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Autore: sarasuskind    20/10/2016    0 recensioni
candida ha 16 anni e un quaderno bianco
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Candida ha 16 anni. Questa mattina la sua playlist è composta da brani di Miles Davis e Chuck Berry. Cambia con facilità genere musicale. Da mesi le siedo accanto, e la sua musica trabocca dalle piccole cuffiette nere, le quali ultimamente le danno fastidio, dato che si è forata di nuovo il lobo destro. Come i bambini assorbiti dalla melodia, batte il tempo, muove i piedi; e a volte quando nelle canzoni si imbatte in un pezzo suonato a pianoforte, finge di pigiare con le dita i tasti. È completamente sciolta in quelle note: probabilmente il suo corpo è così abituato a fondersi con quella musica ad alto volume, che obbliga il cuore a battere a tempo, e il sangue a circolare in ottavi, e a seguire le regole del blues . Ma notai Candida una delle prime mattine di settembre:  come presa da un raptus , come se avesse intinto le dita in acqua percorsa da elettricità, sobbalzò, fermò la musica, tirò fuori  un quaderno dalla copertina bianca, colmo di parole disordinate e sbavate e iniziò a scrivere.
così iniziò la mia lunga osservazione di Candida Roryen, un’attenta e dettagliata osservazione di finte suonate al pianoforte, di disturbi ossessivi, e parole scomposte. Una penna a sfera nera, un quaderno, senza righe o quadretti, semplicemente bianco, e pieno fino all’orlo di parole. Di tanto in tanto, girava il foglio di una pagina già riempita, e scriveva tra gli spazi lasciati tra le frasi.  Scriveva, scriveva, scriveva, cambiava parole, cancellava, poi riscriveva.  I suoi scritti erano così pieni e traboccanti di rimorso, di tristezza, di timidezza, di sensualità. Scriveva con tono sarcastico e presuntuoso. Creava mondi.  E sempre lei li distruggeva. Manteneva gli occhi fissi sul foglio, fino alla fermata della linea 47 dove doveva scendere, e dove ogni mattina Jeff Muggle la salutava. Talvolta si accorgeva che la stavo fissando, e scriveva più velocemente, sporgendo il foglio verso di me, in modo da lasciarmi leggere, ma dopo poco, chiudeva i suoi modi nel quaderno, e rimanevo interdetto. Quella timidezza che esplicava e per la quale piangeva tra le pagine, era solo egocentrismo nascosto. Candida era narcisista: amava se stessa più di ogni altra cosa, stimava i suoi scritti come le migliori idee che uno scrittore potesse avere, quel tono presuntuoso, altezzoso. Ma se devo essere onesto, era autorizzata a farlo.
Una mattina lessi davvero per intero un suo scritto, lei me lo lasciò fare.  E quello che lessi era eccezionalmente puro. Vero.
Alcune emozioni devono essere raccontate; ma comprendo e condivido la paura del poeta e di colui che prova l'emozione nel raccontare ciò che sente. Mai più la sensazione percepita tornerà; è inevitabile. Ed è per questo che si nota l'impossibilità umana nel descrivere concetti astratti ormai passati. Ma al contrario, se il poeta dovesse ritrovarsi in quello stato d'animo ancora una volta, deve tentare di scriverne. Ma deve anche sapere che non potrà mai lontanamente avvicinarsi alla sensazione reale. Perciò il poeta vedrà davanti a sè un limite, un confine non superabile a parole. Tutti i poeti sono formati da creatività, passione e infinita tristezza, perchè a differenza delle persone normali, vedono quel limite nel trasmettere il flusso di universi che esiste nelle loro menti. Il poeta non è più sensibile di altri, ma al contrario se fosse per lui parlerebbe del mondo in una maniera volgare, sporca e cruda. In una maniera nervosa, come se il poeta fosse sempre in balia di un tic; in un modo arrogante, presuntuoso. Ma vuole ammaliarci con dolci parole, metafore argute e descrizioni così vivide. appassionanti lodi che scorrono tra i versi, sinuose presentazioni e illuminanti retroscena. Lui ci inganna. Il poeta è davvero coraggioso, lui conosce bene il suo muro-limite: parecchie volte a tentato di scavalcarlo, senza mai riuscirci. Ed è per questo, che la sua unica fonte di soddisfazione è diventata ingannare noi, noi che non possiamo percepire quel maledetto limite.Io in questo momento ho una paura folle di scrivere. Alcuni la definiscono la tortura peggiore per l'uomo. Scrivere consuma le dita, spreme la mente, aumenta il flusso di sangue al cuore, inganna gli occhi, mortifica e fa innamorare l'anima.
La penna fa l'amore con il foglio.
L'inchiostro penetra la carta.
Creano vita.
Nessuno conosce ancora quella vita, apparte il poeta. Egli da un lato, vuole condividere tutto, ma davvero tutto. Ma se poi agli altri non potesse piacere? Se non potessero capire le sue parole? Egli ne morirebbe. Peggio ancora se ne rimanessero indifferenti. Ciò lo condurebbe a una vita di catene. Catene che solo lui potrà un giorno togliersi.Ma ciò che più lo spaventa è il racconto di un sogno, andare a scavare nel proprio subconscio, che lo lascia senza fiato, parole e inchiostro. Si ritrova a ripercorrere le notti senza tempo, nere e mutevoli. Molte volte ricorda sprazzi di altre realtà, nella quale è stato solo ospite nelle ore precedenti. E precisamente per quegli sprazzi, il poeta diviene ciò che è. Proprio in quelle ore, l'anima compie la sua trasmigrazione fuori dal corpo, si siede cauta e osserva cosa il corpo compie senza di lei. E quello che vede è agghiacciante. L'anima del poeta, che è essa stessa il poeta, si disgusta. il poeta è bestialmente furioso conse stesso. Si vede ammaliare le puttane, bere quel vino che da sveglio disprezza. Si osserva giocare i soldi che nel giorno, da intendere come periodo di lucidità, ha guadagnato scrivendo. Il poeta ha due anime perciò: nel giorno sente, percepisce le emozioni, ne scrive, audace e coraggioso, accarezza le guance della moglie e annusa i capelli profumati del proprio figlio, vivendo una vita invidiabile. Ma nella notte la sua bestiale crudeltà, della volgarità che risparmia alla penna e al foglio, esce sotto forma di scellerattezze e crimini indicibili. E violenta le donne. Affoga la sua gola nell'alcol. Impreca. E probabilmente solo in quei momenti supera quel limite. Lo supera, e se ne pente.
ll sogno finisce, il poeta piange.
E' forse questa la dura vita di chi scrive: non si denuda davanti agli altri, bensì davanti a se stesso. E si fa paura. Perchè nulla fa più paura di vedere se stessi per quello che si è realmente: umani. “
In quell’istante capì di cosa era capace lei. Quelle mani avevano fatto l’amore, e ciò che ne era uscito era stupefacente. Aveva descritto la sua ossessione, e lo aveva fatto tremendamente bene. Ricordo in quel momento di averla guardata negli occhi: mai avevo osservato il suo viso, mi ero sempre limitato alle sue mani nervose, e bianche che correvano per le pagine in cerca della combinazione perfetta di parole. Non avevo mai considerato lei come una donna.  Aveva dei lunghi capelli biondi , non curati e in disordine, le cadevano sulle spalle, color del grano sotto il sole di agosto. I ciuffi creavano un contrasto con le sopracciglia nere. E poi la guardai negli occhi: di ghiaccio, liquidi e profondi, di un azzurro perlato. La fronte sempre aggrottata, ma nemmeno questo le toglieva dolcezza. Un viso buono, un viso con il quale avrei parlato tutta la notte. Un viso dalle gote all’in su. Avrei bevuto vino rosso con quel viso, ma senza ubriacarmi. Avrei sposato quel viso, ma mai avrei toccato il suo corpo. Lei era purezza. Lei era il contrario dei suoi scritti: questi urlavano la profondità della sua anima così in pena, così devastata dal mondo e dalla sua stessa indole, a me appariva bambina. Quello che provai per Candida non è esprimibile a parole, è come il muro descritto da lei, non superabile con descrizioni e racconti di passione. Lei è stata per me catarsi.
Solitamente la fame arriva nella tarda sera, quando le famiglie spengono il televisore, i padri accompagnano i figli a letto e li fanno addormentare, e la città cala nel buio, interrotto da qualche lampione giù per la via. A quell’ora della sera mi assale una fame, una fitta allo stomaco come fosse vuoto e dovesse per forza essere riempito. E capisco che è il momento di accendere la vera luce, sedermi, ascoltarmi, ed è difficile ascoltarmi perché nella mia mente c’è molto rumore. E le mani prendono vita e da sole, senza guida, tracciano parole, frasi, descrizioni, storie. È una fame incredibile. È come avere voglia di liberarsi da qualcosa che ti stringe nel petto, come aver voglia di un bacio o di un po’ di aria fresca. Come avere fame di respirare nel proprio mondo. Uscire da questo, e vivere nel proprio, nella propria mente. È come avere voglia di fare sesso tutta la notte, e toccare lei ovunque, scoprirla, superare i limiti.  Abbattere quei muri che nella giornata sei costretto ad aggirare, a guardare da lontano ma mai a superare. E nella notte le mani ti faranno male, perché ora sono autonome, ora conoscono storie che tu non hai ancora immaginato: sanno di sangue, di fumo e di vino rosso, sanno di quell’odore che hai sentito solo addosso a un poeta maledetto. Quella fame inebriante si chiama ispirazione, non posso fare a meno di ascoltarla e indubbiamente metterla a tacere. Mentre scrivo non capisco ciò che sto scrivendo, troppo complesso, le mie mani sono ottime autrici di drammi, amori insensibili e puttanate. Le leggerò una volta finito. Magari con qualche grado in corpo, giusto per non disgustare la mia mente per le cose oscene che avrò scritto. Ma saprò che la fame è saziata, e sto bene, mi godo il momento. Ma probabilmente tra due sere o tra un mese la fame sarà insostenibile, dovrò saziarla più a lungo. Perché questo tipo di fame richiede di volta in volta sempre più nutrimento. E scriverò così tanto da farmi male e tracciare parole che non conosco. Le dita non vanno più a ritmo, sono sconnesse. Parole meravigliose. Sentimenti agghiaccianti e crudeli nascono in me. Come ho detto nella mia mente c’è troppo rumore. “
Passarono i mesi e quella purezza, quell’aura innocente, si perse nel vento. E iniziai a vedere in lei i segni di donna: il profumo di donna, dal sottofondo di cannella e muschio nero. Percepì una voce meno acuta, sempre più grave. Vidi per la prima volta le sue curve: i fianchi succinti da pantaloni stretti, il seno messo in mostra da magliette attillate. Gli occhi si erano fatti più piccoli, per via del mascara messo in malo modo. Cercava di crescere.  Quello che erano i suoi scritti, così carnali e vividi, tristi e malinconici, si erano attaccati alla sua pelle, e avevano corrotto la sua anima. Lei era diventata quel poeta ostinato e crudele.
Candida che fino a quel momento aveva vissuto grazie alla passione che usava per scrivere e che traeva da esso, si era bloccata, come se la passione non raggiungesse più il solito ritmo. Apriva il quaderno, guardava le pagine, le pagine bianche e candide. Come se da un giorno all’altro tutte le sue idee, il suo mondo, quel tutto le fosse stato negato da qualcosa di talmente superiore da non poter essere capito. Restava in silenzio. Abbandonò il blues, si affidò al rock. E nel rock trovò ciò che cercava: non un’ispirazione, ma una soluzione, e seguendo l’esempio dei grandi chitarristi, aveva provato a superare il suo muro limite. E bastò una piccola pillola di ecstasy, e un bicchiere d’acqua a farle vedere il paese delle meraviglie. Quel viaggio su straordinario. Secondo un suo scritto “ho attraversato il labirinto del minotauro con arianna, la mia piccola pillola, la mia dolce amante, sono uscita dalle mura e ho visto tutto”. L’ispirazione tornò in maniera diabolica, aggressiva: la sua mente era fonte illimitata di storie e fantasie.  spesso citava il grande incontro che aveva avuto con una mantide religiosa durante un “viaggio”: era stata la conversazione più bella della sua vita. 
Col passare delle settimane, aumentava sempre più la quantità di ecstasy sufficiente a farla partire. Era dimagrita, sempre assonnata e confusa, come persa in quel labirinto, dal quale, le era sicura, di essere uscita. Fu il 12 di maggio che accadde per me qualcosa di indefinibile. Giunti alla solita fermata in cui scendeva, si alzò e lasciò cadere non casualmente il suo quaderno sulle mie ginocchia. Senza guardarmi se ne andò dalla mia vita. Il giorno seguente Jeff Muggle era vestito in giacca e cravatta, un completo gessato scuro; mai lo avevo visto in questa tenuta; non rollava nessuna sigaretta, e con espressione vuota, scese alla fermata della chiesa di santa cruz. Ma proprio durante una sua telefonata, capì: Candida se ne era andata dalla vita di tutti, per un infuso di pastiglie e alcol, che l’aveva dapprima condotta a un coma profondo, e poi alla morte. Candida non c’era più. Ma forse in quel momento, più che mai, aveva visto la perfezione, le sue mani avevano fatto l’amore con la penna un ultima volta, e lei si era persa nel vento.
“dono questo quaderno a te,
che mai hai osato rivolgermi parola
ma che più di ogni altro mi conosci e mi ami”
   
 
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