Prologo
New York
State, 1907
D |
ahlia
gemette. Si rigirò nuovamente nel letto, cercando una posizione in grado di
conciliarle il sonno. Tuttavia, tale traguardo sembrava essere diventato irraggiungibile,
quasi avverso negli ultimi giorni. Sgradevoli sensazioni avvolgevano il suo
corpo raggomitolato contro un materasso all’apparenza marmoreo e i guanciali,
ruvidi come corteccia, le pizzicavano la pelle delicata del viso. Eppure era
consapevole che tale malessere non era altro che un’illusione; una proiezione
del suo disagio. Da quando la signorina Pennington li aveva separati, non
riusciva più a riposare bene. Dopo nove anni passati insieme, l’assenza di
Dorian le risultava inconcepibile. Più una punizione che una necessità per le
buone maniere alle quali le giovani di buona famiglia dovevano sottostare.
A Dahlia certi canoni etici non importavano. Voleva
solo stringere la mano del suo fratello gemello prima di addormentarsi, in modo
da sapere che tutto andava bene; che erano al sicuro.
Anche se non era altro che un’ingenua menzogna.
Chiuse gli occhi, nascondendo il viso nel vecchio
orsacchiotto di pezza che teneva tra le braccia; una delle poche cose che le
avevano permesso di portare con sé dopo che la signorina Pennington li aveva
presi sotto la sua tutela. Poteva ancora avvertire il profumo della madre
intriso nelle cuciture che lo tenevano insieme. Non perfette e accurate, ma
intrise d’amore, un sentimento che Dahlia e Dorian potevano solo ricordare.
La tristezza arrivò in onde amare che si propagarono
gelide nel suo corpo. Dahlia scosse il capo e si costrinse a non rammentare il
passato. Lei e Dorian erano ancora insieme. Era l’unica cosa contava.
Con quel pensiero ben focalizzato nella mente si
rilassò e il tempo incominciò a trascorrere lento e inesorabile, scandito dai
rumori notturni: il vento che scuoteva le vecchie assi di legno della casa, il
tintinnio del vetro, il ticchettio dell’orologio.
Stava quasi per cedere alla
stanchezza quando lo udì.
Era solo un fruscio, un
suono appena accennato, ma i suoi sensi scattarono in allerta. Si mise seduta,
osservando l’oscurità che alleggiava nella stanza come un manto soffocante.
E attese.
Forse aveva frainteso. Era
una casa grande e vecchia, i rumori e gli agghiaccianti scricchiolii erano
all’ordine del giorno. Ma non fece nemmeno in tempo a finire quel pensiero che
avvertì di nuovo quel rumore.
E poi ancora.
Il suo sguardo spaventato
corse all’orologio posato sul comodino.
Non era possibile. Era
troppo presto.
Un altro suono, questa
volta più forte. La prima porta del corridoio era stata aperta.
Uno schiocco.
Poi il boato di una
detonazione.
Il terrore s’impossessò di
lei, ghermendola con i suoi velenosi artigli. Istintivamente, si nascose sotto
le coperte, paralizzata. Il respiro le fuggiva dalle labbra in piccoli ansiti
sommessi, diventando sempre più palpabile mentre la notte avanzava e incombeva
su di loro come portatrice di mala sorte.
Lo scricchiolio si fece più
vicino, una cadenza di passi interrotta dall’eco incessante dei boati.
Dorian…
Nel suo letto di ferro
battuto, Dahlia cercò di rimanere immobile, nonostante i tremiti che le
scuotevano il corpo. Chiuse gli occhi e incominciò a mormorare la nenia che la
loro amata e defunta madre cantava per loro quando erano spaventati. Aveva
sempre funzionato; li aveva confortati nel dolore della perdita,
nell’accettazione del lutto e nei primi momenti di smarrimento dovute alle
espressioni degli altri ragazzi di cui Mrs. Pennington era responsabile;
sguardi sforzatamente gentili che nascondevano il dubbio e la ritrosia verso il
diverso, la novità. Ma poi tutto sembrava essersi disteso in un quieto tempo,
dove la tipica spensieratezza infantile era riuscita a portare con sé un
barlume di letizia. Finché non era arrivato lui.
Gli scricchiolii
continuarono, sempre più tangibili. Dahlia rabbrividì e proseguì imperterrita a
mormorare quella litania sconosciuta e al contempo famigliare.
Poi la porta si aprì e la
bambina si pietrificò.
Il cigolio s’interruppe.
Nella stanza calò un silenzio opprimente, quasi soffocante, ma Dahlia sapeva
che c’era qualcuno con lei.
Quel momento precario si
spezzò quando una mano afferrò le lenzuola e gliele strappò di dosso. La
bambina stette per urlare con tutto il fiato che aveva in corpo, ma piccole
dita si serrarono attorno alla sua bocca, prevenendo il segnale che li avrebbe
fatti scoprire.
«Ssh.
Tranquilla, sono io.»
Dahlia guardò il riflesso
del suo volto attraverso le lacrime. Capelli neri come la pece, naso
leggermente aquilino, incarnato ambrato e un piccolo neo sotto l’occhio
sinistro. Dorian.
Annuì lentamente, facendo
capire al gemello che avrebbe risparmiato il fiato. Poi gli strinse le mani sul
braccio.
«È… quello che penso? Come
può essere già qui?»
Dorian scosse il capo, poi
scattò sull’attenti.
«Vieni, dobbiamo
sbrigarci!»
«Aspetta! Non dovremmo…?»
Dorian non perse tempo a
risponderle. I passi ripresero, questa volta più vicini e veloci.
Prese per mano la sorella e
la condusse verso l’armadio posto dall’altro capo della stanza. Nascosta dai
cappotti e dai vestiti, una piccola fenditura percorreva il pannello interno.
Dorian fece pressione e scostò il legno finché il passaggio non diventò
abbastanza grande per farli passare. Non dovette nemmeno voltarsi per dirle
cosa fare.
Dahlia s’infilò dentro e
incominciò a strisciare tra lo spazio vuoto dei muri, mentre Dorian richiudeva
dietro di loro le porte dell’armadio. Subito dopo ritornò al suo fianco.
«Da che parte?» mormorò
Dahlia, facendo attenzione a non produrre il benché minimo suono.
«È inutile tentare di
raggiungere il piano inferiore. Procedi verso le scale di servizio. Dobbiamo
trovarlo.»
La bambina annuì confusa,
dato che la loro destinazione si trovava dalla parte opposta al corridoio dove
erano allestite le camere per i bambini, ma seguì le sue indicazioni. In quel
labirinto di cunicoli polverosi e marci, Dahlia non riusciva a muoversi
liberamente, costretta com’era in quello spazio angusto. Ben presto incominciò
a sentire il petto pesante a causa della claustrofobia, ma si costrinse a
proseguire.
Erano quasi arrivati al
corridoio nord, quando Dorian afferrò per un braccio la sorella e la fermò.
«Aspetta.»
Si avvicinò alla parete,
osservando attraverso una piccola crepa nell’intonaco l’ambiente circostante.
Il corridoio era vuoto. Le porte delle stanze dei ragazzi chiuse. Non c’era
alcuna traccia della sua presenza.
«Andiamo» supplicò Dahlia
appena udibile.
Dorian non la badò, certo
di aver sentito un rumore. Con il cuore in gola, gli occhi sgranati e i visi
pallidi per la tensione, i due gemelli rimasero in attesa per qualche secondo,
poi l’udirono.
Le pupille di Dahlia si
dilatarono per il terrore. Si protese verso il fratello, ma una mano macchiata
di nero penetrò l’intonaco e si chiuse sulla testa del bambino prima che lei
potesse afferrarlo. Lo trascinò via, attraverso il muro, attraverso l’oscurità
e Dahlia rimase da sola, lì, nel buio.
Giusto il tempo per tornare
a giocare a nascondino.