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Autore: Nemainn    30/10/2016    4 recensioni
Un'antica guerra ha sterminato tutti i loro uomini, così le streghe hanno cercato di sopravvivere usando la più antica delle magie: quella del sangue.
Aderyn è uno dei volontari, uno di coloro che desiderano il Sangue di Strega, ma non tutti coloro che l'ottengono ne sono veramente degni e l'antica magia risveglia desideri e conoscenze che avrebbero dovuto rimanere celati.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 
- 2 -
- Shea -



La luce che scendeva tra i rami dell'Ankhetela assumeva una sfumatura azzurrata e Aderyn, che si era arrampicato tra quei rami alla ricerca di un punto che gli permettesse di stare solo senza però disubbidire all'ordine di non allontanarsi, guardava ammirato quei giochi di luce.
La brezza muoveva le foglie e il chiarore del pomeriggio sembrava rimbalzare tra di loro, piovendo fino a terra in rivoli incantati dalle sfumature tra l'azzurro e il blu. Era la magia dell'albero a fare quel miracolo e ora la sentiva: scorreva con la linfa in quel legno antico, pacata e quieta, dalla forza immensa.
Si sdraiò su un ramo così largo che sarebbe stato in grado di ospitare più persone e si strofinò il viso, cercando nella calma dell'albero il modo di tranquillizzarsi a sua volta.
Erano successe troppe cose da quando, pochi giorni prima, si era risvegliato scoprendo che del suo villaggio era sopravvissuto solo lui alla trasformazione. Dopo l'iniziale sgomento e il dolore per la perdita degli amici di una vita, che ancora pungeva la sua anima dolorosamente, la profondità del suo stesso cambiamento l'aveva sopraffatto. La sua mente era mutata, diventando in un certo senso immensa: ora condivideva memorie e ricordi di un intero popolo, scoprendo ciò che le streghe ricordavano da tempo immemore e che gli uomini avevano dimenticato.
Scoprì in quelle memorie come da oltre le nebbie del sogno il suo popolo era arrivato in quelle terre, chiedendo asilo da una guerra lontana e ottenendolo; e come, per colpa della paura e dell'avidità, avevano maledetto le streghe, uccidendo ogni maschio della loro razza e rendendo impossibile la nascita di figli. Aveva vissuto sulla sua pelle la disperazione di un popolo racchiusa in quei ricordi e la soluzione amara, ma necessaria: la creazione degli hilm'een. Mutando i maschi umani, altrimenti incompatibili, ottenevano ibridi con cui potevano continuare la loro razza, ma da cui nascevano solamente femmine. Aveva visto come dopo un iniziale rapporto di fiducia fossero poco più che schiavi, spesso rapiti dai loro villaggi e costretti al mutamento, privati della memoria di ciò che erano stati prima della magia per renderli docili. In quella reminiscenza collettiva, però, non si poteva entrare e uscire a piacimento né esplorarla in ogni sua parte rimanendo indenni, e lui aveva rischiato di perdersi in essa, salvato, più per caso che per altro, dalla mente di una strega che aveva colto la sua presenza. Da allora aveva evitato di addentrarsi lì, in quella parte di coscienza che era condivisa. Gli era stato spiegato che per gli hilm'een era pericoloso e che solo una parte di essa era a lui accessibile senza rischio, quella che i mutati dal sangue avevano nel tempo creato all'interno di quel piano mentale. Aveva esplorato in parte quella porzione, trovandovi i ricordi dei primi hilm'een. Il loro dolore, la paura, ma anche l'amore. Aveva sfiorato centinaia di vite ormai spente vivendole come se fossero sue, annegando quasi letteralmente in quell'oceano scuro e profondo che l'aveva afferrato e da cui uscire era stato così difficile da averlo prosciugato. Ora aveva bisogno di solitudine per riflettere, per capire e prendere le distanze da quelle esperienze non sue, separandole da se stesso per non smarrirsi in esse; aveva quindi chiuso la mente a tutto quello, sconvolto e sopraffatto, alla ricerca di pace.
Quando l'avevano visto uscire dal Palazzo di Pietra gli era stato dato l'ordine di non allontanarsi, mentre la Cail'ka di guardia gli spiegava che, per la prima luna, avrebbe potuto essere sopraffatto dai malori della mutazione e morirne; cosa che volevano tutti evitare, soprattutto lui.
Sospirò strofinandosi le mani sul volto, la sensazione del suo stesso viso era diversa e non si era ancora davvero abituato all'aspetto che il Sangue gli aveva dato. Sfiorò con le dita i lineamenti ora privi di barba e addolciti, quasi femminei nella loro delicatezza. Continuò a vagare mentre i polpastrelli salivano lungo la morbida linea delle orecchie che ora erano appuntite e allungate, afferrando poi una lunga ciocca di capelli, ormai così chiari da essere quasi argentei, più che biondi. Sospirò osservandola, stringendo le labbra davanti all'innegabile prova della sua mutazione.
Forse sua madre aveva ragione a dire che non sarebbe rimasto più nulla di suo figlio.
Ricacciò una nota di profonda nostalgia per la sua casa, per gli odori della cucina, per tutto quello che si era lasciato alle spalle, mentre i ricordi lo sopraffacevano.
I profumi del cibo mentre la sorella preparava la colazione, la voce della madre che si levava piena e calda, mentre cantava durante le lunghe ore che passava a tingere le stoffe o cucire.
Si rese conto che mille ricordi si affastellavano nella sua mente, dettagli e particolari di una vita che non era più la sua.
Ora, però, qual era la sua vita?
Strinse gli occhi, bloccando sul nascere una specie di cupa disperazione con caparbia determinazione. Avrebbe obbedientemente atteso una luna, poi sarebbe tornato al villaggio e avrebbe abbracciato sua madre e sua sorella, avrebbe mantenuto quella promessa dimostrando loro di essere ancora vivo.
Prese un profondo respiro, abbandonandosi all'albero che sembrava cullarlo con i suoi sospiri di foglie nel vento e la sua luminosità azzurrina che, come un abbraccio, lo avvolgeva.
Si rendeva conto che l'Ankhetela aveva una specie di coscienza, qualcosa che trascendeva la mente umana, così immensa e aliena da essere percepibile, ma non comprensibile. Lasciandosi trasportare da quel delicato conforto privo di parole la sua mente si schiarì e, pur rimanendo piena di dubbi e paure, la certezza che avrebbe superato tutto quello si fece strada in lui.
Sorrise, mentre apriva gli occhi e, rendendosi conto che il cielo sopra di lui, tra le foglie, era pieno di stelle, rimase perplesso e sgomento. Il tempo era trascorso in un battito di ciglia: per lui era stato il tempo di un lungo respiro, eppure ciò che vedeva lo smentiva.
Riposato, pieno di forze, eppure spaesato da quella specie di sfasatura temporale, si mise seduto, guardandosi attorno. Fu il suo udito, ora molto più fine di quanto fosse mai stato prima, ad avvisarlo dell'avvicinarsi di qualcuno. Guardando sotto di lui vide arrampicarsi con balzi agili e apparentemente privi di ogni sforzo un altro hilm'een.
Sapeva chi era, l'aveva accolto lui quando aveva aperto gli occhi in quella specie di stanza sotterranea.
«Shea.»
«Sei vivo, allora. Nel'thi mi ha mandato a cercarti.»
Aderyn si strinse nelle spalle. «Devo essermi addormentato, come vedi non ero poi così lontano.»
Sorrise all'altro, guardando affascinato le sue iridi grigie come l'argento mentre lo raggiungeva e gli si sedeva accanto. Una gamba a penzoloni e l'altra piegata, con il ginocchio vicino al viso, Shea gli sorrise.
«Nostalgia di casa?»
Aderyn sbuffò, distogliendo lo sguardo, e infine sospirando piegò un po' le spalle in avanti. «In un certo senso, sì. Vorrei poter andare a rassicurare mia madre che sono vivo e... e credo che la notizia... che...»
«Pensi di dover essere tu a dire che i tuoi compagni non ce l'hanno fatta.» Aderyn annuì e Shea gli passò un braccio sulle spalle. «Non è un tuo dovere, ma se senti di dover essere tu, a farlo, parlane con Nel'thy prima che parta la messaggera; potrebbe mandarti con lei. Non lasciamo mai le famiglie nell'angoscia, 'Ryn. Nessuno merita di non sapere che fine ha fatto chi ama.»
Annuendo silenziosamente, Aderyn lasciò vagare lo sguardo sul paesaggio davanti a lui. Ora per lui la luce delle stelle era molto più forte; non era come se fosse giorno, ma pur con un piccolo quarto di luna calante vedeva dettagli e accenni di colori. Tutto ciò che concerneva i suoi sensi era più vivido, reattivo, sviluppato.
Sospirò ancora, cercando di non lasciarsi prendere dalla tristezza.
Si sentiva in colpa per come erano andate le cose: i suoi amici e lui per primo sapevano che le possibilità di non rincontrarsi più, di non farcela, erano alte, eppure lui non aveva mai davvero pensato a quell'aspetto. Non li aveva salutati, non era stato con loro quando poteva nel lungo viaggio fino al Palazzo di Pietra; era rimasto davanti a tutti, a un soffio dalle streghe, orgoglioso della sua posizione e di poter dimostrare a quelle donne le sue capacità. Era stato vanesio, sciocco ed egoista, e quello non poteva davvero dimenticarlo.
Nonostante la prova fosse personale, avrebbe potuto aiutarli, forse. Avrebbe potuto fare qualcosa di più, ma era stato stupido. Così preso da quello che accadeva, dal suo sogno, dal suo desiderio, non aveva pensato ad altro.
Sospirò e l'abbraccio di Shea divenne un po' più forte in un'ultima stretta consolante prima di scivolare via. Sembrava capire ciò che attanagliava la mente del giovane e, probabilmente, era così.
«Rientriamo, anche gli altri sono preoccupati per te e il vecchio Duane quando si agita diventa fastidioso.»
Aderyn sorrise, scuotendo il capo. «Quando lo chiami vecchio mi viene da ridere, dimostra neanche quarant'anni...»
«Ma ne ha più di cinquecento e presto sarà vivo solo nel tempio della nostra memoria.»
La voce di Shea divenne triste e Aderyn si morse la lingua.
Aveva le conoscenze, solo che venivano a galla unicamente quando stimolate: in un certo senso era come se dovesse ricordare e a volte, senza volerlo, diceva cose crudeli. Quando un hilm'een cominciava a dimostrare una certa età, un inizio di declino, significava che presto avrebbe visto la fine del proprio cammino. Era come se il sangue di Strega desse loro longevità e giovinezza per poi consumarsi quasi di colpo, mentre loro invecchiavano a vista d'occhio per poi compiere l'ultimo viaggio per raggiungere le camere del rigoglioso palazzo di Nut, nelle verdi foreste che ospitavano le sue sale dalle volte arboree.
Duane aveva iniziato a dimostrare i primi segni dell'età, per quanto lievi; era tra i più anziani tra gli hilm'een del Palazzo di Pietra e nella sua chioma rosso fuoco alcune ciocche bianche avevano pian piano iniziato a palesarsi.
Aderyn seguì Shea dentro i corridoi del Palazzo di Pietra, lungo quelle vie che ora vedeva piene di luci e colori, come sempre riempito dalla bellezza eterea di quel luogo. Nonostante fossero sotto terra l'aria era profumata di bosco e di sole, mentre camminavano lungo il percorso che li avrebbe portati a uno dei villaggi dentro le enormi caverne. Era usanza che hilm'een e streghe vivessero principalmente separati, quel retaggio del passato era ancora in uso per via del senso di appartenenza che gli uomini condividevano tra loro: loro erano hilm'een, coloro che vivevano nel mezzo, e in quanto tali non erano veramente figli di Nut, così come non erano più solamente umani. Erano una via di mezzo che nei secoli aveva creato le proprie radici attraverso traversie e guerre, nei tempi di pace e in quelli agitati dai venti della paura e della diffidenza. Avevano una serie di memorie in comune, il loro modo di essere ciò che erano e di vivere con le Streghe era unico, in una comunione pacifica e armoniosa, in cui Streghe e hilm'een vivevano apparentemente divisi, eppure intrecciando le loro vite in ogni singola cosa. La caccia, i lavori, ogni aspetto della vita era in comune, eppure il sangue che li accomunava, quello umano, li portava ad aver bisogno di un luogo solamente loro, dove poter ancora manifestare quella parte dei loro bisogni.
Le streghe non avevano compagni, non per come venivano intesi dagli uomini. Per dei periodi a volte brevi, a volte lunghi quanto un'intera vita, una figlia di Nut e un hilm'een si sceglievano tra di loro, ma erano donne selvagge e libere come ogni creatura della foresta, che raramente condividevano la loro vita con un compagno per più di qualche luna. D'altro canto, tra gli hilm'een s’instaurava un rapporto di fratellanza che, spesso, portava alla creazione di legami molto più profondi della semplice amicizia o del cameratismo.
Nella grande sala comune c'era musica e l'odore del cibo che saliva dalle singole abitazioni stuzzicò l'appetito di Aderyn. Il suo stomaco gorgogliò e Shea gli diede una pacca sulla schiena, ridendo.
«Vieni, avevo messo la cena sul fuoco per me e Duane, ma ce n'è abbastanza anche per te. Quando potrai uscire e cacciare, o comunque aiutare, mi ricambierai il favore. Fino ad allora non farti problemi a presentarti alla mia porta all'ora dei pasti.»
Aderyn annuì, seguendo l'altro lungo le scalinate intagliate nella pietra, dove mazzi di piccoli funghi luminosi spargevano una luce bianca e delicata. 
L'abitazione di Shea e Duane era in cima, tra le più alte. Come tutte le case degli hilm'een tanto era semplice e spoglia all'esterno, tanto l'interno era piena di colori e luce: cuscini sparsi dalle tinte accese, pareti dipinte, pelli stese su panche e mazzi di erbe appese che spargevano il loro profumo. A quanto gli era sembrato di capire, Shea era una specie di apprendista per Duane, colui che gli sarebbe succeduto, anche se non capiva bene in cosa. Accedere alle memorie non era semplice, “ricordare” era un'operazione ancora complessa per lui e molte cose erano ancora oscure, per il momento.
«Siete arrivati, credevo che mi sarebbe toccato mangiare da solo.»
«Non brontolare, sapevi benissimo che avrei trovato 'Ryn in fretta.»
Duane sorrise, prendendo una pentola di coccio dai fornelli di pietra e posandola sul tavolo. Un profumo speziato di stufato fece venire l'acquolina in bocca al giovane, che scoprì di sorridere davanti alla grossa ciotola colma che gli veniva messa davanti.
«Grazie!»
«Ricambierai, non ti preoccupare!» Il tono di Duane era leggero, divertito, mentre osservava il nuovo hilm'een.


Aderyn chiacchierava con Shea, sembravano in sintonia tra di loro agli occhi dell'altro, che socchiuse gli occhi, innalzando una preghiera a Nut.
Aveva sempre creduto che a succedergli, come Eletto della Dea, sarebbe stato Shea. Era il più promettente, splendeva letteralmente tra gli altri, ricolmo della benedizione di Nut. Eppure ora che era arrivato Aderyn sapeva, come solo lui poteva, che sarebbe stato scelto quel giovane inesperto e ancora così umano dopo di lui. Che Nut gli stesse concedendo quegli ultimi giorni in modo da iniziare Aderyn?
Spostò gli occhi su Shea, chiedendosi come l'avrebbe presa: sarebbe stato un compagno o un nemico per Aderyn? Avrebbe saputo mettere da parte l'orgoglio e l'ambizione per aiutare l'altro stando al suo fianco, nell'ombra di quello che era certo sarebbe stato il nuovo eletto di Nut?
Mangiò lentamente, ascoltando distrattamente i due che parlavano di caccia, indeciso come mai prima su cosa fosse giusto fare.
Alla sua morte Nut avrebbe espresso senza ombra di dubbio il suo favore e, per allora, Aderyn avrebbe dovuto sapere cosa significava essere l'eletto.

 

Il bosco sembrava respirare con lui mentre correva.
Senza fiato, senza accorgersene, Aderyn correva come mai aveva fatto prima.
Era la prima volta che usciva dal Palazzo di Pietra per andare a caccia e un'euforia incontrastabile si era impadronita di lui. Al suo fianco Shea sembrava volare tra il fitto sottobosco, il fogliame non si muoveva al loro passaggio, erano come spettri che non facevano nessun rumore, che non turbavano l'armonia di ciò che li circondava.
Caccia era un termine sbagliato; in realtà, stava solo correndo. Come un cane tenuto troppo a lungo alla catena, una volta liberato, aveva iniziato a correre. Non seguiva le tracce, le notava, certo, con un angolo della mente: nulla gli sfuggiva, ma nulla aveva importanza.
Correre, l'aria sul viso, il gioco della luce tra le foglie, gli odori della terra e dell'acqua, i suoni.
Frullio d'ali, cinguettii, i passi di un cinghiale e l'urlo di una lepre tra gli artigli di un'aquila.
Corse, corse a perdifiato, saltando tronchi e sassi, i suoi piedi che mai incontravano ostacoli, il fiato che esplodeva in corpo e il sorriso sul viso.
Quando davanti a lui si aprì una radura che terminava in uno scosceso burrone si fermò all'appuntito limite estremo.
«Corso abbastanza?» domandò Shea, appoggiandosi pigramente a un masso che sporgeva dal terreno, coperto di licheni e muschi, scavato come un dente solitario nella mandibola di un vecchio.
Aderyn si lasciò cadere nell'erba punteggiata di erica, allargando le braccia e fissando il cielo sereno e sgombro da nubi, annuendo. «Ne avevo bisogno...»
«Lo so, ne abbiamo tutti bisogno dopo un po'. Ora non corri quasi più rischi, stavolta ti ho accompagnato io per controllare, ma d'ora in poi direi che puoi andare dove ti pare e piace, senza problemi.» Shea si mosse, andando a sedersi vicino al compagno a gambe incrociate, i lunghi capelli d'ebano che gli ricadevano, sciolti, sulle spalle. «Cosa ha detto Nel'thi?»
Aderyn strinse le labbra. «Ha detto no, che posso tornare lì non appena sarò andato non ho capito dove. Una specie di riunione...»
«Dopo l'assemblea dei Palazzi. È una volta ogni sette anni, dopo l'arrivo dei nuovi hilm'een... ha senso, inutile fare la faccia arrabbiata. Non ti ha detto che non puoi e basta, devi solo pazientare qualche mese in più, intanto sapranno che sei vivo.»
«Ho promesso loro che sarei tornato.»
«Tornerai, non farla tanto lunga...» Shea si chinò verso il viso di Aderyn, che era accanto al suo ginocchio, dandogli un buffetto sul naso. «Solo un po' di pazienza, l'assemblea serve a far conoscere i nuovi e a far vedere loro un po' tutti. Insomma, si mangia, si beve, si scopa...»
Aderyn arrossì di colpo e Shea si mise a ridere.
«I bambini nascono così, sai? Non dirmi che non te l'hanno spiegato!»
«Idiota.»
«A volte.» La risata dell'hilm'een era divertita, ricca e profonda. «Cosa credevi servissimo, a conti fatti?»
Aderyn rimase in silenzio, per poi sbuffare e mettersi sul fianco, puntellandosi sul gomito.
«Lo so, lo so. Lo sanno tutti. Però ecco, non so...»
Shea scosse divertito il capo; arruffando poi i capelli all'altro con la mano, disse: «Non è solo quello, hai ragione, siamo coloro che stanno nel mezzo, siamo l'ago della bilancia, e probabilmente quest'anno Duane ci lascerà... non credo Nut gli concederà altri sette anni. L'assemblea è un momento di festa, ma anche il momento delle decisioni e degli avvenimenti.»
«Perché è l'eletto?»
Shea annuì alla domanda. «Sì, la dea probabilmente toglierà il compito a lui, dando a uno di noi il suo dono. Tutto è uno, tutto è in equilibrio nel grembo della Madre Nut, ma dentro di lei ci sono le forze opposte che si intrecciano, il maschile e il femminile. Per congiungersi in armonia, la benedizione della dea deve essere su entrambi e così uno di noi diventa un eletto. Nei secoli a volte comporta compiti speciali, la Dea ha sempre qualche progetto. Il primo eletto, molti e molti secoli fa, il primo riconosciuto, almeno, è stato Iraen.»
Aderys socchiuse gli occhi, alzando la mano libera interruppe l'altro che attese, osservando l'espressione concentrata del più giovane.
«Io... ricordo...» Aderyn si fermò, mentre le memorie emergevano. «È stato lui, con la regina Aislin, a riportare l'equilibrio tra hilm'een e Streghe. Lui ha... ha palesato il dono di Nut dopo la morte di Aislin, e così l'equilibrio è stato capito e riconosciuto, il suo compito è stato portare la consapevolezza e guidare gli hilm'een e le Streghe nei primi passi assieme...»
«Esatto.» Shea posò la mano sulla guancia di Aderyn, in una brevissima e lieve carezza, un tocco. «Sei sorprendente, in pochi riescono così in fretta a cogliere le essenze dalla memoria.»
Completamente assorbito da quelle immagini, da quelle conoscenze che quasi spontaneamente fiorivano nella sua mente, Aderyn non si mosse, mentre la mano di Shea continuava a sfiorare il suo viso quasi distrattamente.
«C'è anche qualcosa, succede qualcosa...» Aggrottando la fronte, concentrato, Aderyn continuò «Le streghe che in questi sette anni hanno ricevuto il famiglio fanno qualcosa. Non vedo cosa, però.»
«Perché quella memoria non è nostra. Noi sappiamo che compiono un rito, non sappiamo cosa, è la loro magia. E a proposito di magia, vieni. È ora che tu veda la nostra.»
Sbattendo le palpebre e sentendosi emergere da quelle acque in cui la sua mente era immersa, il giovane si rese conto di aver posato il capo sulla gambe dell'altro, che aveva le dita intrecciate ai suoi capelli. Si alzò di scatto, nuovamente paonazzo, mentre coglieva con la coda dell'occhio il sorriso divertito di Shea, quelle meravigliose iridi d'argento brillare di ilarità.
«'Ryn, vieni.»
Il giovane seguì Shea mentre con passo calmo tornava verso gli alberi, andando verso una sottile betulla al limitare della radura. Aderyn osservò l'altro sfiorare la sottile corteccia bianca con affetto, sorridendo. «La magia delle Streghe da cui deriva la nostra è molto più potente, è diversa. Loro sentono la voce della foresta, della vita. Il nostro a confronto è un piccolo potere, non abbiamo il loro contatto diretto, eppure anche noi possiamo sentire e chiedere, possiamo parlare. Ogni albero ha un suo linguaggio, un suo insegnamento, ha parole uniche che ci può insegnare. Vieni, sfiorala.» La mano di Aderyn si posò con delicatezza su quel tronco pallido, sentendo sotto le dita la vita della giovane betulla palpitare. «Com'è?»
«È calda... benevola...» il giovane chiuse gli occhi, ascoltando con ogni fibra del suo essere quelle sensazioni senza parole, quel linguaggio d'anima. «Forte, piena di vita, di... amore. Ama, è dolce, tenera, forte. Protegge... vuole custodire.»
«A cosa ti fa pensare?»
La risposta salì sulle labbra di Aderyn spontaneamente, immediata. «Madre...»
«La betulla è una madre amorevole: è lei che prepara il terreno per gli altri, lo purifica, la sua intera vita è dedicata al prossimo, a chi verrà dopo di lei, beneficiando del suo lavoro e del suo sacrificio. È l'energia di una madre. Sei sorprendente, 'Ryn... solo per questo a molti servono giorni e giorni. Ho visto giovani hilm'een passare settimane in meditazione sotto il loro primo albero, prima di iniziare a capirlo.»
Senza rispondere, perso nelle sensazioni che quell'albero gli comunicava, Aderyn sfiorò in lunghe carezze quella corteccia chiara, ascoltando con l'anima ciò che gli veniva detto. Era un abbraccio accogliente e consolante, si sentiva amato, voluto, accolto e protetto. Avrebbe potuto passare così un tempo indefinibile, perdendosi in quel cullare che lo confortava.
La sua mano si poggiò completamente, con il palmo aperto, su quella bianca seta, osservandone i delicati riccioli che scoprivano una corteccia più scura. Sorrise senza accorgersene, sereno e placido come le acque di una cheta fonte, chiudendo gli occhi.
Il calore del sole era una carezza sulla schiena mentre il vento giocava tra i suoi capelli, sfiorando le piccole foglie della betulla e facendole frusciare sommessamente in un sospiro di pace.
In quello stato di armonia, non capì subito quello che stava accadendo: era così perduto in ciò che avveniva fuori da sé che spalancò gli occhi, sorpreso, solo quando quella consapevolezza divenne impossibile da ignorare.
Un contatto che non si aspettava, a cui non sapeva come reagire.
Con una dolcezza immensa, le labbra dell'altro hilm'een stavano sfiorando le sue, delicate e fresche, mentre le dita accarezzavano l'ovale del suo volto in un gesto intimo e leggero, comunicando una sensualità diversa da qualunque cosa avesse mai sperimentato prima.

 

 


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