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Autore: la_scrittrice_di_lettere    20/10/2016    2 recensioni
Marleen ha solo 15 anni, quando scopre il mondo di Otrendam. Abitata da creature fantastiche e le persone più folli di tutte, chiamati Ibridi. Inizierà quindi una nuova vita, nel regno. Frequenterà non solo un college nuovo per Ibridi, ma si ritroverà in un nuovo universo, completamente diverso a quello a noi conosciuto. Ma qualcosa trasformerà ancora di più la sua vita. Da un giorno all'altro verrà catapultata nel mondo della guerra, tra il suo regno e quello dove governano numeri e colori spenti.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Presentazione di Marleen

Capitolo I

 

Caro lettore,

ti scrivo perché ho sentito dire che cerchi una bella storia, una di quelle che ti prenda così tanto da isolarti dal mondo. Non so se sono all'altezza di un vero e proprio libro, uno di quelli con paroloni lunghi che per conoscerne il significato devi allontanarti da quel mondo per qualche minuto. Parole che poi ti ricorderai a malapena solamente un'oretta. Voglio solo essere qui, a raccontarti una storia. Toccherà a te poi leggerne le immagini e i profumi, i colori, le emozioni. La vita, di questa storia. Non voglio parlarti in modo distaccato, credo che in un libro la cosa più importante sia il rapporto con il lettore. Ma ribadisco, questo non è in sé un vero e proprio libro, io credo. Quindi eccomi qui. Ti spiegherò di come tutto sia iniziato e finito, della guerra, del mio migliore amico e amica… persi. Ti racconterò la storia di Marleen Tarren, la mia storia. Se ci penso mi vengono i brividi, come se la morte mi abbracciasse e mi portasse via con se. Era tutto. Tutto nel modo più completo e infinito che si pensi. So che non ha un senso ma era così che mi sentivo quando c'era quel tutto. E quel bellissimo tutto ebbe una fine.

 

 

Era iniziata con una fredda nottata di fine agosto. Ero scapata da casa mia, attraverso la finestra della camera da letto dei miei due fratelli. La mia finestra era chiusa con un lucchetto, e la scatola che conteneva la chiave era sotto al letto dei miei genitori. L'ho detto, mi chiudevano in camera mia, in pratica, per paura che “fuggissi via”, dicevano loro.

Non era vero.

So che non era vero. Sono solo felice di non averli ancora intorno.

Come dicevo, ero uscita da camera dei miei fratelli ed ero diretta alla spiaggia, sotto casa mia. Abitavo in una piccola isola della Scozia. Un'isoletta separata dal mondo. Sinceramente, se nel mondo fosse scoppiata una guerra, nessuno se ne sarebbe accorto più di tanto, e questo era il bello di quell'isola. Non ci importava nulla di quello che succedeva fuori. Noi eravamo in pace e solo questo contava. Era, sinceramente, il posto più bello di tutti. Ricordo bene quella sera. Ricordo la sabbia fredda come neve sui miei piedi. Ricordo il rumore delle onde schiantarsi sulle rocce. La schiuma del mare aveva ricoperto la riva, per poi scomparire. La luna aveva brillato, bianca come il latte che bevevo la mattina, per colazione. Nei miei jeans e felpa, mi ero stretta a quel poco calore che ne era rimasto.

«Ce l'hai fatta ad arrivare!» Era la voce di Chile a parlare, il mio grande e stretto amico, seguito da Eddie, il suo fedele falco. Era un simpaticone, amava fare battute continuamente. Io adoravo stare con lui, mi sentivo bene.

«Scusa. I miei non vogliono che esca di casa, credo…» Avevo risposto ridacchiando. Poi Chile mi aveva guardato perplesso, chiedendomi perché mi ostinavo a chiamarli 'genitori'. Perché in effetti non erano i miei genitori. Ero orfana, mia madre e mio padre erano morti anni fa, quando avevo otto anni. Ora ne avevo quindici, ma non dimenticherò mai, come potrei? I miei genitori mi avevano abbandonato. Nulla li avrebbe potuto giustificare quello che avevano fatto. Tempo dopo che mi abbandonarono, morirono per un incidente d'auto. Credo che sia peggio quando i tuoi genitori ti abbandonano, rispetto alla loro morte. La mia infanzia non era stata fantastica, l'unica cosa positiva era la mia amica Whinter. Eravamo proprio opposte, e proprio per questo, perfette. Opposte non solo di aspetto, ma anche di carattere. Lei era una bambina molto timida ed educata. Io, be'… ero semplicemente io, sempre in movimento e molto diretta in quello che dicevo. I sui boccoli biondi erano contrastanti con i miei capelli rossi come quelli di una fragola. Purtroppo proprio per la sua tranquillità, a otto anni aveva trovato subito casa, con una (a mio parere) perfetta famiglia. Mi chiedo dove sia ora… me lo sono sempre chiesta.

Da quando sono stata adottata a tredici anni, molte cose son cambiate. Chile era stato molto gentile nelle prime settimane dal mio arrivo, dato che non mangiavo nulla, mi portava da mangiare di nascosto da casa sua. Eravamo diventati subito grandi amici.

Quella sera il mare era davvero calmo.

Avevamo proseguito verso il colle, dietro la spiaggia, tappezzata di lucciole. Nell'aria era presente la freschezza e la brezza leggera di fine agosto. Eravamo giunti sotto un Salice Piangente, dove quella notte io e Chile stavamo ammirando le stelle, quando d'improvviso lui mi aveva porto una scatolina. I miei occhi avevano chiesto perché, alla persona che era a fianco a me, seduta sul prato bagnato. Le sue labbra avevano risposto al posto degli occhi. Non era mai stato bravo a parlare con il color caffè. Preferiva sempre parlare con la voce che con gli occhi, per di più aggiungeva sempre una o due battute i mezzo, per alleggerire il tutto.

«È per il tuo compleanno!» Aveva esordito lui, come se fosse la cosa più scontata di tutte. Ciò era strano, dato che il mio compleanno era in gennaio e non in agosto. Chile aveva guardato in basso per qualche minuto, per poi sentirsi richiamato dalla mia voce più e più volte, al mondo vivo. Balbettante, mi spiegava che sarebbe dovuto partire via, in una scuola in Oregon, il giorno seguente.

Non volevo crederci ma era come se dovevo. La discussione era continuata a lungo. La mia testa era come concentrata anima e corpo sulla rabbia, forse paura.

Una serata troppo bella per esser rovinata così facilmente.

Non avevamo parlato più per il resto della serata. Quando era arrivato il momento di salutarci, lo avevo lasciato sulla spiaggia blu. Lo avevo abbracciato, prima di non rivederlo mai più. Lo stringevo forte a me, forse lo stavo quasi strangolando, ma la cosa non mi importava minimamente. Volevo solo rimanere lì ad abbracciarlo per sempre. Ero ritornata a casa, con il volto ricoperto di lacrime, che avevo trattenuto tutto il tempo che ero stata con lui. Intendo dire: non era già facile per lui, non volevo farlo sentire peggio.

Era appena sorta l'alba e io ero rientrata in camera, i miei fratelli però mi avevano vista, così mi ero beccata una punizione di tre giorni. La mattina seguente ricordo che ero stata rimproverata a lungo da mio padre. La mia mente è offuscata, non ricordo bene quello che successe nei giorni seguenti. Alcune cose però, le ricordo, anche amaramente. La famiglia in cui vivevo era molto ricca, snob e senza dubbio stronza (è tanto perfetta questa parola, che non potrei descriverla in alcun modo se non così). La casa era sul mare. La villetta era color bianco latte e gli interni pure. Spesso passavo le mie giornate estive nei campi, sul mare… anche quando pioveva. Ogni giorno lo avevo passato con Chile. Ormai era una sorta di fratello. Una volta, eravamo sulla spiaggia e ricordo che avevamo fatto il bagno. Aveva iniziato a piovere e come due bambini, avevamo gridato, facendo finta che fosse lava bollente, cercando di evitare le gocce d'acqua. Un'altra volta, invece, i miei genitori erano partiti per Londra con i miei due fratelli. Così avevo invitato Chile a casa mia, avevamo una villa intera a nostra disposizione e io e lui non vedevamo l'ora di entrare nel salotto a cui non mi era concesso entrare, perché era pieno di videogiochi e c'era un ripostiglio con alcuni dei miei oggetti preferiti, come la macchina da scrivere. Oppure c'era il mio libro preferito, che considero semplicemente un capolavoro. Sinceramente amavo leggere e scrivere, da quando mi ero trasferita in quella nuova famiglia. Ma qualcosa è cambiato. Avevo passato ore senza Chile, e dopo quella serata, mi ero chiesta infinite volte dove poteva essere.

 

Premetto che: ogni anno, verso la fine dell'estate, la famiglia di Chile invitava

me e la mia famiglia a casa loro, per mangiare assieme.

 

Ora, inutile dire che la mia famiglia non aveva accettato l'invito. E la risposta è molto semplice, riassumendo il tutto in tre parole:

1. Non

2. Erano

3. Ricchi

Ti lascerò immaginare che rapporto avevano le due famiglie.

In ogni caso, io accettavo sempre l'invito con grande piacere, e ricordo che mangiavamo e parlavamo per ore. Sinceramente non so nemmeno di cosa, dato che io non conoscevo bene la madre di Chile, la signora Helly, e sua sorella Rose. Così, come ogni anno, ero andata a casa loro. Avevo percorso la strada in ghiaia, illuminata dalle lucciole, che prendevano il posto delle lanterne rotte. La famiglia Helly abitava in un fienile, addobbato da piante, fiori e tappeti di ogni genere. Ero un po' triste all'assenza di Chile, perché di solito era lui quello che trovava sempre la battuta perfetta, ma a tenermi compagnia era Rose. Lei aveva amato lo sport fin da piccola, ed era la prima in tutte le classifiche, la sua camera era piena di trofei e medaglie di ogni genere.

 

 

Quando uscivo per tornare a casa, la luna era immensa. Le lucciole illuminavano il cammino nel buio. Però qualcosa non quadrava. Era come se mi ero persa sull'unica via che esisteva sull'isola.

Ero molto stanca, ricordo ben poco.

Dopo un po' avevo incrociato lo sguardo di un lupo. Il fatto era molto curioso: non c'erano lupi dalle nostre parti, specialmente in quella zona. Ricordo di esser stata come ipnotizzata da quel lupo, poi lo avevo seguito. Il pelo era grigio e bianco, come la neve. Gli occhi erano strani, sembravano tutti colorati, senza un vero e proprio colore. Simili ai miei forse, che non avevano un vero colore. I miei occhi cambiavano, anche se non si notavano molto, per via degli occhiali che portavo. Non riuscivo più a pensare. Posso ancora sentire il buio farmi paura, come se nel gelo si stava nascondendo qualcuno o qualcosa. Le guance erano ormai di un colorito rossiccio. Vedevo sfocato, e la testa mi pulsava come se qualcuno stava cercando di schiacciarmela. Forse avevo camminato per un'ora, perché quando mi ero 'svegliata' non ero più lì. Avevo seguito il lupo attraverso un bosco, per poi giungere alla collina del Salice Piangente. Ed avevo attraversato il tronco dell'albero (letteralmente). Ero giunta in una sorta di giardino, era ricoperto dal verde, e la creatura era rimasta seduta davanti a me, come se stava aspettando qualcosa.

Una collina era piena di tane, ed era circondata da delle staccionate. La luce era viva, grazie a delle candele su dei candelabri. Alcune case si trovavano sugli alberi, oppure gli alberi in sé erano case.

All'epoca non sapevo.

Se ripenso alla mia reazione quasi me ne vergogno un po', e ci rido su per alleggerire l'imbarazzo.

«Hey là! Come mai non sei in camera tua?» Una ragazza da dei lunghi capelli arancioni era saltata giù da sopra l'albero. Avevo indietreggiato, sorpresa da delle ali, come quelle di una farfalla. Erano sfumate dal blu all'azzurro, fino al viola. Per il panico io ero caduta all'indietro. La ragazza mi aveva porto la sua mano per aiutarmi a rialzare, ma credo che invece che aiutarmi mi aveva spaventato ancora di più.

Ero appena arrivata al college della Iton's Art, la scuola che insegnava varie arti a tutti coloro che ne erano degni. Non avrei mai potuto dimenticare del giorno in cui ero arrivata lì.

In seguito la ragazza mi aveva spiegato che quella era un college molto speciale. Vi potevano studiare solo materie artistiche, come arte, scrittura (nel mio caso), musica e cose simili. Molti di loro avevano il talento di esser un drago, oppure un licantropo e altre creature mitologiche. Lo so, è strano. E probabilmente, anzi certamente, non avrei dovuto dare retta a quella ragazza. Ma aveva un qualcosa, non so bene dire cosa, che mi convinceva e che mi diceva che eravamo simili. Quando, dopo una mezz'ora, mi aveva convinto, mi aveva condotto dalla preside per una sorta di 'ben-venuto'.

«A proposito, mi chiamo Heppeness.» Mi aveva spiegato mentre avevamo percorso il giardino.

 

 

La preside era molto gentile, aveva due occhi azzurri color mare, i capelli erano marroni cacao. L'ufficio era pieno di libri e pozioni. Da dietro la sua cattedra c'era una grande vetrata raffigurante uno strano disegno.

Mi aveva spiegato il programma scolastico e altre cose. Non ricordo molto bene, ma dopo Heppeness e il lupo, mi avevano portato nella mia camera, era sopra un albero e molto piccola. Avevo dormito lì quella notte. So che sembra molto strano detto così: seguire una persona che ti dice che sei arrivata in una scuola per coloro che hanno un 'talento', a detta loro. Ma mi sembrava plausibile, in un certo senso. La maggior parte delle volte quel che facevo era scrivere. Le persone mi davano della 'matta' e a me stava bene, così mi consideravano ancora più fuori. Spesso e volentieri mi sembrava di parlare con quell'albero sulla collina, e così quando la preside e quella ragazza mi avevano spiegato che potevo crederle solo se uno di questi fatti summenzionati mi rispecchiasse, aveva proprio pensato che avevano ragione. Ero rimasta ancora titubante, ma avevo provato comunque a esperimentare la cosa.

 

 

Il giorno seguente era iniziata la scuola. Heppeness, la sera prima, mi aveva spiegato che il lupo era il mio animale spirituale, per questo era come se io e lui potessimo dialogare, in qualche modo lo capivo e lui capiva me. Era come un filo invisibile e leggero che ci teneva legati. Lo avevo chiamato Hope. Credo sia un bel nome perché rappresenta la speranza, appunto. E la speranza è quello che ci tiene vivi, è come una mano che ti tira su quando stai per cadere da un burrone. So che è una cosa profonda, e non voglio mettermi qui a fare la poetica e vedere le persone stupirsi per questo. Perché in fondo è quello che credo che sia la speranza.

In ogni caso, avevo iniziato a seguire le lezioni e devo dire che, anche se la mattina si facevano due o tre ore di lezione, la mole di compiti da sopportare era troppa. C'erano molti test a sorpresa, anche se in quella scuola non si assegnavano voti, cosa che trovo molto giusta. Non puoi classificare una persona, e pretendere da essa un certo risultato. Come se non bastasse avevamo anche molti progetti e laboratori. Ricordo che avevo passato le notti insonne a volte, solo per terminare un progetto o una tesina di un libro letto. In molti casi per me, di finire di scrivere un testo. La cosa interessante era che in settembre, la professoressa Heybok, ovvero l'insegnate di Scrittura e Calligrafia del mio corso, ci aveva affidato il compito di creare una storia nostra, e ogni mese dovevamo creare un capitolo. Lo ammiravo molto perché era la prima volta che creavo qualcosa di mio, grazie a questo modo di insegnare. Alla fine dell'anno scolastico veniva assegnato il premio per il libro più bello. Un anno aveva vinto un ragazzo specializzato in musica.

Ogni lezione si svolgeva in un giardino o in una biblioteca. Sport lo facevamo in giro per il campo. Piante e Vita la facevamo in un giardino ai confini dei dormitori. Ogni fiore ed albero era stato piantato dagli studenti, avevano costruito delle case in legno per la scuola o per il villaggio lì vicino. Purtroppo era concesso solo a quelli dell'ultimo anno fare questi lavori, ovvero del settimo.

Al contrario di dove vivevo prima, lì avevo incontrato molte persone. Certo, alcune simpatiche e alcune no.

Il primo giorno, mentre percorrevo il giardino, notavo tantissime persone tutte diverse. Al-cune avevano le ali, altre invece la coda. Alcuni gruppi di ragazzi e ragazze, alla fontana del centro, erano riunite tra loro, formando un cerchio. La cosa insolita era che, un gruppetto di tre o quattro ragazze, si stavano sfidando a chi sputasse più acqua bollente. Erano sirene. Infatti erano molto carine, devo ammettere. Se non consideriamo il fatto che si pavoneggiassero ogni tre secondi, ma non tutte. Quasi tutte avevano i capelli corti, oppure raccolti in una treccia. Salopette e diverse collane e bracciali ai polsi e colli.

Un'altro gruppo di persone era davanti a un camper semidistrutto, ma molto grande e largo (in effetti era l'aula di arte). Erano concentrati a fare delle foto ad alcune modelle tra di loro. Altri stavano soli seduti sopra un albero a disegnare o a saltare da una liana all'altra. Se alzavo lo sguardo si liberava una splendida e indicibile vista.

È difficile, ma proverò comunque a descriverla: gli alberi erano altissimi, come quelli della giungla, in realtà, se notavo bene, la corteccia ai lati funzionava come da muraglia… era un albero, visto dall'interno.

Le liane sospendevano dall'alto fini al basso. Alcune scalette sospese nel vuoto lasciavano la libertà di spostarsi da un piano all'altro della scuola. Alcuni ponti sospesi e non, portavano da un bordo all'altro della corteccia, dove si trovavano delle aule o biblioteche. Su alcuni rami esposti, gli studenti leggevano, scrivevano, suonavano. C'era tutto e tutti.


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Questo racconto è il primo capitolo del libro: "il libro con una storia", disponibile su LULU.com, cartaceo.
Spero vi interessi, ditemi pure cosa pensate! Se avete domande sul funzionamento dell'acquisto o altro riguardo al libro, chiedete pure.
Ciao, Vale

   
 
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