La promessa di Sherlock Holmes
Quel
giorno, quello che tutti
noi ricordiamo come quello “della grande promessa”,
era
cominciato come tutti gli altri. Come ormai mi capitava da un paio di
settimane, non avevo chiuso occhio per tutta la notte, le occhiaie
ormai cominciavano a far rabbrividire perfino Sherlock che ero
abituato a vedere restare impassibile davanti a visioni ben peggiori.
Mrs. Hudson si era presentata con la solita colazione e alla solita
ora (santa donna, se non fosse stato per lei saremmo sicuramente
morti di fame da un bel pezzo) e, trovandomi sveglio e già
seduto
comodamente sulla mia poltrona davanti al caminetto, finse di
rimanerne sorpresa, come ormai aveva imparato a fare.
Avevo fissato le ceneri nel
camino per ore, distolsi lo sguardo solo per salutare la donna e
implorarla silenziosamente di evitarmi qualsiasi domanda riguardante
il mio benessere fisico e, soprattutto, interiore. Lei
deglutì e
ingoiò il boccone amaro, tentennò per un istante
ma, alla fine,
girò i tacchi e tornò nel suo appartamento.
In quel preciso istante, come di
consueto, abbandonai la mia postazione e mi portai davanti la camera
del mio ritrovato coinquilino, bussai tre volte alla sua porta e
mormorai, debole, «Colazione!» al che tornai in
salotto, mi versai
una tazza di tè e me ne ritornai alla poltrona.
Finita la colazione, Sherlock
aveva preso l'abitudine di adoperarsi in qualsiasi modo di tenere la
mia mente impegnata il più possibile: non aveva, anzi non
avevamo,
mai avuto tanti clienti come in quelle due lunghe settimane e
Sherlock aveva imparato ad accettare anche il caso più
stupido per
poi lasciare che lo risolvessi da solo. Non sapevo come dirgli che
avevo capito fin da subito le sue intenzioni, che continuavo a
partecipare a quel suo giochetto giusto per non deluderlo e che il
suo finto interesse per lo strano caso delle 1000 sterline scomparse
(indubbiamente perse al gioco dal padre del giovane cliente che si
era presentato alla nostra porta) era visibile anche agli occhi di un
cieco. Ma, forse, lui stesso sapeva che io sapevo. O forse no,
insomma, è di Sherlock Holmes che parliamo, i sentimenti
dell'animo
umano sono una materia ancora ignota per lui, tanto che,
probabilmente, davvero pensava che tutti quei misteri risolti dal
sottoscritto mi rendessero in qualche modo felice, magari anche se
per poco.
Ovviamente gliene ero
riconoscente, in quanto sapevo come l'uomo non fosse solito farsi in
quattro per il prossimo, anche per il suo amico più fidato
quel
fatto appariva come nuovo e sorprendente. Forse la perdita di Mary e
della bambina che portava in grembo non lo aveva lasciato totalmente
indifferente come si premurava tanto di farsi vedere.
Bene, era arrivato il momento
della giornata in cui, finalmente solo con me stesso, tornavo con la
mente al dolce sorriso della mia Mary e a quella bambina che non
avrei mai potuto conoscere o tenere semplicemente tra le braccia. Mi
alzai diretto al mobile degli alcolici con un passo stanco e
malandato; quel giorno, lo ricordo come se fosse ieri, mi versai
mezzo bicchiere di vodka, richiusi la bottiglia subito dopo e feci
per tornarmene davanti al camino. Dopo neanche tre passi ci ripensai,
mi voltai e tornai indietro. Scolai immediatamente il bicchiere che
avevo ancora stretto in mano, osservai le poche goccioline
trasparenti che rimasero sul fondo, spostai lo sguardo verso la
bottiglia semi piena, posai il bicchiere e agguantai la bottiglia
nello stesso momento. Tornai alla mia poltrona e bevvi subito una
gran sorsata.
Sherlock
era uscito da poco più di venti minuti dopo aver ricevuto
una
chiamata urgente da Scotland Yard. Aveva insistito, ed eccome se
aveva insistito, affinché lo accompagnassi ma io ero stato
talmente
irremovibile che, alla fine, il grande, cocciuto e testardo Sherlock
Holmes rinunciò e me la diede vinta. Avevo l'intero
appartamento
tutto per me, cosa che non succedeva da qualche tempo, dato che il
mio amico aveva deciso di non lasciarmi da solo per più di 5
minuti.
E, vedendo le mie attuali condizioni, non potevo dargli torto. Non
voleva che arrivassi all'autodistruzione attraverso l'alcol –
non
che bevessi poi così tanto, quasi non potevo avvicinarmi
alle
bottiglie con lui nei paraggi. Ma sarei veramente arrivato a tanto?
Il medico che era in me era assolutamente contrario a quella opzione,
d'altra parte, il mio lato umano non era proprio dello stesso avviso.
La mia anima era sopravvissuta all'Afghanistan,
ma adesso si ritrovava irrimediabilmente stracciata dalla tragedia
che mi aveva colpito solamente diciassette giorni prima.
Tutto per uno stupidissimo
incidente d'auto. Rischiavamo la vita di continuo, con Sherlock,
andando dietro ad assassini, ladri, psicopatici e addirittura a dei
mafiosi. Per non parlare di Mary, che era stata per anni una killer
professionista e dietro di sé si era lasciata parecchi
nemici che la
volevano morta. Davvero, nessuno di noi avrebbe mai immaginato
così
la fine della propria vita. Nessuno. Non era stato possibile salvare
neanche la bambina. Mi ero aggrappato con tutto me stesso a quel
barlume di speranza, ma poi la faccia cupa del medico che usciva
dalla sala operatoria se la portò via.
Sherlock non era lì, ma alla
ricerca dell'auto che aveva scatenato tutto. Non gli ci era voluto
molto a risalire al proprietario, dopo qualche ora lo portò
da
Lestrade. Gliene fui grado, certo, ma, Cristo, quanto avrei voluto
averlo al mio fianco in quegli istanti in ospedale. E glielo
rinfacciai subito, il primo giorno in cui rimisi piede nel 221b di
Baker Street. E lui mi lasciò fare, mi lasciò
inveire, scalciare
contro il tavolo e lanciare un posacenere di cristallo contro la
parete che faceva già da sfondo a quell'inquietante smile
giallo
disegnato, a suon di spari, da Sherlock in un momento di noia. Mi
lasciò fare, mi parve di ricevere un silenzioso consenso a
sfasciare
l'intero appartamento; se questo mi avesse aiutato a sfogarmi e a
sentirmi meglio me lo avrebbe lasciato fare senza battere ciglio.
Ovviamente non arrivai a tanto, mi fermai dopo averlo agguantato per
il colletto della camicia e averlo violentemente sbattuto contro il
muro. A mente fredda, non so spiegarmi perché me la prendei
tanto
con lui. Lo lasciai andare e mi calmai, sentendo il suo flebile
«Mi
dispiace. Mi dispiace tanto, John». Il suo tono di voce
così basso
mi fece rabbrividire e ancora oggi non riesco a dimenticarlo. Se si
riferisse alla scomparsa di mia moglie o al fatto di non essere stato
al mio fianco nel momento in cui avevo più bisogno del mio
migliore
amico, non seppi dirlo.
Buttai giù un altro sorso di
vodka, strinsi la mano sinistra intorno al medesimo bracciolo della
poltrona e guardai fisso davanti a me, verso la seduta vuota di
Sherlock. Le nocche destre si strinsero intorno al collo della
bottiglia mentre deglutii saliva. La poltrona vuota, l'appartamento
vuoto, l'animo vuoto. Era tutto vuoto, tutto lacerato, tutto
spezzato. In quei diciassette giorni, sette ore e trentacinque minuti
non avevo provato niente che non fosse una tremenda sofferenza. Non
avevo fatto altro se non provare quell'insano supplizio, mentre
venivo trascinato sempre di più in quell'oblio buio e oscuro
nel
quale traevo rifugio.
La suoneria improvvisa del mio
cellulare mi riscosse da tutti quei pensieri. Mi guardai debolmente
intorno ma non riuscii a intravederlo da nessuna parte, in
più il
suono era lontano dal mio orecchio, questo significava che lo avevo
lasciato nella mia camera. Lasciai che squillasse, poco mi importava
sapere chi fosse o cosa volesse. Ancora un sorso di vodka. Il suono
cominciava a diventare insopportabile e insistente. Chi poteva
essere? Sherlock? Mycroft?
Alla fine mi alzai, vinto, per
andare a rispondere, ma quando mi trovai solamente a metà
del
piccolo corridoio, la suoneria si interruppe. Ottimo. Presi a
camminare per l'appartamento vuoto, avanti e indietro. Alla fine
posai la bottiglia di vodka ormai quasi vuota, non mi soddisfaceva,
non mi riempiva, non mi toglieva nessun pensiero dalla mente. Mi
muovevo davanti al caminetto, non riuscendo a fermarmi. Avevo visto
Sherlock compiere quel gesto molto spesso, lui pensava a un modo per
risolvere crimini, io pensavo ad uno che mi strappasse via tutta
quell'angoscia. Ad un tratto mi parve di percepire uno strano e
insolito scricchiolio sotto il piede destro. Cercai di non dargli
troppa importanza ma, quando tornai una seconda e una terza volta,
esattamente nello stesso punto, e sentii ancora quello strano rumore,
così diverso da quello emesso dai miei passi in qualsiasi
altro
posto della casa, non potei ignorarlo ancora a lungo. Deciso, alzai
il tappetto così da scoprire un piccolo foro e, quindi, un
piccolo
scompartimento segreto. Quel maledetto bastardo. Mi trovai davanti
alla famosa scorta segreta di Sherlock Holmes, scorta che avevo
tenuto sotto il mio naso per tutto il tempo.
Cocaina, morfina, eroina,
pasticche, siringhe... c'era davvero di tutto. Il primo istinto che
ebbi fu quello di prendere tutto per poi buttare ogni cosa nel fuoco,
lasciare che bruciassero e sperare che Sherlock se ne accorgesse il
più tardi possibile. Magari quello lo avrebbe convinto a
smettere.
Il punto è che andai molto vicino nel gettare ogni cosa nel
camino,
ma mi bloccai come fermato da una mano invisibile. Avevo afferrato la
bustina di eroina, non riuscivo a smettere di osservarla. Cominciai a
chiedermi cosa spingesse una mente tanto brillante a cercare rifugio
in quella robaccia. Dove iniziava la sua sofferenza e dove finiva il
reale bisogno che aveva di tutte quelle droghe che assumeva con
diligenza per risolvere i casi più importanti? Gli svuotava
la
mente, probabile. Sicuro lo faceva star male, dopo. Ma riusciva
davvero a liberargli il cervello? A portargli via il dolore che aveva
addosso anche se per poco? E ne valeva davvero la pena? Sentirsi
libero da ogni sentimento per svariati minuti, solo per poi
ritrovarsi peggio e più malato di prima, ne valeva la pena?
La dipendenza,
l'autodistruzione. Sapevo di non voler assolutamente arrivare a
tanto, e quella volta non era solo la mia parte di medico a parlare.
Ma... che male poteva farmi, più di quello che
già provavo io
stesso? La tentazione era forte, tutti i miei sensi sembravano
volermi spingere in quel baratro. Il vuoto che provavo da
più di due
settimane voleva spingermi in quel baratro.
Un momento dopo mi ritrovai in
ginocchio, nello stesso punto di prima, con un cucchiaio in una mano
e l'accendino acceso nell'altra. Un secondo dopo ancora tutto il
contenuto si ritrovò dentro una siringa. Come era successo?
Provo
ancora a cercare di ricordare più particolari possibili, ma
sembrano
stati completamente cancellati dalla mia mente. Avevo la manica
sinistra del maglione alzata quasi fino alla spalla, il braccio
pronto e la siringa a qualche millimetro dalla pelle. Alzai gli occhi
al cielo, respirai affannosamente chiedendomi cosa stessi facendo.
Perché lo stessi facendo. Mi domandai anche se fosse il caso
di fare
la mia lista personale, dovevo scrivergli quello che avevo assunto,
così che fosse in grado di aiutarmi una volta tornato a
casa?
Maledetto Holmes. Mi alzai e presi il primo pezzo di carta che
trovai, scarabocchiai velocemente la parola
“eroina” e lo lasciai
cadere. Era così che si faceva? Come potevo saperlo? Ripresi
la
siringa, l'ago, questa volta, poggiato sulla pelle. Ero davvero
pronto ad arrivare fino in fondo. Lo ero davvero. Ma qualcosa mi
bloccava. Guardavo l'ago, guardavo il mio braccio, guardavo le mie
vene. Era tutto così profondamente sbagliato. La morte di
Mary era
profondamente sbagliata. Quella di mia figlia lo era. Tutta quella
sofferenza lo era. Chiusi gli occhi e trattenni il respiro, cercando
di trovare un briciolo di coraggio, cercando di lasciar scivolar via
ogni emozione.
«JOHN!» Non avevo più niente
tra le mani, di quello ne ero certo. Aprii gli occhi e trovai uno
Sherlock con gli occhi fuori dalle orbite, l'espressione tesa, il
corpo rigido. Tremava, anche. Di rabbia, di paura, di freddo. Chi
poteva dirlo. «Cosa diamine volevi fare, eh? Ti sei bevuto il
cervello?» Gridava, gridava come un folle e questo
bastò a
raggelarmi il sangue. Prese a gesticolare, a guardarsi intorno
spaesato, a scuotere la testa più volte. «Se
avessi ritardato anche
solo di pochi secondi, allora tu...»
«Mi sarei drogato, sì. Mi
avresti ritrovato su questo pavimento, magari cosciente, magari no. E
saresti stato costretto a starmi dietro come io ho fatto per te tutte
le altre volte. Quindi? Qual è il problema, eh? Sherlock
Holmes può
drogarsi liberamente alla faccia di tutte le persone che tengono a
lui, ma John Watson no. John Watson è troppo debole per
resistere a
una seconda volta. John Watson deve risolvere stupidi casi senza capo
né coda così da sentirsi soddisfatto ed
orgoglioso di se stesso.
Beh, indovina un po' Sherlock? Sono stanco. Stanco di dovermi
svegliare nel mio vecchio letto, da solo. Stanco di averti intorno
come un cagnolino che cerca di far contento il suo padrone e stanco
di essere lasciato solo nei momenti meno opportuni!»
Raggelò, mi accasciai a terra,
caddi sulle ginocchia e abbassai il capo. «John...»
tentò di
sussurrare, non trovando le parole adatte da rivolgermi dopo quella
mia esplosione. Scossi la testa, per toglierlo da quell'imbarazzo o
per evitare di sentire la sua voce. Mi vergognavo, tanto. Per quella
voglia così inaspettata di eroina, per le parole cariche
d'ira che
avevo tirato fuori, per essermela presa con lui ancora una volta
senza ragione. Lo avvertii mentre, anche lui, si inginocchiava
proprio davanti a me, tra un sospiro e l'altro.
«Solamente una dose, Sherlock»,
mi ritrovai involontariamente a supplicare «una dose. Per
dimenticare, per lasciarmi andare. Anche se per poco, anche se poi
starò peggio. Ne ho bisogno.»
«No, John, non ne hai bisogno.
Non ne hai dannatamente bisogno. Non è così che
si affronta il
dolore.»
«Cosa puoi saperne», mi morsi
subito la lingua dopo quell'affermazione, anche se non ero veramente
pentito di averlo borbottato. Con gli occhi raggiunsi la siringa
caduta a terra a pochi centimetri da me, mi dissi che lui non era la
mia fottuta balia e provai allungarmi per afferrarla. Sherlock mi
intercettò, ovviamente, e mi bloccò afferrandomi
saldamente il
polso. «Lasciami Sherlock», mugugnai incerto,
completamente il
contrario di come appariva l'altro, così deciso e fermo e
irremovibile.
«Non – ne – hai –
bisogno. Ascoltami, John», strinse più forte la
presa quando provai
a voltarmi ancora verso la siringa, tornai allora a guardarlo dritto
in quegli occhi di ghiaccio, per mezzo secondo, non ressi davanti
quello sguardo neanche un istante di più.
«Non vedi come mi riduco, io, ogni volta? Credi davvero che
ti
lascerei compiere i miei stessi errori?»
La voce era calda, ferma,
gentile. Non sembrava arrabbiato o deluso, solamente preoccupato.
Rabbrividii ancora. «Perché lo fai, allora?
Mh?» Provai a metterlo
alle strette, ma lui continuò a limitarsi a fissarmi senza
emettere
il minimo suono, senza quasi battere ciglio. Sospirai, allora
allentò
poco la presa, senza però lasciarmi andare. Sentii i
polpastrelli
carezzarmi, quasi, la pelle.
«Promettimi che non proverai
mai più, ripeto, mai più a fare una cosa
simile.» Avevo guardato
il pavimento per tutto il tempo, ma, una volta sentite quelle parole,
alzai il volto mostrandomi determinato come non lo ero da tempo. Con
un movimento rapido, portai la mia stessa mano sul suo polso, dentro
di me gongolai per averlo colto di sorpresa.
«Promettimi la stessa cosa»,
spalancò la bocca, spaesato. Fece per ribattere, Dio solo sa
cosa,
ma lo bloccai sul nascere «Promettilo» ribadii con
ancora più
fermezza.
Riuscii
a percepire il battito accelerato sotto le mie dita. I nostri cuori
battevano all'impazzata, all'unisono, ed entrambi ne eravamo
consapevoli, entrambi messi a nudo da quella presa. Sentii la sua
paura, la sua ansia, forse riuscii a intravedere un po' di quella
sofferenza che si premurava di nascondere ogni giorno, ad ogni ora,
con ogni sua energia. Gli occhi brillavano di una luce strana, i miei
erano rossi, colmi di lacrime. Il respiro provava ad essere regolare,
senza riuscirci pienamente. Lo vidi abbassare gli occhi, forse li
chiuse anche per due, tre secondi. Era scattato qualcosa, dentro di
lui, dentro di me. Qualcosa di nuovo, una nuova consapevolezza, una
nuova determinazione. Alla fine alzò lo sguardo, sconfitto o
magari
sollevato. Mi parve di intravedere un barlume di felicità,
una
piccola smorfia che assomigliava ad un sorriso.
«Lo prometto.» Non fece in
tempo a dirlo, che finalmente mi abbandonai alle lacrime.
Piansi, piansi per la prima
volta dopo giorni, e lo feci sulla sua spalla, sulla sua giacca nera,
mentre con una mano mi carezzava piano la schiena, cercando di essere
rassicurante. Quella volta era lì, con me, non a dare la
caccia al
criminale di turno, non a risolvere misteri per conto della polizia.
Era lì ad asciugare il mio pianto e a vedere un po' della
mia
sofferenza scivolare via.
Buttammo via tutte le droghe
quella sera stessa, non se ne salvò nessuna. Scoprii con mio
stupore
altri due nascondigli e lo lasciai vantarsi di avermela fatta sotto
il naso per tutto il tempo della nostra convivenza. Non
toccò mai
più quella robaccia, mantenne quella promessa fino alla
fine.
Mycroft ogni tanto mi chiedeva come avessi fatto a convincerlo ad
allontanarsi da quel mondo, io mi limitavo a sorridere e a lasciar
scorrere via quella domanda.
Certo, non ci liberammo mai
veramente del nostro dolore, ma, almeno, trovammo il modo di
affrontarlo e addirittura di ignorarlo. Insieme.
Note dell'autrice: solamente due cose
-
perdonatemi
-
non odiatemi
Volevo
solamente scrivere una
drabble sulla promessa di Sherlock, poche righe, poco angst. Ma
l'idea si è sviluppata lenta nella mia mente e non ho saputo
dirle
di no. Avevo bisogno di metterla nero su bianco. E' la prima volta
che tratto di un argomento tanto delicato, spero di non essere stata
inopportuna. Soprattutto è la prima volta che scrivo sui
Johnlock,
non so neanche se sono riuscita a restare nell'IC (spero immensamente
di sì). Fatemi sapere in caso! Tra l'altro, l'ultimo pezzo
l'ho
scritto ascoltanto Doomsday Theme a ripetizione, chi conosce Doctor
Who capisce in che stato di angst ho potuto scrivere lol
Ringrazio chiunque abbia letto
fino a qui, fatemi sapere che ne pensate e come l'avete trovata,
anche se vi ha fatto schifo almeno saprò come migliorarmi.
Un bacio a tutti :*
Sà