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Autore: sofismi    22/10/2016    2 recensioni
Sono un'artista, dipingo. Sono sola, sono arrabbiata, o almeno lo ero. Nel momento in cui ne avevo più bisogno è arrivata una persona e ha scombinato l'intero ecosistema, è un male o un bene? Non lo so, so che non dovevano andare così le cose, non a me. Non a me che sono così grigia, e rossa. Lo so che rischiavo di diventare nera, ma ne vale davvero la pena? È giusto soffrire così, adesso? Vorrei arrendermi al nero, perchè allora non ce la faccio? È come se fossi sott'acqua, ma non riesco a capire se sto risalendo in superficie, o se sto inesorabilmente scendendo verso il fondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo quinto
Mi piacerebbe poter dire che i mesi passarono e che la vita trascorse nella mera semplicità di ogni piccolo gesto, ma purtroppo non mi è concesso. Non avevamo più soldi, mangiare era diventato raro, non pagando le bollette non c’era nemmeno più la corrente, il che voleva dire niente telefono, computer, TV, forno, lavatrice, niente luce. La casa era ricoperta di piccole candele, in modo che la sera non fossimo nel buio assoluto; ammetto che l’atmosfera era rilassante ma la paura di non poter avere nemmeno più un letto dove dormire cominciava a farci paura. Mentre lui cercava un impiego io lavoravo a ciò che avrei dovuto mostrare al collezionista per partecipare alla mostra, i miei lavori gli erano piaciuti, aspettava solo di scegliere quelli giusti da esporre. Ormai lavoravo soltanto su corpi nudi e labbra, e come mio solito aggiungevo dettagli floreali su ogni pezzo: peonie e camelie, i miei fiori preferiti, volevo esprimere ciò che siamo realmente, volevo esprimere il concetto esteriore della sofferenza, le bocche invece celavano più parole di quante se ne potesse immaginare. Mi sentivo meglio quando riuscivo a trasmettere ciò che pensavo, Felix interpretava sempre i miei quadri in maniera più che esatta ed era appagante: non era mai successo che qualcuno mi capisse così. Eravamo così vicini, ogni sera dopo il lavoro veniva a prendermi, e a casa ci immergevamo nella poesia: era il momento che preferivo. Lui era così intelligente, profondo, e ogni cosa gli mostrassi a lui interessava, e piaceva, e ne discuteva con me.
- La stoltezza, l’errore, l’avarizia, la colpa / ci occupano l’anima e il corpo ci fan guasto, / e noi ci offriamo ai nostri cari rimorsi in pasto,/ come il povero sfama le zecche che lo spolpano.-
-Baudelaire?- sorrise.
-Sì, lui. Un genio a parer mio.- chiusi il libro. Pausa. – Che cosa faremo?-
Ci incupimmo entrambi, l’aria era pesante.
- Andrà bene, vedrai. Il collezionista amerà i tuoi lavori, ti finanzierà, ti salverai.-
Un giramento di testa improvviso.
- Helena!-
Non svenni, non caddi, oscillai un pochino e poi lo guardai. Quando il dolore accumulato arriva a farti stare male fisicamente? Quanto ancora posso resistere? Il mio corpo, bramando contatto fisico, calore, si avvicinò a lui per farsi abbracciare, senza che la mia mente fosse d’accordo.
Restammo lì abbracciati, e piansi tutto il male che avevo dentro, tutto il mio passato, e tutta la paura per il mio futuro. Appoggiò il mento alla mia testa, prima di quel momento non mi accorsi mai di quanto fosse più alto di me. Era una strana sensazione, non riuscivo a capire se mi sentissi a mio agio o meno. Nessuno mi toccava da molto tempo, questo bisogno improvviso di calore umano mi stupì. Assaporai ogni singolo respiro come se fosse l’unica cosa di cui avessi bisogno in quel momento, ma non appena ci staccammo l’imbarazzo era visibile ad occhio nudo.
- Scusami,- cercai di giustificarmi – non avrei dovuto…-
Lui in risposta sorrise e mi accarezzò i capelli, fu così strano ma altrettanto dolce che mi lasciò di stucco.
- Vado a dormire, buonanotte.- mi chiusi tutte le porte alle spalle e mi seppellii sotto le coperte, come se fossero le assi della mia bara.

L’incubo che si fece strada nella mia mente quella notte fu diverso dal solito. In genere sognavo mani, corpi, respiri affannosi, voci. Nei miei incubi mi sentivo sempre schiacciata sotto il peso di una persona, ero cieca, non vedovo chi fosse: non sapevo se era sempre la stessa persona o meno. Quella notte invece vidi chiaramente un viso, il suo viso. Il viso di chi mi fece così tanto male, e il suo corpo, le sue orrende mani, quelle mani che odiai così tanto. Non mi lasciava in pace, mi inseguiva, mi girava in torno come un avvoltoio sul cadavere. Perché era così che mi faceva sentire: un cadavere, morta. Mi aveva portato via tutta la vitalità che avevo in corpo.
Alla fine mi prese. Urlai.
Erano le due di notte, ero stesa sul letto con gli occhi spalancati e con le mani che stringevano la coperta così forte da farmi male.
Ci pensai, ci pensai molto. Ma il buio mi faceva troppa paura, e io mi sentivo troppo sola, indifesa. Usai la lucina da lettura per farmi strada fino al soggiorno, e mi intrufolai sotto le coperte con Felix. Era sveglio.
- Non dire nulla.- lo pregai. Mi strinsi forte a lui e basta. Con lui mi sentivo al sicuro, e l’abbraccio di qualche ora prima mi aveva dato la sicurezza di cui avevo bisogno. Sapevo che lui non mi avrebbe fatto del male, lo sentivo. Nonostante la stranezza di quella situazione sapevo che era la cosa giusta da fare, speravo solo di non doverne parlare con lui. Non mi sembrava di provare qualcosa, era molto tempo che non mi “innamoravo”, e in un certo senso speravo non fosse così. Però pensavo sempre a lui, e se non era presente aspettavo di incontrarlo, per raccontargli qualcosa magari, o semplicemente per ascoltarlo leggere qualche poesia. Forse, però, mi stavo illudendo, forse stavo solo cercando di negare a me stessa le mie emozioni. Forse la verità era che di notte tutto si amplifica.
L’indomani mattina mi sveglia sul divano da sola, Felix era in cucina. Mi sedetti, inspirai profondamente e poi lo raggiunsi.
- Potremmo rifarlo, sai?- mi disse lui dopo due minuti di un silenzio diventato ormai fuori luogo, a causa mia: non trovai il coraggio nemmeno di salutarlo.
- Ci sono cose che non sai, Felix. È più complicato di quanto non sembri.-
- A me sembra già molto complicato. E sono preoccupato per te: perché scappi?- aveva messo giù la caffettiera, anche se la tazza era ancora vuota, mi stava guardando insistentemente. Non sapevo come reagire, dovevo dirglielo o no? In fondo, perché avrei dovuto? Ma perché tenere il segreto?
- C’è qualcosa che mi frena, sia per dirtelo, che per avvicinarmi a qualsiasi essere umano. È…- non riuscivo a parlare, avevo così tanti pensieri, così tante domande che non riuscivo a pronunciare una frase di senso compiuto senza tendere a deviare il discorso. Era più forte di me.
- Cosa, cos’è che devi dirmi?- mi venne vicino, mi accarezzò il viso. Appoggiai il viso sulle sue mani e mi permisi di chiudere gli occhi, e di avvicinarmi.
- Tempo fa sono uscita da una relazione difficile.- gli occhi erano ancora chiusi.
- Che cosa ti ha fatto?- serio, lui. Zitta, io. Lasciai che migliaia di lacrime rigassero il mio viso, tutte le lacrime che avrei dovuto versare anni fa, ma che non ebbi mai la forza di far cadere. L’orgoglio era troppo, e la paura.
Lui mi capì, mi capiva sempre. Da quel momento non mi chiese più nulla, e iniziò a stringermi sempre più forte.
Quella sera venne a prendermi un po’ più presto del solito, mi fermò sui gradini e fece qualcosa che non avrei pensato mai. Mi prese il viso e appoggiò velocemente le sue labbra sulle mie, di sfuggita. Semplice, veloce, quel nostro primo bacio fu l’inizio di una lunga serie di gesti affettuosi e piccole premure, e pensai che non avrei mai potuto essere più felice di così.
  
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