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Autore: KaienPhantomhive    21/10/2016    1 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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11.

 

Fiori calpestati

 

 

Ore 12:00. Varsavia; Polonia.

 

Tre avveniristici dirigibili neri lunghi più di duecento metri ciascuno galleggiavano in formazione nel cielo sopra Varsavia; spesse funi d’acciaio li tenevano ancorati alle mura dell’ambasciata polacca, con gli arpioni a sfondare senza riguardo i marmi di rivestimento. In fondo alla lunga via che collegava alla piazza iniziavano a riecheggiare cori indistinti.

 

*   *   *

 

Ambasciata degli Esteri.

 

Due soldati Nazisti armati di mitragliatori coprivano la porta in legno dell’ufficio d’ordinanza. Appoggiato alla parete di sinistra Zeitland osservava il suo superiore tentare con ottimi risultati di intimidire il Presidente polacco.

“Pensa di aver riflettuto abbastanza?” – chiese in un ottimo polacco e con una vena di impazienza il Colonnello Albrecht, fissando con il suo unico occhio buono l’emaciato politico appiattito, più che seduto, alla scrivania.

“Dovrei davvero firmare questo Trattato?” – le mani rigide e anziane dell’uomo tremavano – “Consegnare il mio Paese in questo modo?”

“Abbiamo già ottenuti accordi con Berlino e sa bene che per la politica militare dipendete dalla Germania, al momento. Non vorrete trovarvi contro, quando sarà il momento?”

Il Presidente sorrise amaramente, scuotendo il capo:

“Proprio come più di un secolo fa…ma che diavolo vorrete da questo Paese? Il nostro esercito è praticamente…”

“Con o senza il suo consenso otterremo comunque il risultato voluto.” – lo zittì Albrecht – “Faccia la scelta giusta e lo renda indolore.”

L’uomo era sul punto di replicare quando un vociare sciamante e cadenzato come tamburi ben scanditi fece vibrare la finestra alle sue spalle. Albrecht si avvicinò e guardò fuori: giù, nella via antistante la piazza, un fiume ondeggiante di umanità gridava e marciava verso l’Ambasciata, stendendo in alto grandi cartelli e striscioni imbrattati di frasi scritte in polacco. ‘MEGLIO PERDERE LA VITA CHE LA DIGNITÀ’, ‘POLONIA LIBERA SEMPRE’, ‘MORTE AI NAZI’.

“Come previsto. Che seccatura.”

“Me ne occupo io.” – Zeitland aveva già un piede oltre la porta – “Lasci fare a me.”

 

*   *   *

 

Dietrich raggiunse a rapidi passi l’esterno del palazzo, dove una folla scomposta, urlante e contrariata inneggiava cori di protesta.

A reprimerli si erano parati una decina di soldati delle SS che, gridando ammonizioni in Tedesco lunare, sparavano ai piedi dei manifestanti per farli retrocedere. A ogni raffica grida di paura mista a rabbia si levavano e il corteo indietreggiava per pochi metri, solo per rifarsi nuovamente avanti.

Un uomo sbraitava rabbiosamente dalle scale dell’Ambasciata, impartendo ordini a destra e a manca: il grasso, corpulento e – secondo perfino l’opinione di diversi membri di Golgotha, Zeit compreso – l’insopportabilmente vizioso Sturmbannführer Otto Schleiser.

“Indietro! State indietro se non volete che vi riempia di piombo, cani schifosi!” – gridava sbracciandosi per dirigere le sue truppe – “Non li fate avvicinare! Sparate! Sparate finché non si allontanano!”

“Che sta succedendo, qui?” – Zeitland gli comparve alle spalle.

L’uomo si voltò e lo guardò con gli occhietti piccoli e infossati nel lardo della sua testa rotonda sormontata dal piccolo cappello nero; parlò con una voce roca di irritazione mista a paura: “Mein Herr, non vede?! Questi viscidi ribelli terrestri ci insultano!”

“Con dieci uomini a disposizione non riuscite a contenerli?”

“Sono troppi e non recedono!” – protestò l’uomo in modo quasi infantile – “Se non ne butto giù qualcuno non si fermeranno!”

“Gli ordini sono di non sparare finché la situazione non sia critica.”

Schleiser inveì verso la folla: “Al diavolo gli ordini! Io li imbottirei tutti di-!”

Un sibilo acuto sorpassò ogni altro suono, salendo in aria e poi ricadendo veloce: un fumogeno artigianale, che rotolò dalla folla fino al centro della piazza.

“Basta così, mi sono stufato!” – gridò Schleiser con la gola riempita del fumogeno – “Contrordine: aprite il fuoco e sparate a vista!”

E nel caos ovattato e vermiglio dei fumi artificiali crepitarono presto i colpi di numerosi mitragliatori. Urla di spavento, dolore e foga rimbombarono; persone che cadevano con il cuore crivellato di piombo senza nemmeno avere il tempo di capire da che parte fosse provenuto il colpo e sopra tutta la confusione stridevano i vetri di case e negozi che andavano in frantumi.

Zeitland era rimasto sulle scale dell’Ambasciata, piegato in due dai colpi di tosse che il fumo gli provocava. Riusciva a intravedere ancora il suo Siegfried e l’Haunebu della scorta di Schleiser, fino ad ora illesi al margine della piazza. Allungò lo sguardo oltre la coltre di fumo rosso che iniziava a diradarsi, scorgendo le sagome nere dei suoi soldati sparare ovunque. Provò a rialzarsi e ad affrettarsi verso il suo aereo coprendosi la bocca con un braccio, quando una sagoma entrò di corsa nella sua visuale e lo investì con violenza. Caddero entrambi al suolo e Zeit avvertì un peso sul suo corpo. Aprì gli occhi solo per incrociare il volto di un uomo, sporco di polvere e sangue: nel suo sguardo c’era tutto l’odio che una persona può serbare. Sollevò di scatto la mano in cui stringeva a sangue una scheggia di vetro e la calò verso Dietrich, che riuscì ad afferrare il polso prima che potesse piantargliela negli occhi. Con uno sforzo non indifferente sollevò il torso e gli assestò un colpo di fronte sul naso; l’uomo gemette e il soldato lo spinse via con un calcio. Barcollò all’indietro, incespicò e cadde. Il cervello di Zeitland inserì il pilota automatico: cercò la pistola nella fondina della cintura, la estrasse e fece fuoco tre volte verso il torace dello sconosciuto, che si contrasse a terra un paio di volte e poi tacque. Zeit riprese respiro ma sentì presto i suoi muscoli fascicolare sotto l’istinto predatore che gli scorreva nel sangue. Si voltò di scattò e sparò contro il suo obiettivo prima ancora di metterlo a fuoco: un ragazzo che non doveva avere più di vent’anni, con una felpa rossa sporca e bruciacchiata; brandiva una spranga ritorta come fosse una mazza. Non fece nemmeno in tempo a sollevarla che un proiettile volò verso la sua testa, si aprì un foro e trovò l’uscita dal lato opposto, con una nuvola di sangue e trucioli di materia grigia e cranio. Il ragazzo cadde all’indietro istantaneamente, come un giocattolo a cui si ha staccato la batteria. Zeit rimase ad ansimare, con la pistola ancora stretta e la canna fumante; una pozza scarlatta che si allargava dalla testa di quel ragazzino. Deglutì e per un attimo udì solo il suono di quel gesto.

Ne ho ucciso un altro. – si trovò a pensare per la prima volta dopo molto tempo – Ho ucciso un altro uomo.

 

*   *   *

 

Albrecht osservava la scena dallo studio del Presidente.

Si lasciò sfuggire uno verso di insofferenza: “Ne ho abbastanza di questa situazione. Si sbrighi con quella firma.”

Il Capo di Stato della Polonia poggiava con i gomiti sulla sua scrivania, la testa sorretta dalle mani sudate e tremanti.

Poi il suo polso destro fu afferrato con forza e strattonato verso il foglio di carta bollata che aveva davanti; il Colonnello Albrecht gli infilò a forza la stilografica in mano: “Ho detto: firmi quel dannato Trattato.”

Un po’ con le sue forze e molto per via dei movimenti dell’Ufficiale il Presidente polacco produsse qualcosa che era più uno scarabocchio che una firma. Ma per consegnare la sua Nazione in mano al nemico andava bene anche così.

“Ha fatto la scelta giusta.” – Albrecht era già quasi fuori dalla porta, scortato dalle guardie – “Andiamocene.”

 

L’anziano Presidente restò solo nel suo studio, sprofondando nelle urla che non smettevano di riecheggiare.

 

*   *   *

 

All’esterno, il confine tra manifestazione repressa e guerra civile era scomparso. Uno dei dischi volanti delle SS si era sollevato in volo e ora mitragliava alla cieca sulla folla, che aveva iniziato ad arrendersi troppo tardi dal massacro gratuito. Meno di un centinaio di momentanei superstiti tentavano di fuggire per la via principale, correndo senza premura sui cadaveri.

Una giovane coppia di genitori si era dovuta fermare al centro della corrente, tentando di far rialzare il figlio di cinque o sei anni che era inciampato nella fuga. Piangeva forte, nel frastuono.

“Detesto i mocciosi che frignano!” – Otto Schleiser andò su tutte le furie, strappando di mano l’arma a un suo soldato – “Da’ qua!”

Si avvicinò a grandi falcate verso i tre, sollevando il fucile oltre la testa, pronto a colpire il bambino. Suo padre gli si gettò ai piedi supplicandolo in un incomprensibile polacco, ma finì solo per ricevere un colpo alla tempia.

“Osi metterti in mezzo?!” – gridò il soldato, con gli occhi dilatati e i denti digrignati – “Ti ammazzo, cane schifoso!”

Iniziò a pestarlo e riempirlo di calci, sotto gli occhi terrorizzati dei familiari: “Ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!” Si fermò solo quando uno spruzzo di sangue zittì i lamenti dell’uomo, imbrattando il grigio della strada. La moglie urlò fuori di sé, stravolta, e gli scagliò contro, gridando e graffiandogli il viso. L’uomo la strattonò con forza, la costrinse a voltarsi e l’afferrò saldamente per i lunghi capelli arruffati. Le puntò la canna del mitra contro la spina dorsale e sibilò leccandosi le labbra: “Le donne che urlano troppo mi danno i nervi.”

Zeitland Dietrich fissava la scena da una quindicina di metri; si sentiva pietrificato, disturbato, confuso. Com’era possibile? Com’era possibile che lui, il grande Cavaliere Nero totalmente devoto alla causa del Reich, potesse ora temporeggiare? Provava forse orrore? Risentimento? Era pietà quella che provava per quella donna i cui occhi ora lo fissavano disperati, come a voler implorare ‘Aiutami!’. Poi una raffica di pallottole le squarciò il petto e anche il più misero segno di vita abbandonò gli occhi e il corpo della donna. Zeit rabbrividì, come scosso da una scarica elettrica.

Finalmente Schleiser poté voltarsi verso quella che era stata la sua preda fin dall’inizio: il bambino con le ginocchia sbucciate, ormai troppo scioccato anche solo per piangere. Lo fissò come un cane fissa sbavante il suo osso. Serrò le dita sul grilletto.

Da lontano, Zeit vide solo una manciata di sangue schizzare oltre la sagoma del suo sottoposto e il tonfo di un corpo che ricadeva a terra.

“No.” – le sue palpebre si sgranarono, le pupille ridotte a due fori minuscoli e il sangue che ribolliva come magma nelle vene – “NO!

Si ritrovò a correre e gridare verso quel lardoso ammasso di inutilità che aveva sempre disprezzato, piantandogli addosso le mani come artigli e voltandolo con tutta la sua forza. Lo Sturmbannführer fissò sconcertato il suo superiore perdere del tutto il controllo e urlargli in faccia, mentre lo scuoteva per il bavero della divisa: “Che cosa hai fatto?! CHE DIAVOLO HAI FATTO?!”

Poi un rombo distante, elevato e riecheggiante, distrasse la loro attenzione.

 

In alto, nel cielo terso oltre le nubi di ferro, uno stormo di piccoli punti scuri volava rapido.

 

“Sono loro.” – disse Zeit, con la voce ancora contratta dai nervi – “Proprio come aveva detto il Mond-Kaiser.”

“C-Chi?”

“I Russi.” – e il ragazzo lo mollò dov’era, dirigendosi rapido verso il suo blackbird.

“E io che cosa dovrei fare, adesso?!” – gli gridò da dietro l’omone.

Offri la tua vita al Reich.”

 

Mentre il Siegfried accendeva i propulsori, lasciando il terreno, Schleiser si voltò lentamente. In quel poco che rimaneva della piazza, tra macerie di ogni sorta e carcasse carbonizzate, delle sagome ricurve iniziavano a sollevarsi: superstiti simili più a zombie divorati dal rancore a esseri umani.

Per la prima e verosimilmente ultima volta in vita sua lo Sturmbannführer Otto Schleiser provò vera paura e vero dolore.

 

 

 

   
 
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