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Autore: _Orlando_    15/10/2016    2 recensioni
"E cosa può desiderare Glorfindel di Imladris da Thorin, figlio di Thrain?" rispose il nano, incontrando lo sguardo chiaro e fermo dell'elfo, limpido e terribile come il mezzogiorno in estate. Gli riportò suo malgrado alla mente altri occhi: azzurri anch'essi, ma del cupo, sinistro splendore di acque che scorrano nel cuore tenebroso dei boschi.
Rapido, scacciò quel pensiero.
"Augurarti gloria nella tua impresa. Non meriti nulla di meno." sorrise l'elfo, e le sue parole erano gentili e nostalgiche, avvolgenti come una musica sussurrata in aule vuote da secoli.
Thorin si era voltato del tutto, la fronte ancora accigliata, le braccia serrate attorno all’ampio torace. Nonostante le parole amichevoli che gli erano state rivolte,  si sentiva irritato da quella inaspettata, suadente dolcezza.  Non era dell’umore giusto per lasciarsi blandire: men che meno da un elfo, una razza di cui aveva dolorosamente compreso - a spese sue e del suo popolo - la natura volubile."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ecthelion, Glorfindel, Thorin Scudodiquercia, Thranduil
Note: Missing Moments, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until the world goes cold'
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Come da regole, ricordo che questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.R.R. Tolkien. Questa storia nasce da una mia particolare ossessione. Quali implicazioni comporterebbe se, come molti appassionati di Tolkien suppongono, seppur senza alcuna conferma canonica, fosse stata Orcrist la spada utilizzata da Ecthelion nei giorni antichi? Di essa si dice che fosse una lama famosa degli elfi di Gondolin, come la sua compagna Glamdring, appartenuta a re Turgon. E dato che uno degli eroi più temuti dagli orchi, al punto che il suo nome divenne un grido di battaglia in grado di terrorizzarli (così come li terrorizzavano le due spade), fu proprio Ecthelion, la possibilità che la spada appartenesse a lui esiste, benché resti, comunque, un'idea arbitraria. Un'illazione che mi affascinava molto, però, per varie ragioni. In primo luogo perché trovavo gustoso pensare a che cosa avrebbe potuto dire Glorfindel vedendo Thorin portare la spada del compagno d'armi perduto, se si fosse trovato nella casa di Elrond nel periodo in cui vennero ospitati i nani della compagnia. Poi per i parallelismi sospesi, per la tragicità della sorte dei portatori. Ecthelion morì gloriosamente uccidendo Gothmog per proteggere Gondolin; sulla tomba di Thorin, morto dopo aver riconquistato la Montagna a Smaug, venne posta Orcrist da Thranduil, perché brillasse nel buio ogni volta che si avvicinassero i nemici, e i nani di Erebor non potessero mai più essere colti di sorpresa. Inoltre, confesso, questa storia mi permetteva di toccare sia le vicende di Thorin e Thranduil, pairing completamente crack ma che amo moltissimo, sia quelle di Ecthelion e Glorfindel, tra cui ho sempre visto di più della semplice amicizia d'armi e di cui non ho mai avuto il coraggio di scrivere perché troppo doloroso.

Naturalmente, la storia mi è sfuggita di mano, e da one-shot è diventata una mini-long. Sarà divisa in due, al massimo in tre parti. Per l'ambientazione principale (Terza Era, durante le vicende raccontate ne Lo Hobbit), ho utilizzato in parte i libri, in parte il Movieverse (a seconda di quale dei due mi tornasse più comodo, confesso). Non sapendo come segnalarlo, ho segnalato "Otherverse" anche se non so quanto sia appropriato. Per ulteriori note esplicative, e i dovuti ringraziamenti a chi sempre mi supporta in questi esperimenti, rimando alla fine del testo.

 

"The sea's evaporating
Though it comes as no surprise

These clouds we're seeing
They're explosions in the sky
It seems it's written
But we can't read between the line

Hush
It's okay
Dry your eye
Soulmate dry your eye
Dry your eye
Soulmate dry your eye
Cause soulmates never die."

 

(Placebo - Sleeping with Ghosts)

 

 

 


 

 

 

 


 

Nella quiete del tramonto di mezza estate, il principe Thorin si aggirava, le ciglia aggrottate, tra gli archi alti della casa di Elrond. E nonostante il canto delle cicale, i raggi caldi del sole e le foglie verdi, aveva l'impressione che, in quell'ora della sera, già si spargesse nell'aria il profumo dolce dell'autunno, e che le foglie si tingessero di una nota ramata, quasi a riflettere l’abbagliante luce d'ottone del cielo montano.


 

Erano scure, invece, le sale di Bosco Atro, le cui porte secoli addietro si spalancavano per accogliere un giovane e fin troppo audace principe khazad, assieme agli ambasciatori del fiorente regno di Erebor. Invano Thorin aveva cercato il re degli elfi per i lunghi corridoi di legno e pietra, sospesi nel vuoto di grandi aule boschive.

Il mio signore non può riceverti, adesso” aveva detto la guardia silvana, serrando le pallide labbra per lo sdegno che quella richiesta gli suscitava. Doveva aver ritenuto quanto mai inopportuno che un nano, benché principe, avesse avuto l’ardire di fermarlo per sollecitare la presenza del re.

Thorin si era rassegnato, quindi, ad attendere il banchetto. Tamburellando nervosamente le dita sui grandi manici della sedia che gli era stata offerta, troppo alta per uno della sua razza, aveva preso posto nella sala delle feste, le cui volte erano rese invisibili dal rampicante fogliame che cresceva sulle colonne delle caverne del sottosuolo, pallida reliquia di una più divina arte e di gloriose aule dimenticate. Una casa di legno e pietra, eppure più minacciosa nella sua manifestazione di potenza sopita che se fosse costruita di marmo e pietre preziose.

Alla fine, lo aveva visto arrivare. Indossava una veste verde, ricamata d’argento, che contrastava con il freddo splendore della pelle candida. Una corona di bacche e foglie rosse gli cingeva il capo, ed i rami si confondevano tra i lunghi capelli dorati. Teneva tra le mani uno scettro di legno di quercia. Accanto a lui, i nani si affrettarono ad alzarsi, srotolando lunghe pergamene, per poi snocciolare le formule del complesso cerimoniale khazad nel ringraziare il sovrano dell’ospitalità offerta, felice auspicio per le trattative che avrebbero dovuto svolgersi nei giorni a venire. Thorin era rimasto seduto in composto silenzio, come si addiceva a chi appartenesse alla stirpe reale, limitandosi  a salutare l’elfico re con un cenno del capo ricciuto.


 

Salendo i bianchi scalini che conducevano alla casa di Elrond, il nano tentava di nascondere a se stesso quella punta di angoscia che lo tormentava, e che andava accrescendosi man mano che la meta si faceva più vicina: come se il sentirla ogni giorno più tangibile rendesse più fisiche anche le sue paure. La Montagna, la casa perduta, idealizzata nei lunghi anni dell’esilio fino a prendere la forma di un sogno di riscatto. O di rivalsa, forse, in una partita in cui il drago non era l’unico, né forse il più importante, avversario. Ben altri erano gli spettri che affollavano la mente del nano.

I pensieri tornavano, suo malgrado, a quel giorno di più di cento anni addietro. Non era stato soltanto per intessere scambi di gemme o di vino che il principe aveva convinto re Thror a inviarlo nel bosco degli elfi insieme al piccolo gruppo di mercanti e nobili del popolo della  Montagna.


 

Era forte in lui il desiderio di poter nuovamente avvicinare re Thranduil, la cui disarmante bellezza lo ossessionava da ormai molte lune.

Era accaduto all’inizio della primavera, quando il sovrano del bosco era giunto a porgere gli omaggi al Re sotto la Montagna, la cui crescente ricchezza era stata coronata dalla scoperta, nelle profonde miniere di Erebor, dell’Archengemma. Benché trattative tra i due popoli non fossero desuete, il re degli elfi, per principio o per picca, non soleva curarsi di ciò che accadesse al di là dei confini del bosco,  e dunque era cosa a dir poco eccezionale che egli si degnasse di uscire dall’ombra dei suoi alberi e giungesse addirittura di persona nel regno dei nani. Il giovane Thorin, curioso per l’avvento della vociferata creatura, che non aveva mai visto e sulla quale racconti di tutti i generi si sprecavano attorno ai focolari della sua gente,  aveva assistito all’ambasceria alla destra del trono dove sedeva suo nonno, sorprendendo così il ghigno di crassa soddisfazione che distorceva il regale volto di Thror, mal celato dai lunghi baffi argentei.

Thranduil era apparso nell’ombra della grande sala, seguito da una piccola scorta di Sindar e Silvani. Al giovane Thorin era parso che un lampo di oro scintillante avesse squarciato le tenebre delle immense volte della Montagna, che pure splendevano di mille riverberi di gemme della luce più pura, cesellate con costante pazienza da mani sapienti nelle profondità della terra. La bellezza di Thranduil aveva colpito il suo fervido anelito di fanciullo, in perpetua ricerca di forme perfette alla forgia: più che a una creatura vivente, l’elfo che aveva davanti assomigliava a una gemma di freddo splendore, un gioiello di mithril e oro pallido, forgiato da una mano più abile di quella dello stesso Mahal. Gli occhi azzurri dell’elfo sembravano riflettere gli abissi più profondi della foresta, il loro sinistro rilucere tradiva la natura ferina dell’eterea figura. Una gemma, quella, su cui le sue dita, benché principesche, non avevano il diritto di chiudersi.

Le trattative tra i sovrani non erano andate nel modo migliore. Thror aveva negato le gemme che avrebbe dovuto offrire, seccato dall’alterigia dell’altro, dal sottile disprezzo che leggeva nello sguardo ceruleo. Non si trattava che di un incidente, per quanto spiacevole, come molti altri nelle storie di elfi e di nani, e non certo il più memorabile o il più sanguinoso. Tuttavia il lampo di volgare cupidigia, il soddisfatto gongolarsi che aveva distorto l’espressione del nobile Thror in un ghigno smanioso, aveva oltremodo preoccupato il giovane nano, come un sinistro presagio di corruzione e di morte.

Ed era quindi anche per lavare via una simile visione, oltre che per il desiderio di rivedere il volto di Thranduil,  che Thorin aveva trovato il coraggio necessario per avanzare una richiesta azzardata. Una volta trascorso il momento della collera, aveva convinto suo nonno  a farsi inviare al Bosco accompagnato da nuovi doni, per recuperare le trattative - utili, necessarie, a suo dire - col popolo elfico, accompagnato dall’ingenuo intento di riparare a un’offesa che, proprio in virtù del suo lignaggio, trovava ingiusta, seppur mossa a un elfo.

 


 

"Salute, principe Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror"


 

Il nano si voltò, bruscamente distolto dai suoi cupi ricordi, dissimulando un sussulto. Pochi scalini dietro di lui, come comparso dal nulla, l'alto elfo dai brillanti capelli dorati, quello che aveva scorto aggirarsi nella casa di Elrond, lo salutava con  un ostentato inchino.


 

“Da molti giorni la tua compagnia di tredici nani, con quel grazioso hobbit ed il saggio Mithrandir, risiede nella casa del mio stesso ospite, eppure io ancora non mi sono presentato. Perdona, ti prego, la mia scortesia. Alcuni un tempo mi conoscevano come Laurefindil di Gondolin, signore della Casa del Fiore d'Oro. Ma millenni sono passati da allora, ed il volto del mondo è troppo mutato per quel nome. Ora al Nord mi chiamano Glorfindel di Imladris."


 

"E cosa può desiderare Glorfindel di Imladris da Thorin, figlio di Thrain?" rispose il nano, incontrando lo sguardo chiaro e fermo dell'elfo, limpido e terribile come il mezzogiorno in estate. Gli riportò  suo malgrado alla mente altri occhi: azzurri anch'essi, ma del cupo, sinistro splendore di acque che scorrano nel cuore tenebroso dei boschi.

Rapido, scacciò quel pensiero.

 

"Augurarti gloria nella tua impresa. Non meriti nulla di meno." sorrise l'elfo, e le sue parole erano gentili e nostalgiche, avvolgenti come una musica sussurrata in aule vuote da secoli.


 

Thorin si era voltato del tutto, la fronte ancora accigliata, le braccia serrate attorno all’ampio torace. Nonostante le parole amichevoli che gli erano state rivolte,  si sentiva irritato da quella inaspettata, suadente dolcezza.  Non era dell’umore giusto per lasciarsi blandire: men che meno da un elfo, una razza di cui aveva dolorosamente compreso - a spese sue e del suo popolo - la natura volubile.


 

Era accaduto dopo il banchetto. Thranduil si era ritirato in silenzio, approfittando della rumorosa gaiezza delle libagioni silvane per muoversi non visto tra gli elfi danzanti, mentre nel grande salone le celebrazioni erano ancora lontane dal loro termine. Thorin aveva perso la speranza di vederlo ricomparire, lasciandosi andare, con la scusa di onorare le usanze del proprio ospite, al piacere del vino con forse troppa solerzia. A un certo punto, una guardia dai capelli intrecciati gli si era avvicinata discretamente.

Il re desidera parlarti in privato”, aveva mormorato al suo orecchio.

In silenzio, aveva seguito la figura leggiadra nel labirintico susseguirsi di corridoi della casa degli elfi. Le luci delle fiaccole gettavano ombre tremolanti sugli archi dai sottili ceselli di rune dorate, sulle alte volte aguzze, cenacoli di antico sapere, ma gli occhi del giovane principe vi si soffermavano appena, i sensi annebbiati da una non troppo lieve ubriachezza.


 

Ti sei fatto attendere” lo aveva apostrofato Thranduil, appena oltrepassata la porta dei suoi appartamenti. Il fumo dell’incenso saturava l'aria di un profumo nostalgico, mischiandosi a quello più delicato del re degli elfi, che ricordò a Thorin  l'odore della rugiada nei primi mattini d'autunno.


 

"Rientra tra le usanze degli elfi invitare i propri ospiti in sale private nel cuore della notte, di nascosto, mentre gli altri festeggiano?" aveva risposto Thorin, sentendosi improvvisamente fuori posto sotto allo sguardo ferino e attento dell’altro, che sembrava poter leggere con facilità i reconditi segreti dell’animo di chi avesse di fronte. O almeno, questa era l’impressione che suscitava al giovane nano.

Per un attimo, temette anche di essere caduto in un qualche tranello con un’ingenuità che avrebbe potuto pagare con la vita. I racconti di viandanti che non facevano ritorno dal Bosco Atro, o che facendolo perdevano il senno, tornarono alla sua coscienza dagli anni dell'infanzia.


 

Un principe di Erebor che mi viene inviato come ambasciatore. L’ultima volta che ci siamo incontrati, re Thror mi era parso piuttosto lontano dal ritenere che gli elfi fossero meritevoli di un simile onore.” gli sussurrò, suadente, Thranduil, avvicinandosi al suo volto.

Sta giocando come una fiera con la sua preda, pensò Thorin, con un misto di ancestrale timore e irrefrenabile desiderio, ma serrò le labbra, alzando il mento e decidendosi ad affrontare lo sguardo dell’elfo. A costo di restare vittima di incantesimi senza nome, avrebbe agito in modo degno del sangue che scorreva nelle sue vene, avrebbe fatto ciò che era giusto.


 

Mi sono offerto io stesso. Sono giovane, ma ritengo che le azioni di mio nonno non abbiano fatto onore ai nostri antenati in quell’occasione, e che non abbia agito negli interessi del regno che, un giorno, sarà mio. Ho insistito per essere inviato con doni per riparare a quell’errore.”

Una scintilla brillò negli occhi di Thranduil e le sue labbra si allungarono in un sorriso in cui Thorin lesse sorpresa, e, forse, ammirazione.

Ecco un principe orgoglioso persino per i canoni nanici. Il regno di Erebor sarà un giorno tuo, dici? Potrei persino augurarmelo, se dimostrerai di esserne degno la metà di quanto appari a parole. Considera le tue scuse, se di queste si tratta, accettate”


 

Il nano strinse i pugni, scacciando i ricordi.

L’elfo lo aveva ingannato, offrendogli la sua amicizia, e lui dopo quella sera si era recato molte altre volte tra le sale boschive. All’inizio soprattutto con pretesti di protocollo, quale portavoce dei khazad in accordi di confini o commerci, la cui gestione veniva lasciata volentieri alla stravaganza giovanile del volenteroso principe da parte dei nobili di Erebor. Essi erano infatti sempre restii a lasciare la Montagna, ancor più se per recarsi nelle aule degli elfi, le cui feste vivaci li lasciavano confusi e a volte persino disgustati.

Poi, però, Thorin aveva iniziato a raggiungere Thranduil anche in segreto, cavalcando da solo attraverso l’oscurità del bosco notturno, quando il contegno di attendere un’impeccabile scusa veniva superato dal troppo forte desiderio di trovarsi in compagnia dell’elfo. Era facile per lui giustificare, anche a se stesso, quegli slanci con il nobile intento di fondare le basi di una duratura pace tra i popoli del Nord, e con quello di servire il regno della Montagna.

E benché fosse certamente sincera la preoccupazione che lo attanagliava nel vedere i pensieri di suo nonno a poco a poco cedere alla brama dell’oro, c’erano indubbiamente altre ragioni a muoverlo, che egli al tempo nascondeva a se stesso, ma che ora era in grado di comprendere sin troppo chiaramente: l’elfo lo aveva corrotto, riempiendogli il cuore di torbidi pensieri che non osava confessare. Certamente tutto faceva parte di un piano meschino per raggirarlo, studiato con arte e malizia.

E la prova era stata il doloroso tradimento, lo sprezzante rifiuto che aveva ricevuto quando era corso col cuore in gola da lui, nel momento del più alto bisogno, nell’ora del drago. Fremette di rabbia, come ogni volta all'emergere di quel ricordo sempre troppo presente. Decisamente, non si sarebbe lasciato di nuovo blandire da quest’altro elfo biondo, per quanto nobile e autorevole nell’aspetto, senz’altro giunto per distoglierlo dalla sua missione, o per chissà quali altri scopi.


 

"Ti ringrazio, elfo, ma vuote sono le tue parole. Non comprendo il motivo di tanto interesse nelle nostre sorti, né dell'incoraggiare un intento da cui, al contrario, il signore di Imladris sembrava più incline a distogliermi"


 

"Elrond è saggio e gentile, ma è giovane ancora ai miei occhi. Trovo che egli sia in torto, e tenevo a dirtelo. La tua casa, al contrario della mia, esiste ancora su questa terra, ed io non posso, dunque, che comprendere il tuo desiderio e invidiare le tue possibilità di riuscita. Vi sono rovine di torri bianche sul fondo del mare, annerite dal fumo, eppure ancora rilucenti come perle, su cui coralli crescono e attinie splendenti dimorano nel silenzio di profondità senza tempo.  A pochi mortali fu concesso di camminare lungo le sue strade intarsiate di marmo. Da tempo il suo nome è stato dimenticato. Non mi sarà mai possibile, in alcun modo, farvi ritorno, per l’eternità che mi attende da vivere."


L'elfo fece una pausa, chiudendo gli occhi, e a Thorin parve che lo splendore del sole si fosse, per un attimo, affievolito "Ma hai ragione, c'è un altro motivo per cui ho a cuore le tue sorti, ed esso è legato alla spada che porti al fianco"

Con un movimento aggraziato, Glorfindel si sedette su uno degli ampi gradini di alabastro.


 

“Ho trovato questa spada io stesso, abbandonata nelle caverne dei troll. Vanteresti forse dei diritti su essa? Il signore di Imladris mi ha detto che è appartenuta alla vostra gente, ma si è ben guardato dal chiederla indietro. Vorresti, tu, comportarti diversamente?”


 

Glorfindel sorrise, ma un’ombra passò sul suo volto, e Thorin, suo malgrado, si sentì scuotere da un brivido freddo.

“Rasserena il tuo spirito, nano. E abbandona la presa sull’elsa. Non è mia intenzione toglierti la spada, ma accertarmi che tu la usi per come merita. In caso contrario, non esiterò a riprendermela, e né tu né Elrond potreste impedirmelo.”


 

“Questa spada appartenne a te, dunque? Perché non ti sei fatto avanti per reclamarla quando Gandalf l’ha mostrata al signore di queste terre, insieme alla sua? Temevi forse l’ira dello stregone?”


 

“Ti sbagli, Thorin. Non appartenne a me, ma a qualcuno che mi fu molto caro. Ti prego, siedimi accanto: quella che vorrei narrarti non è una storia breve”. Glorfindel aggrottò le ciglia, il volto contratto nel tentativo di rievocare un’istante sbiadito, di preservarlo dalla crudele inesorabilità dell’oblio. Thorin si fece avanti, esitante.

“Quanto allo stregone, non ho ragione di temerlo, come non temerei nessun altro in queste terre. Eppure ciò che il figlio di Earendil gli ha concesso non è stato un onore da poco: la spada che gli ha lasciato senza proferire parola alcuna fu quella che brandiva re Turgon, suo avo, quando cadde in battaglia nell’alta torre di Gondolin. Come possa esser giunta, unico cimelio che di lui ci resta, nella caverna di quei troll, resta per me un triste mistero. Per quanto mi riguarda, farò lo stesso, forse. La spada potrà essere tua, ma non prima di essere sicuro che tu abbia compreso il valore di quello che porti”.


 

Thorin, benché diffidente, si accoccolò sullo scalino, a debita distanza dall’elfo. Glorfindel sorrise, osservando, tra gli archi intarsiati di Imladris, gli alti picchi delle Montagne Nebbiose. Alti, aguzzi, abbaglianti di neve.


 

Le montagne, nella nebbia dell’aurora, apparivano come nubi serene.
Un’aquila gridò in lontananza, svanendo nell’ orizzonte d’amaranto, mentre Ecthelion accostava il suo flauto alle labbra sottili. Era una musica di sfere celesti quella che si diffuse nell’aria, e persino i fringuelli, nascosti tra le fronde vicine alle bianche finestre, interruppero il loro canto per udire il suono del flauto del primo nato, sopraffatti dalla troppa emozione. Ma la musica cessò dopo poche note, poiché le orecchie di Ecthelion avevano colto un suono per lui più prezioso di qualsiasi canto:  l’eco dei passi dell’aureo Glorfindel, che rapido correva tra le colonne finemente cesellate della Casa della Fonte, e saliva le bianche scale in cerca di lui. Era soltanto una questione di attimi, e presto la chioma dai capelli dorati sarebbe comparsa tra le volte delle stanze di Ecthelion.


 

Non ti aspettavo” mormorò sorridendo, e Glorfindel pensò che la sua voce assomigliasse all’argentino suono di una fonte montana “Non così presto, almeno. Cosa porta il fiero Glorfindel ad onorarmi con una visita alle prime luci dell’alba?”  agile come un felino, Ecthelion balzò giù dall’ampio davanzale su cui sedeva, avvicinandosi all’altro.

Era leggermente più basso, ma la figura slanciata suscitava piuttosto l’impressione opposta in chi non li osservasse accostati. Avvolto in una tunica argentea, i lunghi capelli scuri gli incorniciavano il volto, facendo apparire il suo incarnato ancora più eburneo.


 

Il solo desiderio di udirti cantare sarebbe sufficiente, ma, come hai indovinato, non si tratta di questo, oggi.”  sospirò il signore del Fiore D’Oro, abbassando gli occhi. Nel gesto, una lunga ciocca di riccioli chiari, ancor più rilucenti nella rossa luce dell’alba, gli caddero  sul volto dai lineamenti decisi. Ecthelion la scostò dolcemente, e lo costrinse ad alzare lo sguardo, sollevandogli il mento col pollice, per scrutare attentamente gli occhi cerulei.
Nel tuo volto è impressa la mia stessa preoccupazione. Ma ti  prego, non lasciare che la paura entri nel tuo cuore, indebolendolo. E’ questo ciò che il Nemico desidera”

Glorfindel cinse la vita sottile dell’altro tra le braccia ben tornite, guardando davanti a sé. Rimase in silenzio, prima di accostare le labbra all’orecchio di Ecthelion e sussurrare piano, come temendo di essere udito da orecchie invisibili: “A volte, sogno le tue belle ciglia coperte di sangue, la tua armatura d’argento ridotta in frantumi. E tu stringi tra le mani un flauto spezzato, mentre il sangue esce copioso dalla tua bocca. Invochi il mio nome, ed io ti sollevo tra le mie braccia, ma tu sei già morto e i tuoi occhi sono vuoti. Quando accade, non posso che correre qui, per sincerarmi che fosse solo una crudele visione, e non la realtà.”


Glorfindel abbassò lo sguardo, per incontrare quello di Ecthelion e prendergli il volto tra le mani. Lo baciò delicatamente sulle labbra sottili, che però rimasero serrate. Gli occhi grigi dell’elfo lo osservavano severi, in attesa che l’altro proseguisse il discorso. Sapeva bene che non era tutto, che c’era qualcos’altro che turbava il chiaro compagno.

So che non dovrei, ma in quegli istanti, prometto a me stesso che se anche dovessi lasciar bruciare le sette cerchie di Gondolin, lasciare che i Balrog prendano i suoi sette cancelli, e gozzoviglino tra le membra dei nostri fratelli, abbandonerei ognuno di loro e la città stessa. Verrei a salvarti. Ti porterei lontano dal fuoco di Belegurth, dovessi percorrere anche tutte le strade di questa terra per i millenni a venire. Perché non c’è niente, per me, in Arda, che sia più prezioso di Ecthelion, Signore della Fonte”

Ecthelion appoggiò le mani sul petto dell’altro, spingendolo indietro. Non abbastanza, però, per liberarsi dalla presa delle salde braccia dell’elfo. “Sono gravi le parole che pronunci, Glorfindel. E anche se dettate dall’affetto, mi appaiono foriere di disgrazia. Vorrei che tu non le avessi pronunciate, e che il tuo cuore mutasse consiglio. Rivedo, in esse, l’arroganza che ha condotto alla rovina la nostra stirpe. Quando sarà il momento, sappiamo entrambi quale sarà il nostro posto. Il nostro sangue sarà ben sparso, se permetterà che la bianca torre resti salda più a lungo di anche un’ora soltanto”


 

Se questo è il tuo desiderio, promettimi almeno che potrò morire al tuo fianco. Che combatteremo insieme, fino all’ultimo respiro che ci resta su questa terra corrotta”


 

Il mio desiderio è quello di proteggere chi mi è più caro.” Mormorò Ecthelion, la voce distante, per riscuotersi subito dopo. Sorrideva, adesso, accarezzando le guance dell’altro “Ma basta adesso, con questi tristi pensieri. Sereno è il cielo su Gondolin, oggi, e verrà celebrata la grande festa d’estate: le tue preoccupazioni, invero, impallidiscono alla luce del sole. Desidero godere di ogni istante che ci è concesso insieme su questa terra, corrotta o no, perché anche l’eternità trascorsa al tuo fianco non mi sarebbe bastante.”
Lentamente, l’argenteo guerriero accostò le labbra a quelle di Glorfindel. Sentì la stretta attorno ai suoi fianchi farsi più salda, la bocca dell’altro che rispondeva, avida, al suo bacio.


 

Mi scuso per l’interruzione” Tuor, in piedi sulla soglia della grande aula dalle pareti affrescate, abbassò la testa, piegandola sulle larghe spalle. Non voleva incrociare lo sguardo del signore della Casa della Fonte. Era consapevole del tipo di relazione che legava i due guerrieri, ma  trovarlo tra le braccia del Signore del Fiore d’Oro, abbandonato con grazia femminea, gli aveva suscitato comunque un imbarazzo che temeva che i suoi occhi potessero tradire. Ancor più, forse,  temeva di scorgere nello sguardo dell’elfo il biasimo per la sua mancanza di cautela. Ecthelion gli aveva raccomandato la massima riservatezza. Nessuno sapeva che l’adan si recava, da ormai molte lune, ogni giorno tra quelle sale, alle prime luci dell’alba. Eppure, l’abitudine lo aveva portato ad abbassare la guardia, e a raggiungere le stanze del suo maestro d’armi senza prestare orecchio ai rumori, né preoccuparsi che potessero essere, come sempre, soli.


 

Glorfindel aggrottò la fronte, e le bionde sopracciglia proiettarono un’ombra sullo sguardo chiaro. “Perché lo sposo di Idril è qui?”

Ecthelion sospirò profondamente, serrando le palpebre. “Tuor, alza la testa, non hai niente di cui scusarti” la sua voce era rassicurante, modulata nel modo di chi  si rivolga a un infante.

Gli ho chiesto io di venire” continuò l’elfo, rivolgendosi al compagno “ho bisogno di un avversario, per affinare la mia arte, e similmente l’uomo necessita che il suo corpo sia sempre in esercizio e il suo braccio avvezzo a sostenere l’acciaio se vorrà essere pronto. Rapida a intorpidirsi è la carne dei mortali.”

Sul volto di Glorfindel si allungò un sorriso di scherno. Ecthelion lesse, nei suoi occhi, balenare il dubbio. “Da quanto tempo ti alleni col nobile Tuor a mia insaputa, se posso chiedere?”

Da quando egli ha attraversato le sette cerchie di mura, Glorfindel.”

L’altro allontanò la mano dal suo fianco, e mosse alcuni passi indietro. “E’ interessante notare come io sia sempre l’ultimo a conoscere il modo in cui spendi il tempo, e ancor più le tue preoccupazioni. Perché allenarsi con uno sconosciuto, con un adan, per quanto abile e fiero? Avresti potuto esercitarti con me, come abbiamo fatto nei secoli condivisi della nostra giovinezza, nell'Ovest lontano o tra le verdi fronde della Valle Segreta. Sei stato tu a confessarmi di non voler più trascorrere le tue mattine all’armeria. Avevo pensato che avessi finalmente trovato un po’ di quiete, nella calma dei Monti Cerchianti. Immaginavo che volessi dedicarti unicamente alla musica, come un tempo facevi al di là del mare. Ma il problema era forse che non mi ritenevi più un avversario al tuo livello”

Ecthelion sorrise, allungando una mano per accarezzare i riccioli chiari dell’elfo.

Ti inganni, e lo sai. Nessuno è più abile di te con la spada, ma preferisco che i nostri incontri non siano più rabbuiati dall’eco della battaglia. Con te è la gioia del tempo che ci resta che voglio condividere, Glorfindel, che si tratti di millenni oppure soltanto di ore. Quali note uscirebbero dal mio flauto se permettessi alla paura e alla disperazione di attanagliare il mio cuore? Credimi, più del suono della tua spada è assai più infausto per il nemico quello scrosciante della tua risata, che più di ogni altra cosa rallegra il mio cuore, e che proteggerò ad ogni costo.” Il pallido elfo fece una pausa, abbassando lo sguardo. “Non mi farò trovare impreparato e impotente, come lo fui tra i ghiacci di Helchalrach.”


 

C’ero io a proteggerti, durante la traversata.” Glorfindel si voltò, stringendo i pugni. “Ma forse non ritieni che la mia protezione sia sufficiente, adesso. Né per te, né, evidentemente, per me stesso.”


 

Eri solo un fanciullo a quel tempo, come me del resto. E ricordo di come rischiasti sconsideratamente la vita per recuperare il mio flauto, caduto tra le rocce aguzze di un precipizio. In quel giorno ho compreso che la spada mi sarebbe stata compagna quanto la musica, perché mai più avrei voluto esserti di peso.”


 

E così ti sei allenato a lungo, ma il tuo obiettivo anziché quello di servire il tuo popolo era piuttosto di diventare più abile di me. E da me hai voluto apprendere, sino a che non ti sono diventato inutile. No, non dire niente. Conosco la considerazione in cui ti tiene sire Turgon, e il rispetto con cui ti guardano i soldati. E conosco anche la tua ambizione. Il tuo canto è il più sublime tra gli Eledhrim, a lungo hai affinato la tua arte, e lo stesso vale per la spada. Non esiste disciplina a cui ti dedichi in cui non desideri eccellere, mio amato Ecthelion, ed è uno dei motivi per cui il mio cuore si riempie di meraviglia al solo vederti. Ora però dici che vuoi tenermi lontano dalle armi per proteggermi, ed io mi chiedo se tu invece non mi consideri, ormai, non abbastanza abile da combattere al tuo fianco. Sono forse io, adesso, il peso?” Il tono della voce di Glorfindel si fece aspro mentre indicava l’uomo, che, ancora sulla soglia, non aveva osato muovere un passo, confuso e mortificato. “Al punto da sostituirmi in segreto al nobile Tuor, come compagno d’armi?”


 

Cerca in fondo al tuo cuore, Glorfindel, e non far parlare il tuo orgoglio. Conosci bene i sentimenti che nutro per te. Saresti cieco a ritenere che una mera ambizione possa superarli in valore”


 

Dovresti già immaginare, allora, che il tuo desiderio di proteggermi ha alle mie orecchie il sapore del disprezzo, e che mi ferisce profondamente” Glorfindel si fece indietro, ricomponendosi in un saluto formale, lo sguardo rivolto ai suoi piedi.

Ma ti dimostrerò che ti inganni. Adesso, se vuoi scusarmi” Facendosi indietro, guadagnò la porta a grandi passi, senza degnare di uno sguardo l’adan che, tra le bianche colonne, aveva assistito, attonito, al diverbio di cui era stato l’involontaria causa.


 

Sono profondamente dispiaciuto, nobile Ecthelion” mormorò goffamente Tuor, dopo che l’eco dei passi di Glorfindel si fu disperso per le vaste sale. “Io so  bene che il tuo desiderio è quello di proteggere la quiete dei Monti Cerchianti, e che quasi vorresti essere il solo ad occuparti della difesa, risparmiando agli altri cupi pensieri, e che per questo ci allieti ogni giorno con la tua musica. La mia sposa, benché anch’essa nel suo cuore tema il Nemico, non vorrebbe sapere che ogni giorno impugno le armi, e che lo scorrere dei miei giorni è oscurato da pensieri d’acciaio. Desidera, piuttosto, che mi prepari alla fuga, portando con me quanti più Gondolithrim potrò, ma io riterrei disonorevole abbandonare questa mura, che mi hanno accolto, adan, tra le sue cerchia, senza combattere. Ed è proprio il desiderio di saperla al sicuro, di coprirle le spalle mentre con la sua gente corre verso la salvezza, a muovermi. E so anche che benché tutto questo sia inutile, da tempo la città si sta preparando alla lotta, come una preda pronta al balzo, e che non siamo più gli unici a vigilare in silenzio, memori delle parole di Ulmo. Mi addolora che il Signore del Fiore d’Oro dubiti sulla sincerità delle tue intenzioni”.


 

Come ti ho già detto, non hai niente di cui dispiacerti.”  Rispose questi con tono indecifrabile, gli occhi abbassati sul flauto intarsiato che rigirava tra le mani. “Affinare le tecniche di spada, questa è l’unica preoccupazione che dobbiamo avere questa mattina.”

E Tuor non ebbe il tempo di alzare la testa, che già la lama di Ecthelion era puntata sul  suo collo “In guardia!”

“Vedi, principe Thorin, come anche a chi abbia vissuto per secoli fino a perderne il conto, l’orgoglio e il timore impediscano di comprendere il cuore di chi ha più vicino. E persino i compagni di vita, le anime affini divengono oggetto di diffidenza. Forse anzi è proprio nei confronti di chi a noi è più caro, che l’animo è indotto più facilmente in errore, e l’intelletto deviato per strade contorte. Sospettai di essere stato messo da parte da Ecthelion, amante e fratello, a cui ero legato da promesse inscindibili.”

Glorfindel socchiuse gli occhi, e a Thorin parve che le palpebre fossero scosse da un tremito convulso, prima che il volto dell’elfo riassumesse l’ultraterrena compostezza. “Non me ne rammaricherò mai abbastanza, eppure, ancora, sono mosso dagli effetti di quella ferita all’orgoglio:  mi chiedo infatti se non sia stato anche per provare a me stesso il mio valore che ho accettato di tornare su questa Terra di Mezzo.”


 

“Mi racconti di tempi funesti e remoti, onorandomi di confidenze che però non comprendo cosa abbiano a che fare con me e con la mia spada. Vuoi forse regalarla al tuo amato, per riparare ai tuoi errori? E’ forse l’ambito premio per chi di voi due si dimostrò infine il guerriero più abile? Curiosa, invero, è l’amicizia degli elfi. E’ anche lui qui con te nella casa di Elrond, oppure ti aspetta ai porti grigi?”


 

“Lo comprenderai presto, principe orgoglioso, poiché il racconto non è ancora finito. Sappi, per prima cosa, che la tua spada era la stessa che brandiva Ecthelion, il Signore della Fonte, nei giorni antichi in cui il mondo era giovane. Sì, non stupirti a quel modo. Eppure Elrond ti ha rivelato il suo nome: Orcrist, la Fendi-Orchi, terrore di tutte le creature di Morgoth, resa famosa dalle gesta che mi accingo a narrarti. Perché a quel mattino nefando, in cui, punto nell’orgoglio, il timore dell’inganno si fece strada nel mio cuore, fece seguito una notte ancora più cupa, e compresi che mi sbagliavo nel modo più doloroso”.


Note dell'autore: Per prima cosa, vorrei fare una (breve?) considerazione linguistica: per i flashback ambientati a Gondolin ho scelto comunque di lasciare nomi e terminologia in Sindarin, sia per questioni di uniformità del testo, e perché si tratta, comunque, di una storia narrata nella storia, sia per riflettere una mia particolare, benché assolutamente discutibile concezione. Nei Racconti Incompiuti viene detto che a Gondolin la maggior parte della popolazione parlasse Sindarin, benché in quello stesso testo e in "The Shibboleth of Feanor" si dica che Turgon avesse ristabilito il Quenya come lingua parlata all'interno della sua famiglia. Se la cittadinanza parlava Sindarin e la casa reale Quenya, resta dubbio, e lasciato all'interpretazione individuale, quindi, quale delle due lingue usassero più spesso i signori delle altre case di Gondolin, che dovrebbero collocarsi in una situazione di mezzo tra i "comuni" cittadini e la casa reale. In questo contesto, io immagino che ognuno seguisse la propria preferenza personale e in particolare mi piace l'idea che tra loro Glorfindel ed Ecthelion parlassero Sindarin, perché trovo che in ciò si rifletta un desiderio di lasciarsi alle spalle un passato che li ha segnati per sempre, in una commistione tra l'ammissione di una colpa non commessa ma che si sentono pesare sulle spalle (seppure indebitamente: di Glorfindel in "The Peoples of Middle-Earth" si dice che avesse lasciato Valinor contro il suo desiderio, solo per lealtà verso Turgon, alla cui schiera apparteneva e che non avesse preso parte al massacro di Alqualonde), e l'autoillusione di poter realmente ricominciare una nuova vita sulla Terra di Mezzo. Naturalmente, si tratta della mia particolare e soggettiva interpretazione.

La scelta di far sospettare a Glorfindel di essere considerato più debole da parte di Ecthelion è motivata dal fatto, che mi colpì anni fa, alla prima lettura, che durante l'assedio di Gondolin Glorfindel ed Ecthelion (probabilmente per una mera questione di divisione logistica dei vari reggimenti) non combattano insieme, e che sia Tuor a trovare e trarre in salvo (momentaneamente) Ecthelion ferito nel corso della battaglia; Glorfindel sopraggiungerà solo in un secondo momento. Di Tuor si dice, inoltre, che fosse legato da affetto al Signore della Fonte. E così ho pensato che Ecthelion avrebbe potuto iniziare ad allenarsi con Tuor, con l'idea di preservare Glorfindel, per quanto possibile, dal pensiero di Morgoth ed anche da eventuali missioni suicide che si fossero ritenute necessarie per salvare la città. Naturalmente, e spero si capisca dal racconto, l'avvicinamento tra l'elfo e l'adan non è inteso in alcun modo in senso romantico. Tuor è indissolubilmente legato ad Idril. Glorfindel stesso non sospetta di essere stato tradito in quel senso, ma, cosa per lui forse ancora peggiore, di essere considerato un indegno compagno d'armi.

Il titolo è tratto da "The Nightingale" di Deborah Henson-Conant.

Ringrazio Miele e Cianuro (con cui abbiamo molto discusso sulle figure di Ecthelion e Glorfindel dallo scorso inverno, ed è forse il motivo per cui la mia versione è influenzata dalla sua, benché poi prenda una strada decisamente diversa) e Rosebud, che come sempre sopportano le mie elucubrazioni e rileggono pazientemente i miei testi. E ringrazio anche Aliseia, i cui Thorin e Thranduil sono sempre nel mio cuore, insieme ai suoi meravigliosi elfi originali.

Con affetto,

 

Orlando

  
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