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Autore: sofismi    16/10/2016    1 recensioni
Sono un'artista, dipingo. Sono sola, sono arrabbiata, o almeno lo ero. Nel momento in cui ne avevo più bisogno è arrivata una persona e ha scombinato l'intero ecosistema, è un male o un bene? Non lo so, so che non dovevano andare così le cose, non a me. Non a me che sono così grigia, e rossa. Lo so che rischiavo di diventare nera, ma ne vale davvero la pena? È giusto soffrire così, adesso? Vorrei arrendermi al nero, perchè allora non ce la faccio? È come se fossi sott'acqua, ma non riesco a capire se sto risalendo in superficie, o se sto inesorabilmente scendendo verso il fondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo primo
Quanto finalmente mi decisi e bevvi il caffè dimenticato sulla scrivania faceva schifo, era freddo. E così anche l’unico piccolo piacere della giornata venne sprecato, buttato via, come se quell’unico caffè fosse stato la predizione del giorno che doveva ancora iniziare. In effetti è una storia strana: quella mattina, uscendo di casa nascosta dentro il cappuccio, sotto l’ombrello, mi guardavo i piedi. Nulla di strano, o di insolito, finora. Salii sul treno, affollato come al solito, e rimasi schiacciata tra un signore e un ragazzo. Neanche in quel momento, in punta di piedi per cercare di respirare un po’ di aria pulita - e non quella stantia e pesante tra le braccia del vecchietto, - nemmeno lì mi accorsi della piega che avrebbe potuto prendere il corso degli eventi. Eppure alla prima fermata il treno inchiodò e gli caddi addosso. Non mi resi conto subito della figura orrenda che avevo appena fatto, mi alzai e spostandomi i ricci spettinati dal viso mi scusai con il ragazzo. Ovviamente lui, da perfetto gentiluomo, mi disse sgarbatamente di stare attenta, così nervosa e infastidita scesi dal treno nonostante non fosse la mia fermata. La gente non dovrebbe essere così sgarbata di prima mattina, pensai mentre aspettavo il treno dopo. Sotto la pioggia, arrabbiata, risi in faccia al karma, che aveva deciso di mettere alla prova i miei nervi. Risi per modo di dire, dato che avrei tanto voluto prendere quello sbruffone e lanciarlo direttamente sotto un treno; fortunatamente mi conosco abbastanza bene da sapere che se inizio ad innervosirmi mi conviene allontanarmi. L’unico lato positivo di quel piccolo “incidente” fu che riconobbi di essere migliorata molto nel gestire la rabbia, e mi sentii orgogliosa.
In ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia arrivai al mio studio bagnata fradicia e con un umore nero da far spavento. E come se non bastasse: le chiavi, dov’erano le chiavi? Svuotai la borsa, le tasche, mi cadde il telefono nella pozzanghera formatasi sotto al primo gradino. Grandioso.
- Sembra proprio che non sia la tua giornata, eh? -
Il ragazzo del treno. Davvero grandioso. E poi? Cosa sarebbe successo dopo? Lo guardai sconcertata.
- Ti sono cadute queste mentre scendevi dal treno, non ho fatto in tempo a dartele prima. È davvero intelligente scrivere l’indirizzo sul portachiavi, è una cosa che ti succede spesso?-
- Come scusa? - ero davvero senza parole.
- Perdere le chiavi, intendo. Ti capita spesso? – sorrideva.
Infame, prima mi tratti malissimo e poi ridi delle mie sfortune? Inconcepibile, inconcepibilmente stronzo.
- No.- Mi guardava.
- Dammele, dai. Grazie. -
Sapevo di comportarmi da ingrata, ma mi aveva costretta lui: aveva iniziato lui sul treno ad essere scortese.
Presi le chiavi e aprii.
- Quindi? – gli domandai prima di entrare. Lui esitò un momento.
- Senti, siamo partiti con il piede sbagliato, ma non è che potrei entrare ad asciugarmi? Ne ho davvero bisogno. -
Lo guardai meglio: niente ombrello, era completamente fradicio. In più sembrava sincero. Sospirai, e non senza riluttanza lo lasciai entrare.
Quello era il mio posto sacro, mi sembrava di infangarne il nome. Eppure dentro di me sapevo che era giusto così, magari me ne sarei pentita più avanti, ma lì, in quel preciso momento, era giusto. Gli diedi uno dei lenzuoli che usavo per coprire i quadri in magazzino, i suoi vestiti intanto erano sul calorifero ad asciugare. Per dimostrare che ero più matura, preparai il caffè anche per lui, e ci sedemmo: lui sul divano beige io sul mio amato sgabello.
- Quindi è questo che fai per vivere? – mi chiese, sinceramene curioso.
- Sì, cioè: ci provo. Capita a volte di non potersi permettere di fare la spesa, o per comprare il biglietto del treno. Ma non m’importa, per ora so di poter sopravvivere così, tra un po’ sono sicura che avrò la mia grande occasione, il mio miracolo.
- Sei un’irresponsabile. – mi disse serio. Non mi sarei mai aspettata una reazione del genere, non era mio padre, non aveva il diritto di parlarmi così dopo avergli acconsentito di entrare e asciugarsi, dopo essere stata così gentile e disponibile.
- Non sono affari tuoi, non deve importarti nulla di come vivo. Non mi conosci nemmeno. – risposi stando sulla difensiva. Non volevo arrabbiarmi, non potevo.
- Però sai, mi piacerebbe. – non ebbi il coraggio di rispondere, ma chi si credeva di essere?
- Conoscerti, intendo. Mi hai incuriosita stamattina, ma dopo aver visto i tuoi lavori sono davvero affascinato. – questa confessione mi mise a disagio, ma mi fece piacere.
- Che cosa vedi?- mi alzai, accarezzai i dipinti appesi, non ancora incorniciati, accarezzai i murales, le fotografie, le punte dei pennelli. Accarezzai tutta la me stessa che era stata trascritta su quelle pareti.
- Rabbia, amore. Più rabbia che amore. E freddo. -
Era una domanda che non facevo mai, non andava fatta, perché non appena una persona riesce a dare il giusto significato a ciò che vede mi sento vulnerabile, nuda, e le lacrime cominciano a pizzicare agli angoli degli occhi. Cercai in tutti i modi di camuffare gli occhi lucidi, e il rossore, perché lo so che arrossisco sempre quando le emozioni turbinano così selvaggiamente dentro di me. Mi misi il maglione, mentre lo facevo passare in testa lo usai per asciugare gli occhi, e giusto perché sono una vera signora mi ci pulii anche il naso. Non trovando il coraggi di guardarlo negli occhi e ammettere che aveva ragione ricorsi alla solita soluzione:
- Vattene. -
  
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