece si fa aiutare e consigliare da Perla, la nuova vicina e improbabile baby-sitter, che forse in circostanze normali non avrebbe mai frequentato.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
La praticante

Quando rientro in casa è già il crepuscolo, ma riesco ancora a sentire in testa i riverberi di It's All Yours di Petit Rouge che ho ascoltato per almeno un'ora durante il viaggio.
''Mia! Giuseppe! Sono a casa'', annuncio, chiudendo la porta con il tacco degli stivali poiché le mani, piene di borse, non me lo consentono. Appoggio rumorosamente, come capita, le chiavi sul tavolo ed esclamo: ''Ho fatto la spesa, perché c'è una novità e dobbiamo festeggiare''. Da subito, come trascinato dal canto di una sirena, vedo arrivare saltellante Giuseppe con addosso qualcosa di orripilante.
''Mamma, mamma!'', afferma, arrivandomi accanto, il sorriso che gli scompiglia il viso.
''Che cos'è questa cosa?'', chiedo, esaminandolo con attenzione.
''E' la camicia di forza di Udinì, l'ho comprata con papà'', sembra quasi offeso che non me lo ricordi o che non lo sapessi, e come potrei, da qualche mese a questa parte tutto ciò che pensavo di sapere su mio marito si è dissolto e mi sono resa conto di non conoscere affatto quel farabutto traditore, pace all'anima sua.
''Vai a cambiarti, sù, che dopo festeggiamo'', lo liquido con un'affettuosa pacca sul sedere.
''Anch'io avevo scelto la scuola con papà'', dice Mia, irritata dal fatto che dovrà frequentare una scuola pubblica e non più una privata. Ma come potrei spiegarle che siamo totalmente al verde? ''E domani avrò un primo giorno di scuola da schifo'', continua, iniziando a disfare le borse, senza rivolgermi nemmeno lo sguardo.
''Senti, Mia, ti prego... ne abbiamo già parlato'', la mia è quasi una supplica, non ho bisogno che i suoi capricci rovinino questa serata meravigliosa. ''No, mamma, tu ne hai parlato e tu hai deciso che devo lasciare le compagne che conosco da quando facevo l'asilo per andare in una cavolo di scuola pubblica'', se non mantenesse intatto quel suo solito distacco gelido, penserei che sia furiosa.
''E' un'ottima scuola, va bene?'', le dico, cercando di convincerla con gentilezza. ''Così potrai andare in un'ottima università e trovare un buon lavoro!''. Così si fa, Lisa!
''Come quello che hai tu?''. Touché. Contro Mia non vinco mai.
''Sì! Come quello che ho io'', ribatto, tuttavia, spiazzandola completamente. Le sue pupille dilatate mi invitano a proseguire. ''Ti ricordi l'uomo che ho tamponato? Mi ha assunta. Sono la sua nuova praticante'', lo dico con un tale fervore che fatico ancora a crederci.
''Hai trovato lavoro?'', mi domanda Mia, colma di perplessità fino alla punta dei capelli. ''Come hai fatto?''. Non capisco perché sia così sorpresa. Sì, va bene, non avrò molta esperienza, ma da ragazzina ho lavorato in una gelateria, vale, no?
''Senti, tua mamma è laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti, hai capito?'', le dico, con una sicurezza che spiazza anche me. Decido però di omettere il mio passato da venditrice ambulante.
''Non è questo... Sono due mesi che cerchi lavoro, cos'è cambiato oggi?''. Da subito mi sembra di venire nuovamente scaraventata in quell'ufficio e di sentire me stessa mentre altero spudoratamente la verità dicendo: ''Figli io? No. Assolutamente no. Anzi, le dirò di più, io odio i bambini''. Cerco di ignorare la sua domanda, affannandomi a sistemare gli acquisti nella dispensa, ma non posso farlo troppo a lungo, poiché lei continua, interrogandomi: ''Allora?'', dannazione, perché è così insistente, tutta suo padre.
''Ha riconosciuto le mie capacità, tutto qui''. Mi sono salvata in calcio d'angolo, fiù. Mia mi lancia un'occhiata non troppo convinta e come una tigre che ha appena finito di sbranare la sua preda, si allontana, lasciando che a logorarmi siano i sensi di colpa.

***

Conclusa la cena, dopo essermi accertata che Giuseppe dorma e che Mia la smetta di chattare al computer, spengo la tivù e mi avvio verso la doccia, trascinandomi per la stanchezza. Una volta dentro, mi trovo a volteggiare sotto brillanti gocce d'acqua calda, coccolata dalla tenera brezza della sera. Mi sento quasi tranquilla e rasserenata. Andrà tutto bene. Infilo la camicia bianca programmata per domani nella lavatrice e raggiungo il mio letto. ''Ho tutto sotto controllo: la sveglia è puntata per le sei, poi preparo la colazione, porto i ragazzi a scuola ed io me ne vado in ufficio. Perfetto'', dico a me stessa, con sicurezza e caparbietà. Una parte di me è tremendamente spaventata di lasciare Mia e Giuseppe da soli, per così tanto tempo, tutti i giorni, ma l'altra parte sa che non c'è altra soluzione. Mentre mi rimbocco le coperte, costringendomi a dormire, domande come Chi li accompagnerà a scuola? Chi penserà alla casa? Chi si occuperà di loro?, iniziano a lacerarmi e a togliermi il sonno. Non avrei mai voluto mentire sulla loro esistenza, in quanto sono la cosa più bella potesse mai capitarmi, ma a quanto pare, nel mondo del lavoro è necessario. Mi addormento con questa consapevolezza.

***

Capisco subito di trovarmi in un incubo, una terribile realtà che, sebbene lui mi abbia fatto più male di chiunque altro, vorrei poter cancellare. Come quasi tutte le notti mi ritrovo a rivivere quel giorno, il giorno in cui Alberto è andato via. Era una giornata che sembrava nessuno potesse rovinare, in una vita che appariva perfetta. Ricordo ancora il bacio che gli diedi e il suo ti amo che voglio continuare a credere fosse vero. Lo strazio di quel momento è così vivo in me che mi sveglio con le lacrime agli occhi e la voce di Mia che, dall'altra stanza, strepita: ''Mamma! Mamma! Giuseppe non esce dal bagno!''. Buongiorno, Lisa. Getto un'occhiata alla sveglia e m'accorgo che sono già le 07:34.
''Dannazione, avevo messo la sveglia alle 6'', borbotto mentre mi alzo in tutta fretta e poggio i piedi sul pavimento umido d'acqua e sapone.
Cos'è successo?
''No, ti prego, no'', mugolo, sperando fino alla fine di non accertarmi di ciò che penso sia successo. Perfetto. La mia camicia è andata. ''Calma, Lisa, Calma. Adesso asciughi per terra, ti lavi i capelli e nessuno noterà i tuoi vestiti sciatti. Qual è la parola d'ordine? Serenità'', mi dico ad altavoce, tentando di regolare i battiti del mio cuore.
Nella stanza adiacente Mia continua a bussare bruscamente alla porta del bagno e ad urlare: ''Mamma, fa' qualcosa.''
''Arrivo'', le dico di tutta risposta, per poi balzare fuori dalla mia stanza con il viso sciupato e i capelli arruffati.
''Allora?'', le dico, rimproverandola.
Lei mi rivolge uno sguardo feroce e, riprendendo a sbattere il pugno sulla porta, mi dice: ''Oggi è il primo giorno di scuola ed io ho questi capelli. Fanno schifo. Sei tu che me li hai trasmessi!''. La sua intonazione è tremolante, l'agitazione concreta.
''Calmati, ho capito'', le dico, cercando di razionalizzare la situazione e di non entrare nel pallone, visto il mio aspetto indecente stamattina. ''Giuseppe, amore, esci dal bagno?'', gli intimo, amorevolemente.
''Un secondo, sto girando la chiave con la forza del pensiero.''
''Io ti strozzo con la forza del pensiero'', sbraita Mia realmente imbestialita.
''Mia, per favore, basta'', le dico, autoritaria, fermandole la mano.
''Uffa, non posso stare nemmeno tranquillo in bagno'', dice Giuseppe, uscendo sconfortato dal bagno, con la vocina rigata dal disappunto.
Gli accarezzo i riccioli disordinati e gli stampo un bacino sul naso dopo che lui mi dice: ''A me piacciono i tuoi capelli, sembri spongebob''.
Mia invece si chiude subito in bagno ed esce solamente mezz'ora dopo quando ormai per me è troppo tardi, anche solo per sciacquare il viso.
''Non ho lavato i capelli, non ho stirato la camicia...'', bofonchio mentre chiudo a chiave la porta di casa, ''ma noi siamo puntuali, ed abbiamo il caffé...'', che senza nemmeno a dirlo si è appena rovesciato sul vestito di un nostro vicino che, a quanto pare, si sta trasferendo. ''E adesso non c'è più, hai visto Giuseppe, sono un mago anch'io!'', dico, cercando di cammuffare la mia sbadataggine, almeno davanti ai miei figli.
''Che bel casino'', cantilena Mia, tenendo gli occhi puntati sul cellulare. Ma che avrà mai da guardare? Io non so nemmeno come si azionano quei maledetti aggeggi.
''Che sarà mai, è solo un vestito'', ribatto, facendo spallucce.
''No, mamma, questo non è un vestito, questo è uno Chanel'', constata dopo aver guardato accuratamente l'abito, con gli occhi strabuzzanti di sorpresa.
''Adesso non abbiamo tempo, sù, andiamo''. Se il buongiorno si vede dal mattino, non oso immaginare cosa mi accadrà tra due ore. Appena arriviamo davanti scuola, Mia scende, sbattendo la portiere, con quelle sue maniere scortesi che mi fanno dubitare d'averla educata bene.
''Mia, non fare così'', le dico, implorandola, ma lei è già svanita, risucchiata dal flusso della folla.
''Mamma, non ti preoccupare, appena divento un bravo mago la faccio sparire'', mi dice Giuseppe, sporgendo la testolina dal sedile posteriore. Gli sorrido calorosamente e gli intimo di far scomparire tutti i suoi giocattoli dall'auto. Lui mi chiede perché, ed io devo necessariamente inventarmi una scusa, per la milionesima volta in due giorni. Di certo non posso dirgli che se il mio capo scopre che ho due figli sulle spalle mi manda via a calci nel sedere. Lui annuisce, ma è abbattuto.
''Così sembra che non esistiamo più'', singhiozza.
''No, amore. Come potreste. Voi siete la cosa più bella della mia vita'', gli sussurro, accarezzandogli il viso per rincuorarlo.
Ma ha ragione. Sembra proprio che non esistano più.

***

Dopo aver accompagnato Mia e Giuseppe a scuola, arrivo in ufficio puntuale ma trascurata da morire: una coda di cavallo disordinata, una camicia stropicciata ed un completo acquamarina risalente a tre anni fa recuperato dalle fauci dell'armadio. Mentre aspetto che l'avvocato faccia il suo ingresso e ci degni della sua presenza cancello dal mio blackberry tutte le foto di Mia e Giuseppe. Mi sento malissimo. Giuseppe aveva ragione. Sembra che parte della mia vita si sia completamente volatilizzata.
''Signora?'', mi sento chiamare da dietro, la voce è sprezzante e l'essere stata chiamata signora mi urta non poco. Mi volto di scatto, come se fossi stata colta in flagrante, e noto una figura che mi fa impallidire. Alta, longilinea, gambe da fenicottero, viso allungato e spigoloso, grandi occhi scuri e penetranti, labbra carnose macchiate di rosso ed una chioma nera che le sfiora appena le clavicole. Indossa dei leggins neri sfavillanti ed una camicetta dello stesso identico colore arricciata ai bordi. L'altissimo me l'ha mandata per castigarmi e mettermi davanti all'evidenza della mia totale incapacità estetica?
''Per le pulizie la divisa è nello stanzino delle scope'', mi mette al corrente con fare altezzoso e francamente maleducato.
''No... ehm, io sono la nuova praticante dell'avvocato Vinci'', le dico, cercando d'essere più cordiale possibile, addirittura le stringo la mano, con un sorriso che va da un orecchio all'altro, ''Lisa Marcelli'', proseguo.
Mi osserva a lungo, con una smorfia dipinta sul viso, come se fossi un'insetto letale da annientare immediatamente.
''Sciatta e in età fertile, eh. Spero solo che tu non abbia lasciato un lavoro per venire qui'', dichiara, il volto illuminato da un sorriso malvagio, ''perché durerai poco'', mi bisbiglia all'orecchio, con l'alito fresco di menta ed il profumo Poivre Caron di Baccarat.
Che antipatica, la detesto di già. Ma chi si crede di essere?
''Vai vai'', mi ordina, gesticolando con la mano per liquidarmi, quasi le avessi dato noia. Appena mi giro tuttavia vengo nuovamente ripresa.
''Ah, scusa, abbiamo qualcosa attaccato ai pantaloni'', riferisce, dopo aver staccato un adesivo dal mio completo con su scritto bimbi a bordo. Cavolo. E adesso?
''Ah, sì, è che ieri... sono andata ad una festa e abbiamo tirato dritto fino all'alba'', ecco che ricompare quel mio solito sorriso da ebete.
''Bimbi a bordo?'', indaga, perplessa.
''No...'', le dico, dopo averle strappato di mano quell'adesivo che rischia di farmi licenziare, ''tutti con il ciuccio in bocca, è una cosa Freudiana''.
E Lisa si salva ancora. Per il momento.
D'improvviso le porte dell'ascensore si azionano e l'avvocato Vinci fa il suo ingresso nell'ufficio con un sonoro: ''Andiamo, Simona!''. Ma con chi sta parlando? E' ancora più avvenente di ieri, se è possibile: i capelli castani gli accarezzano la fronte corrucciata, un sottile velo di barba gli incornicia il viso dandogli un'espressione enigmatica e, allo stesso tempo, selvaggia, il fisico snello ed agile, l'abbigliamento impeccabile, il profumo rigorosamente Dior. Tutto di lui mi affascina, mi fa sussultare. La sua stessa presenza rende l'aria carica d'elettricità. Ma non dovrei pensare a lui in questo modo, non è corretto.
''Dai Simona, abbiamo un sacco di lavoro da fare'', continua, incamminandosi verso l'ufficio, con quel suo passo sicuro ed elegante. Lo seguo come una scolaretta completamente ammaliata ed un po' stordita. ''C'è la deposizione dell'infermiera della madre di Silvia, devo prepare le ultime carte per l'udienza, bisogna anche chiamare l'avvocato della controparte e segnati che il figlio giocava con me a tennis, può essere utile'', scandisce così velocemente le parole che riesco a malapena a memorizzare parte di tutto ciò che ha detto. ''Perché il mio caffé non è sulla scrivania?'', mi chiede, con arrogante presunzione. ''Forza, Simona, sbrigati'', conclude, sbattendomi la porta in faccia.
''E comunque mi chiamo Lisa'', rispondo con un filo di voce, troppo tardi perché mi abbia sentita. Ma tu guarda che stronzo, sarà pure bello, ma con uno così non ci starei nemmeno sotto tortura. Arrivata a questo punto, la giornata mi sembra infinita.
Mi attivo subito per prepare un caffé e portarglielo con le migliori intenzioni possibili, speriamo solo non sia troppo infuriato.
''Eccomi'', dico, porgendogli la tazzina bollente. Il suo sguardo è glaciale, perso in chissà quale dimensione, le movenze meccaniche. C'è qualcosa di vero in quest'uomo?
''Alla buon'ora''. Quant'è magnanimo.
''Senta avvocato, stanotte avrei controllato la casistica sul tema della circonvenzione d'incapace. Si parla molto del rischio, laddove ci sia il lutto, di falsare la perizia, quindi io avrei pensato di...'', ad interrompere il movimento irruente delle mie parole è il suo disturbante: ''Che cosa stai facendo?''. Sul suo viso sorge un'espressione genuinamente sconcertata ed un lungo silenzio segue questa sua stramba domanda.
''L-La sto aiutando sul caso Torrini, no? E' per questo che mi ha assunta, no?'', balbetto, insicura sul da farsi. Ormai non so più cosa aspettarmi da quest'uomo. Lui, nel mentre, continua a sorseggiare impertinente il suo caffé e quando si sente particolarmente benevolo per rivolgermi la parola, mi porge un foglio, dicendomi: ''E' per questo che t'ho assunta'', mi strizza l'occhio. Il suo sorriso mi sconvolge, ma devo rimanere concentrata. Io detesto gli uomini come lui, arroganti, presuntuosi e maledettamente affascinanti.
Comincio a leggere ad alta voce: ''Comprare il cibo per il gatto, pagare il conto al fioraio, lasciar-lasciare Camilla?'', sono allibita, tutto mi sarei aspettata fuor che dover fare la cameriera di un buzzurro come Enrico Vinci.
''Stasera cena al 900, siamo in sei, alle otto. Mi raccomando, prenota il tavolo entro l'una altrimenti non te lo danno. E porta il mio completo in lavanderia, a secco con stiratura umida. Ma perché non scrivi?''.
Sono paralizzata, non riesco a muovere nemmeno un arto per via dello sconcertante imbarazzo che mi ha appena acceso il viso. ''S-sì'', rispondo mentre lo seguo accanto alla scrivania dietro la quale si accinge a sedersi.
''Scusi è che non ho capito... 900? 800? Ma lei non mi aveva assunto per aiutarla sui casi?'', domando, ormai pallida come un lenzuolo. Non posso credere d'essere finita a fare la sguattera, dopo aver fantasticato a lungo su quest'occupazione e sul prestigio che mi avrebbe fatto assumere. Probabilmente tra un po' mi farà pure portare a spasso il suo cane.
''Sì, ti occuperai dei vecchi casi da catalogare in archivio'', sorride con un ghigno, il bastardo. ''Mentre torni sù mi prendi un pacchetto di gomme?'', continua, perdurando l'umiliazione. Annuisco, smarrita e fuoriosa al tempo stesso. Possibile che nessuno possa prendermi sul serio?
''Che ci fai ancora qui?'', affonda gli occhi nei miei, cercando di spiegare a se stesso il motivo per il quale non mi sto già strappando i capelli poiché il Supremo Enrico Vinci mi sta concedendo la grazia di poter raccattare i suoi panni sporchi e di scorrazzare per la città al fine di compiacerlo.
''Vuoi il bacetto del buongiorno?''. Che sfacciato, continuo a detestarlo. Mi volto intenta ad andarmene, furibonda, appallottolando tra le mani la sua stupida lista delle commissioni.
''Sù con la vita, Luisa'', mi dice, una volta che poggio la mano sul pomello.
''Lisa, mi chiamo Lisa'', lo correggo, con quel poco di voce che m'è rimasta.
''Sì, sì, vai''. E' già impegnato a fare altro ed io in un attimo scivolo fuori per non commettere un omicidio.

***

Una volta finito di svolgere i miei compitini, con un broncio da bambina capricciosa, m'infilo nell'ufficio dell'avvocato, aprendo la porta con l'ausilio della spalla (dato che nessuno si prodiga per aiutarmi). Accidenti, quanto pesano queste borse.
''La cartella clinica della signora Torrini non lascia dubbi, nell'ultimo periodo era sotto morfina''.
Posso benissimo riconoscere la voce, ancor prima di vederla, è quella vipera di Marta Castelli che qualche ora prima mi ha umiliato nella hall con il suo durerai poco. E' appollaita come una gatta sulla scrivania dell'avvocato, la gambe chilometriche accavallate le une sulle altre, il rossetto rosso sempre più intenso, e lo sguardo magnetico. Cavolo, quant'è bella. L'avvocato, dal canto suo, sembra essere occupato solamente a colpire quello stupido sacco da boxe che si è fatto appendere nella stanza. Che professionalità. Pur detestandolo per il modo infimo con il quale mi sta trattando, non posso esimermi dall'apprezzare il suo charme. Tra l'altro, con addosso solo la camicia e la fronte imperlata di sudore è ancora più piacente. Non poteva essere vecchio e grasso come me l'ero immaginata? Sarebbe più facile perfino accettare questa mortificazione continua.
''La morfina non è uno psicofarmaco, non possiamo usarlo come prova'', afferma, iniziando a farsi slacciare da un inserviente i guantoni, ''abbiamo bisogno delle testimonianze dei suoi medici'', conclude secco.
''Vestiti ritirati, fiori mandati e ristorante prenotato'', dico, prudentemente intanto che poggio le borse sul divanetto a ridosso, ''è stato più difficile ovviamente lasciare Camilla con un bigliettino'', non posso contenermi dal dire.
L'avvocato mi lancia un veloce sguardo disinteressato e domanda: ''Il mio sushi?''. Che?
''E, non mi ha detto di comprarlo'', mi difendo, col viso accigliato. Forse si sta prendendo gioco di me.
''E secondo te cosa mangiamo?'', chiede la vipera con aria di sfida, mi piacerebbe proprio dirgliene quattro.
''Vai a ritirarlo mentre torni da casa di Vittorio Torrini, ieri ha lasciato la sua ventiquattrore qui. Mi raccomando: entri, gliela lasci e te ne vai. E' un nostro avversario, non una parola con lui'', riferisce, senza darmi troppo conto. Forse pensa che le pupille gli si possano sciogliere se perde troppo tempo a guardare una popolana come me.
''Va bene'', rispondo diretta; non vedo l'ora di uscire da questa stanza per infilarmi in macchina ed ascoltare All by myself imitando la Bridget Jones che c'è in me. Improvvisamente mi squilla il telefono nella tasca. Entrambi sembrano risentiti e si scambiano un fiume d'occhiate.
''Scusate'', dico svelta. Mi sposto in un angolo della stanza e rispondo: ''Sì?''.
E' la scuola di Giuseppe, m'informa che il bambino ha preso una brutta influenza intestinale e che sta vomitando da stamattina. Devo necessariamente andarlo a prendere.
''Sì, arrivo subito'', dico, biscicando le parole, con una fretta improvvisa.
''Arrivi dove?'', indaga l'avvocato ponendomi chiaramente una domanda retorica.
''Arrivo a... a comprare il sushi, cioè, senno dove altro dovrei andare?''.
A nascondermi, probabilmente.

***

''E' influenza intestinale, gira'', m'informa la maestra dai buffi riccioli d'oro e della camicetta fiorata sotto un delizioso cardigan lilla. Tutto in lei sembra etereo ed infinitamente infantile. Oggi mi piacerebbe proprio ritornare ad essere bambina e scacciare via le mille preoccupazioni, le umiliazioni, i disguidi con Mia, le lettere minatorie della banca. Ispeziono il viso di Giuseppe con i polpastrelli: la pelle è calda, bollente, gli occhi infossati ed assenti, non ricettivi, il viso spento e la bocca asciutta. Povero piccolo.
''Sì, va' be, non è che scotta così tanto...'', le dico, giustificandomi, ''e poi potrebbe anche essere stato il cibo della mensa perché, parliamoci chiaro, è immangiabile.'' L'espressione di Giuseppe muta immediatamente e con gli occhi tenta di mandarmi dei messaggi che non recepisco, così come anche il viso della maestra si oscura perdendo la sua iniziale radiosità.
''Senta, oggi è il mio primo giorno di lavoro, non può tenerlo lei in classe, la prego...'', domando, quasi implorandola. Giuseppe mi fissa corrucciato. ''Mi dispiace, ma è impossibile'', ribatte, gelida. Poi continua, con un sorriso espansivo: ''E da domani, visto che il cibo della mensa le fa così schifo, il pranzo glielo prepara lei'', conclude, porgendomi lo zaino. Giuseppe ed io ci alziamo, ma prima di sparire dietro le porte le mando un sonoro e falsissimo: ''Grazie.'' In macchina tutto mi appare più chiaro quando Giuseppe mi dice: ''Mamma, la maestra Evelina è la figlia della signora che lavora in mensa!'', la sua risata è incontenibile, anche se il viso continua ad essere macchiato di verde.
''Stai meglio?'', gli dico, preoccupata.
''Sì, ma tu rallenta'', mi urla, con il volto completamente fuori dal finestrino per inalare quanto più ossigeno possibile e rallentare il flusso gastrico. Cavolo, non posso decelerare, sono già in megaritardo e a Napoli il traffico è insostenibile. Nonostante le difficoltà e Giuseppe che mi vomita in macchina, sono riuscita a prendere il sushi ed aver trovato l'abitazione di Vittorio Torrini. Grazie Google Maps.
''Allora amore, se ti viene da vomitare fallo qui'', gli dico, porgendogli il sacchetto di carta che mi hanno dato da Konoha.
''La mamma torna subito'', lo rassicuro, dandogli un pizzicotto affettuoso sulla guancia rovente. Dovrei anche passare dalla farmacia a prendere qualche antibiotico a questo punto. Nel mentre che ci penso, sono già arrivata al quarto piano di questa palazzina estremamente barocca e sofisticata. Suono il campanello, ma trovo la porta sorprendentemente aperta, uno spiffero d'aria mi fa sussultare.
''E' permesso?'', dico, titubante. ''Signor Torrini, sono Lisa Marcelli, s-sono venuta a portarle la sua ventiquattrore''.
Come mio solito, da buon'amante dell'arte, non posso redimermi dall'osservare con grande garbo l'intero abitacolo, che è arredato in modo sublime. I mobili in legno artigianale, lavorato a mano, con fronzoli e giravolte che pendono su ogni lato, i meravigliosi quadri di Degas sperperati ad ogni angolo, vecchi candelabri illuminati dalle fiamme lampeggianti che danno un tocco di mistero. Mi sembra quasi di poter percepire l'anima pulsante di questa casa, silenziosa ed accogliente. Quando trovo il Signor Torrini, per non essere accusata di scasso, mi affretto a precisare: ''Le ho portato la sua borsa'', che prontamente appoggio su una sedia in vimini. Lui annuisce, assente, demoralizzato, quasi svuotato dagli affanni.
''Stavo cercando di svuotare quest'armadio, ogni giorno ci provo ed ogni giorno mi arrendo'', dice, indicando gli abiti della moglie defunta.
''Non ha avuto però le stesse esitazioni nell'andarsene di casa, no?'', ribatto, infrangendo le regole che l'avvocato mi aveva impartito. Che vada al diavolo. L'uomo cambia espressione e si avvicina con fare affabile ma al contempo risentito.
''Le è mai successo di essere delusa da quello in cui credeva di più?'', mi domanda, gli occhi azzurri che strillano di ricordi. ''Be', allora non può capire cosa significa scoprire, improvvisamente, che tutta la tua vita si fonda su una bugia'', prosegue poi davanti al mio silenzio. Ripensare a quanto male mi abbia fatto scoprire che Alberto mi tradiva, da anni, è stato straziante.
''Senta, io non so niente della sua storia'', ribatto, una volta ritrovato il coraggio di parlare, ''ma anche se sua moglie l'avesse tradito, Silvia non c'entra nulla!''.
''No, c'entra eccome. E' solo che a volte per dimenticarti il dolore, devi togliertelo da davanti gli occhi'', afferma, con fare deciso.
Mi piacerebbe saperne di più e continuare a discutere con quest'uomo che sembra averne passate di cotte e di crude. La sua saggezza mi rapisce. Bip-bip. E' nuovamente il mio cellulare quello che squilla. Chi sarà ancora?
''Mi scusi'', dico rapidamente. Sul display compare Mia.
''Sì, dimmi'', rispondo. E' la polizia, invece. M'informa di raggiungere subito il porto. Ci mancava solo questa.
Quando arrivo a destinazione sono furibonda. Parcheggio la macchina distrattamente, così male che per completare la giornata (dato che sono già le 19:36) potrebbero anche farmi la multa. Sono talmente maldestra, anche nei movimenti, che inciampo almento tre volte.
''Buonasera, cos'è successo?'', chiedo ad un polizziotto dalla folta barba castana, dal marcato accento napoletano e da un nauseante odore di sudore che, appollaiato vicino a Mia, la controlla sottecchi constantemente.
''Era con un compagno di scuola e li hanno sorpresi a prendere una barca a vela qua dietro'', risponde poi, con l'alito impregnato di sigaretta e la voce un po' roca.
''Ma la barca è di Romeo'', confessa Mia, con le guance tamburellate di rossore, il fiato corto e l'aspetto sciupato. Non posso credere che abbia potuto fare una cosa del genere. Adesso mi sente. Non posso sempre giustificare ogni sua azione sconsiderata sotto la scusa dell'adolescenza.
''Sì, i genitori hanno confermato e per fortuna il custode ha deciso di non sporgere denunzia'', ammette poi il polizziotto, liquidandoci. Prendo un lungo respiro e libero i polmoni da tutto questo nervosismo represso. Una volta fuori, stritolo tra le mani il braccio di Mia, trascinandola con forza. Un alveare di vecchie impiccione si accalca alla base della scalinata principale per sbirciare ciò che è appena accaduto. Tra di loro volano frasi come ''Cos'è successo'', ''Ma tu li hai visti?'', ''Che madre incosciente''. Vorrei strozzarle ad uno ad uno.
''Mi dispiace, mamma, ma la barca è la sua! I genitori non vogliono che la usi perché è malato, ma è sua'', cerca di scagionarsi Mia, con la voce traboccante di paura ed un batticuore frenetico.
''Stai zitta che è meglio'', le dico, facendola irriggidire. Finalmente un po' di rispetto. Davanti all'autovettura faccio la conoscenza di Romeo, un 17enne teppista, dalla chioma bionda, il naso alla francese, una spocchiosa giacca di pelle ed un caratteraccio.
''Tu sei Romeo, giusto?'', lo interrogo, con fermezza. Non voglio che Mia frequenti questa gente.
''Sì e... sua figlia ha ragione, non è colpa sua'', la difende l'amichetto, con un tono deciso.
''Vai in macchina'', ordino a Mia. Quando vedo la sua esitazione, lo ripeto con maggiore autorità. ''Sta' lontano da mia figlia, hai capito?'', gli sussurro, minacciandolo, per quel che vale.
''Mamma!'', supplica Mia, con le lacrime agli occhi e il rimmel che gocciola sulle guancie.
''E tu'', riprendo, rivolgendomi a Mia e congedando Romeo, ''niente telefono, niente computer e niente nuoto per un mese, hai capito? Eh?'', urlo, incurante dei passanti e delle probabili pettegole là sotto. ''Sei andata via dalla scuola senza chiedere il permesso, ma sei impazzita? Io, tuo fratello, stiamo facendo di tutto per andare avanti e rimanere uniti''
''Uniti?'', ripete Mia, con ormai il visso arrossato dal pianto, le mani tremolanti ma un'evidente voglia di riscatto e ribellione.
''Sì'', replico.
''Tu sei la prima che mente!''. Cavolo, come fa a saperlo? ''Perché non mi hai detto che siamo senza soldi?!'', ribatte, scrutandomi e sperando fino alla fine in un cenno negativo, che però tarda ad arrivare.
''Allora è vero'', dice in fine, scoppiando in un altro fiume di lacrime. ''E' colpa tua se papà è morto, sei tu che lo facevi lavorare tanto pur di avere la tua cavolo di famiglia da pubblicità. Io la odio la famiglia da pubblicità e odio anche te'', conclude, sedendosi sul sedile anteriore, e nascondendo il viso tra le mani.
Mi infilo di fretta in auto, la testa che volteggia e la tranquillità sotto le scarpe. Accendo la radio, sintonizzandola su RTL, che ci delizia con Dirty Old Town di Craig Cardiff. Premo dolcemente l'acceleratore mentre mi disperdo sotto le note dolenti e nostalgiche di una gracile passione, flebile ed amorevole. Mi sento quasi intristita da questo brano, come se tutto il resto non bastasse a buttarmi giù. Quando arriviamo a casa è già il crepuscolo: le luci malinconiche della notte si mischiano in una danza ribelle con i rami di un sole ardente.
È uno spettacolo magnifico, mi toglie il respiro per una manciata di minuti. Peccato non possa essere felice, in questo momento.

***

A cena, sono sola. Mia si è imposta il digiuno e non mi rivolge la parola almeno da due ore. Giuseppe è sfiancato dalla febbre, dal vomito e dall'influenza violenta. Si alza barcollante dal tavolo e mi dice: ''Io ho finito, posso andare in camera mia?''. Annuisco, con il volto segnato dalla stanchezza e da una tristezza grezza, nuova, matura, decisamente dolorosa.
''Domani mi prepari il dolce, a colazione?'', chiede poi, arrivato sul ciglio della porta.
''Ci provo, okay?'', ribatto, accennando un sorriso forzato. Bip-bip. Non di nuovo, ti prego.
''Un certo Enrico sta chiamando, rispondo?'', domanda Giuseppe, afferrando il blackberry e dirigendosi verso il tastino verde.
''No, no, no amore, rispondo io''. In fretta e furia balzo giù dalla sedia per rispondere. ''Fa il bravo'', gli sussurro, tenendolo accanto a me.
''Avvocato!'', esclamo, con troppa esaltazione, come se fosse una telefonata di cortesia o mi facesse piacere essere chiamata a quest'ora della sera. Dall'altro capo della linea, la voce che mi sopraggiunge, violenta come un treno in corsa, è a dir poco agghiacciante. Improvvisamente tutti gli errori della mattinata mi passano davanti come in un orrendo flashback.
''Lisa Marcelli, ha forse dimenticato che l'ora del pranzo è passata da un pezzo e che ancora io e l'avvocatessa Castelli non abbiamo ricevuto il nostro sushi?''. Oh, merda. ''Sì, è che ho avuto un contrattempo e non ho potuto portarlo'', replico, terrorizzata.
''E il mio tavolo? Ha ordinato alle nove all'800, quando invece era alle otto al 900'', è fortemente arrabbiato. E posso capirlo. Sono un'incompetente.
''E il mio completo? Io avevo chiesto un lavaggio a secco con stiratura a mano, e cosa mi arriva? Un abito adatto solo alle bambole. Mi dispiace. Ma lei è licenziata.''
Tu-tu-tu. Ha già riattaccato.
   
 
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