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Autore: Chipped Cup    31/10/2016    2 recensioni
[ One Shot | Johnlock ]
Finita la colazione, Sherlock aveva preso l'abitudine di adoperarsi in qualsiasi modo di tenere la mia mente impegnata il più possibile: non aveva, anzi non avevamo, mai avuto tanti clienti come in quelle due lunghe settimane e Sherlock aveva imparato ad accettare anche il caso più stupido per poi lasciare che lo risolvessi da solo. Non sapevo come dirgli che avevo capito fin da subito le sue intenzioni [...] Ma, forse, lui stesso sapeva che io sapevo. O forse no, insomma, è di Sherlock Holmes che parliamo, i sentimenti dell'animo umano sono una materia ancora ignota per lui, tanto che, probabilmente, davvero pensava che tutti quei misteri risolti dal sottoscritto mi rendessero in qualche modo felice, magari anche se per poco.
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La promessa di Sherlock Holmes




Quel giorno, quello che tutti noi ricordiamo come quello “della grande promessa”, era cominciato come tutti gli altri. Come ormai mi capitava da un paio di settimane, non avevo chiuso occhio per tutta la notte, le occhiaie ormai cominciavano a far rabbrividire perfino Sherlock che ero abituato a vedere restare impassibile davanti a visioni ben peggiori. Mrs. Hudson si era presentata con la solita colazione e alla solita ora (santa donna, se non fosse stato per lei saremmo sicuramente morti di fame da un bel pezzo) e, trovandomi sveglio e già seduto comodamente sulla mia poltrona davanti al caminetto, finse di rimanerne sorpresa, come ormai aveva imparato a fare.
Avevo fissato le ceneri nel camino per ore, distolsi lo sguardo solo per salutare la donna e implorarla silenziosamente di evitarmi qualsiasi domanda riguardante il mio benessere fisico e, soprattutto, interiore. Lei deglutì e ingoiò il boccone amaro, tentennò per un istante ma, alla fine, girò i tacchi e tornò nel suo appartamento.
In quel preciso istante, come di consueto, abbandonai la mia postazione e mi portai davanti la camera del mio ritrovato coinquilino, bussai tre volte alla sua porta e mormorai, debole, «Colazione!» al che tornai in salotto, mi versai una tazza di tè e me ne ritornai alla poltrona.
Finita la colazione, Sherlock aveva preso l'abitudine di adoperarsi in qualsiasi modo di tenere la mia mente impegnata il più possibile: non aveva, anzi non avevamo, mai avuto tanti clienti come in quelle due lunghe settimane e Sherlock aveva imparato ad accettare anche il caso più stupido per poi lasciare che lo risolvessi da solo. Non sapevo come dirgli che avevo capito fin da subito le sue intenzioni, che continuavo a partecipare a quel suo giochetto giusto per non deluderlo e che il suo finto interesse per lo strano caso delle 1000 sterline scomparse (indubbiamente perse al gioco dal padre del giovane cliente che si era presentato alla nostra porta) era visibile anche agli occhi di un cieco. Ma, forse, lui stesso sapeva che io sapevo. O forse no, insomma, è di Sherlock Holmes che parliamo, i sentimenti dell'animo umano sono una materia ancora ignota per lui, tanto che, probabilmente, davvero pensava che tutti quei misteri risolti dal sottoscritto mi rendessero in qualche modo felice, magari anche se per poco.
Ovviamente gliene ero riconoscente, in quanto sapevo come l'uomo non fosse solito farsi in quattro per il prossimo, anche per il suo amico più fidato quel fatto appariva come nuovo e sorprendente. Forse la perdita di Mary e della bambina che portava in grembo non lo aveva lasciato totalmente indifferente come si premurava tanto di farsi vedere.
Bene, era arrivato il momento della giornata in cui, finalmente solo con me stesso, tornavo con la mente al dolce sorriso della mia Mary e a quella bambina che non avrei mai potuto conoscere o tenere semplicemente tra le braccia. Mi alzai diretto al mobile degli alcolici con un passo stanco e malandato; quel giorno, lo ricordo come se fosse ieri, mi versai mezzo bicchiere di vodka, richiusi la bottiglia subito dopo e feci per tornarmene davanti al camino. Dopo neanche tre passi ci ripensai, mi voltai e tornai indietro. Scolai immediatamente il bicchiere che avevo ancora stretto in mano, osservai le poche goccioline trasparenti che rimasero sul fondo, spostai lo sguardo verso la bottiglia semi piena, posai il bicchiere e agguantai la bottiglia nello stesso momento. Tornai alla mia poltrona e bevvi subito una gran sorsata.
Sherlock era uscito da poco più di venti minuti dopo aver ricevuto una chiamata urgente da Scotland Yard. Aveva insistito, ed eccome se aveva insistito, affinché lo accompagnassi ma io ero stato talmente irremovibile che, alla fine, il grande, cocciuto e testardo Sherlock Holmes rinunciò e me la diede vinta. Avevo l'intero appartamento tutto per me, cosa che non succedeva da qualche tempo, dato che il mio amico aveva deciso di non lasciarmi da solo per più di 5 minuti. E, vedendo le mie attuali condizioni, non potevo dargli torto. Non voleva che arrivassi all'autodistruzione attraverso l'alcol – non che bevessi poi così tanto, quasi non potevo avvicinarmi alle bottiglie con lui nei paraggi. Ma sarei veramente arrivato a tanto? Il medico che era in me era assolutamente contrario a quella opzione, d'altra parte, il mio lato umano non era proprio dello stesso avviso. La mia anima era sopravvissuta all'
Afghanistan, ma adesso si ritrovava irrimediabilmente stracciata dalla tragedia che mi aveva colpito solamente diciassette giorni prima.
Tutto per uno stupidissimo incidente d'auto. Rischiavamo la vita di continuo, con Sherlock, andando dietro ad assassini, ladri, psicopatici e addirittura a dei mafiosi. Per non parlare di Mary, che era stata per anni una killer professionista e dietro di sé si era lasciata parecchi nemici che la volevano morta. Davvero, nessuno di noi avrebbe mai immaginato così la fine della propria vita. Nessuno. Non era stato possibile salvare neanche la bambina. Mi ero aggrappato con tutto me stesso a quel barlume di speranza, ma poi la faccia cupa del medico che usciva dalla sala operatoria se la portò via.
Sherlock non era lì, ma alla ricerca dell'auto che aveva scatenato tutto. Non gli ci era voluto molto a risalire al proprietario, dopo qualche ora lo portò da Lestrade. Gliene fui grado, certo, ma, Cristo, quanto avrei voluto averlo al mio fianco in quegli istanti in ospedale. E glielo rinfacciai subito, il primo giorno in cui rimisi piede nel 221b di Baker Street. E lui mi lasciò fare, mi lasciò inveire, scalciare contro il tavolo e lanciare un posacenere di cristallo contro la parete che faceva già da sfondo a quell'inquietante smile giallo disegnato, a suon di spari, da Sherlock in un momento di noia. Mi lasciò fare, mi parve di ricevere un silenzioso consenso a sfasciare l'intero appartamento; se questo mi avesse aiutato a sfogarmi e a sentirmi meglio me lo avrebbe lasciato fare senza battere ciglio. Ovviamente non arrivai a tanto, mi fermai dopo averlo agguantato per il colletto della camicia e averlo violentemente sbattuto contro il muro. A mente fredda, non so spiegarmi perché me la prendei tanto con lui. Lo lasciai andare e mi calmai, sentendo il suo flebile «Mi dispiace. Mi dispiace tanto, John». Il suo tono di voce così basso mi fece rabbrividire e ancora oggi non riesco a dimenticarlo. Se si riferisse alla scomparsa di mia moglie o al fatto di non essere stato al mio fianco nel momento in cui avevo più bisogno del mio migliore amico, non seppi dirlo.
Buttai giù un altro sorso di vodka, strinsi la mano sinistra intorno al medesimo bracciolo della poltrona e guardai fisso davanti a me, verso la seduta vuota di Sherlock. Le nocche destre si strinsero intorno al collo della bottiglia mentre deglutii saliva. La poltrona vuota, l'appartamento vuoto, l'animo vuoto. Era tutto vuoto, tutto lacerato, tutto spezzato. In quei diciassette giorni, sette ore e trentacinque minuti non avevo provato niente che non fosse una tremenda sofferenza. Non avevo fatto altro se non provare quell'insano supplizio, mentre venivo trascinato sempre di più in quell'oblio buio e oscuro nel quale traevo rifugio.
La suoneria improvvisa del mio cellulare mi riscosse da tutti quei pensieri. Mi guardai debolmente intorno ma non riuscii a intravederlo da nessuna parte, in più il suono era lontano dal mio orecchio, questo significava che lo avevo lasciato nella mia camera. Lasciai che squillasse, poco mi importava sapere chi fosse o cosa volesse. Ancora un sorso di vodka. Il suono cominciava a diventare insopportabile e insistente. Chi poteva essere? Sherlock? Mycroft?
Alla fine mi alzai, vinto, per andare a rispondere, ma quando mi trovai solamente a metà del piccolo corridoio, la suoneria si interruppe. Ottimo. Presi a camminare per l'appartamento vuoto, avanti e indietro. Alla fine posai la bottiglia di vodka ormai quasi vuota, non mi soddisfaceva, non mi riempiva, non mi toglieva nessun pensiero dalla mente. Mi muovevo davanti al caminetto, non riuscendo a fermarmi. Avevo visto Sherlock compiere quel gesto molto spesso, lui pensava a un modo per risolvere crimini, io pensavo ad uno che mi strappasse via tutta quell'angoscia. Ad un tratto mi parve di percepire uno strano e insolito scricchiolio sotto il piede destro. Cercai di non dargli troppa importanza ma, quando tornai una seconda e una terza volta, esattamente nello stesso punto, e sentii ancora quello strano rumore, così diverso da quello emesso dai miei passi in qualsiasi altro posto della casa, non potei ignorarlo ancora a lungo. Deciso, alzai il tappetto così da scoprire un piccolo foro e, quindi, un piccolo scompartimento segreto. Quel maledetto bastardo. Mi trovai davanti alla famosa scorta segreta di Sherlock Holmes, scorta che avevo tenuto sotto il mio naso per tutto il tempo.
Cocaina, morfina, eroina, pasticche, siringhe... c'era davvero di tutto. Il primo istinto che ebbi fu quello di prendere tutto per poi buttare ogni cosa nel fuoco, lasciare che bruciassero e sperare che Sherlock se ne accorgesse il più tardi possibile. Magari quello lo avrebbe convinto a smettere. Il punto è che andai molto vicino nel gettare ogni cosa nel camino, ma mi bloccai come fermato da una mano invisibile. Avevo afferrato la bustina di eroina, non riuscivo a smettere di osservarla. Cominciai a chiedermi cosa spingesse una mente tanto brillante a cercare rifugio in quella robaccia. Dove iniziava la sua sofferenza e dove finiva il reale bisogno che aveva di tutte quelle droghe che assumeva con diligenza per risolvere i casi più importanti? Gli svuotava la mente, probabile. Sicuro lo faceva star male, dopo. Ma riusciva davvero a liberargli il cervello? A portargli via il dolore che aveva addosso anche se per poco? E ne valeva davvero la pena? Sentirsi libero da ogni sentimento per svariati minuti, solo per poi ritrovarsi peggio e più malato di prima, ne valeva la pena?
La dipendenza, l'autodistruzione. Sapevo di non voler assolutamente arrivare a tanto, e quella volta non era solo la mia parte di medico a parlare. Ma... che male poteva farmi, più di quello che già provavo io stesso? La tentazione era forte, tutti i miei sensi sembravano volermi spingere in quel baratro. Il vuoto che provavo da più di due settimane voleva spingermi in quel baratro.
Un momento dopo mi ritrovai in ginocchio, nello stesso punto di prima, con un cucchiaio in una mano e l'accendino acceso nell'altra. Un secondo dopo ancora tutto il contenuto si ritrovò dentro una siringa. Come era successo? Provo ancora a cercare di ricordare più particolari possibili, ma sembrano stati completamente cancellati dalla mia mente. Avevo la manica sinistra del maglione alzata quasi fino alla spalla, il braccio pronto e la siringa a qualche millimetro dalla pelle. Alzai gli occhi al cielo, respirai affannosamente chiedendomi cosa stessi facendo. Perché lo stessi facendo. Mi domandai anche se fosse il caso di fare la mia lista personale, dovevo scrivergli quello che avevo assunto, così che fosse in grado di aiutarmi una volta tornato a casa? Maledetto Holmes. Mi alzai e presi il primo pezzo di carta che trovai, scarabocchiai velocemente la parola “eroina” e lo lasciai cadere. Era così che si faceva? Come potevo saperlo? Ripresi la siringa, l'ago, questa volta, poggiato sulla pelle. Ero davvero pronto ad arrivare fino in fondo. Lo ero davvero. Ma qualcosa mi bloccava. Guardavo l'ago, guardavo il mio braccio, guardavo le mie vene. Era tutto così profondamente sbagliato. La morte di Mary era profondamente sbagliata. Quella di mia figlia lo era. Tutta quella sofferenza lo era. Chiusi gli occhi e trattenni il respiro, cercando di trovare un briciolo di coraggio, cercando di lasciar scivolar via ogni emozione.
«JOHN!» Non avevo più niente tra le mani, di quello ne ero certo. Aprii gli occhi e trovai uno Sherlock con gli occhi fuori dalle orbite, l'espressione tesa, il corpo rigido. Tremava, anche. Di rabbia, di paura, di freddo. Chi poteva dirlo. «Cosa diamine volevi fare, eh? Ti sei bevuto il cervello?» Gridava, gridava come un folle e questo bastò a raggelarmi il sangue. Prese a gesticolare, a guardarsi intorno spaesato, a scuotere la testa più volte. «Se avessi ritardato anche solo di pochi secondi, allora tu...»
«Mi sarei drogato, sì. Mi avresti ritrovato su questo pavimento, magari cosciente, magari no. E saresti stato costretto a starmi dietro come io ho fatto per te tutte le altre volte. Quindi? Qual è il problema, eh? Sherlock Holmes può drogarsi liberamente alla faccia di tutte le persone che tengono a lui, ma John Watson no. John Watson è troppo debole per resistere a una seconda volta. John Watson deve risolvere stupidi casi senza capo né coda così da sentirsi soddisfatto ed orgoglioso di se stesso. Beh, indovina un po' Sherlock? Sono stanco. Stanco di dovermi svegliare nel mio vecchio letto, da solo. Stanco di averti intorno come un cagnolino che cerca di far contento il suo padrone e stanco di essere lasciato solo nei momenti meno opportuni!»
Raggelò, mi accasciai a terra, caddi sulle ginocchia e abbassai il capo. «John...» tentò di sussurrare, non trovando le parole adatte da rivolgermi dopo quella mia esplosione. Scossi la testa, per toglierlo da quell'imbarazzo o per evitare di sentire la sua voce. Mi vergognavo, tanto. Per quella voglia così inaspettata di eroina, per le parole cariche d'ira che avevo tirato fuori, per essermela presa con lui ancora una volta senza ragione. Lo avvertii mentre, anche lui, si inginocchiava proprio davanti a me, tra un sospiro e l'altro.
«Solamente una dose, Sherlock», mi ritrovai involontariamente a supplicare «una dose. Per dimenticare, per lasciarmi andare. Anche se per poco, anche se poi starò peggio. Ne ho bisogno.»
«No, John, non ne hai bisogno. Non ne hai dannatamente bisogno. Non è così che si affronta il dolore.»
«Cosa puoi saperne», mi morsi subito la lingua dopo quell'affermazione, anche se non ero veramente pentito di averlo borbottato. Con gli occhi raggiunsi la siringa caduta a terra a pochi centimetri da me, mi dissi che lui non era la mia fottuta balia e provai allungarmi per afferrarla. Sherlock mi intercettò, ovviamente, e mi bloccò afferrandomi saldamente il polso. «Lasciami Sherlock», mugugnai incerto, completamente il contrario di come appariva l'altro, così deciso e fermo e irremovibile.
«Non – ne – hai – bisogno. Ascoltami, John», strinse più forte la presa quando provai a voltarmi ancora verso la siringa, tornai allora a guardarlo dritto in quegli occhi di ghiaccio, per mezzo secondo, non ressi davanti quello sguardo neanche un istante di più. «Non vedi come mi riduco, io, ogni volta? Credi davvero che ti lascerei compiere i miei stessi errori?»
La voce era calda, ferma, gentile. Non sembrava arrabbiato o deluso, solamente preoccupato. Rabbrividii ancora. «Perché lo fai, allora? Mh?» Provai a metterlo alle strette, ma lui continuò a limitarsi a fissarmi senza emettere il minimo suono, senza quasi battere ciglio. Sospirai, allora allentò poco la presa, senza però lasciarmi andare. Sentii i polpastrelli carezzarmi, quasi, la pelle.
«Promettimi che non proverai mai più, ripeto, mai più a fare una cosa simile.» Avevo guardato il pavimento per tutto il tempo, ma, una volta sentite quelle parole, alzai il volto mostrandomi determinato come non lo ero da tempo. Con un movimento rapido, portai la mia stessa mano sul suo polso, dentro di me gongolai per averlo colto di sorpresa.
«Promettimi la stessa cosa», spalancò la bocca, spaesato. Fece per ribattere, Dio solo sa cosa, ma lo bloccai sul nascere «Promettilo» ribadii con ancora più fermezza.
Riuscii a percepire il battito accelerato sotto le mie dita. I nostri cuori battevano all'impazzata, all'unisono, ed entrambi ne eravamo consapevoli, entrambi messi a nudo da quella presa. Sentii la sua paura, la sua ansia, forse riuscii a intravedere un po' di quella sofferenza che si premurava di nascondere ogni giorno, ad ogni ora, con ogni sua energia. Gli occhi brillavano di una luce strana, i miei erano rossi, colmi di lacrime. Il respiro provava ad essere regolare, senza riuscirci pienamente. Lo vidi abbassare gli occhi, forse li chiuse anche per due, tre secondi. Era scattato qualcosa, dentro di lui, dentro di me. Qualcosa di nuovo, una nuova consapevolezza, una nuova determinazione. Alla fine alzò lo sguardo, sconfitto o magari sollevato. Mi parve di intravedere un barlume di felicità, una piccola smorfia che assomigliava ad un sorriso.
«Lo prometto.» Non fece in tempo a dirlo, che finalmente mi abbandonai alle lacrime.
Piansi, piansi per la prima volta dopo giorni, e lo feci sulla sua spalla, sulla sua giacca nera, mentre con una mano mi carezzava piano la schiena, cercando di essere rassicurante. Quella volta era lì, con me, non a dare la caccia al criminale di turno, non a risolvere misteri per conto della polizia. Era lì ad asciugare il mio pianto e a vedere un po' della mia sofferenza scivolare via.
Buttammo via tutte le droghe quella sera stessa, non se ne salvò nessuna. Scoprii con mio stupore altri due nascondigli e lo lasciai vantarsi di avermela fatta sotto il naso per tutto il tempo della nostra convivenza. Non toccò mai più quella robaccia, mantenne quella promessa fino alla fine. Mycroft ogni tanto mi chiedeva come avessi fatto a convincerlo ad allontanarsi da quel mondo, io mi limitavo a sorridere e a lasciar scorrere via quella domanda.
Certo, non ci liberammo mai veramente del nostro dolore, ma, almeno, trovammo il modo di affrontarlo e addirittura di ignorarlo. Insieme.


Note dell'autrice: solamente due cose

  1. perdonatemi

  2. non odiatemi

Volevo solamente scrivere una drabble sulla promessa di Sherlock, poche righe, poco angst. Ma l'idea si è sviluppata lenta nella mia mente e non ho saputo dirle di no. Avevo bisogno di metterla nero su bianco. E' la prima volta che tratto di un argomento tanto delicato, spero di non essere stata inopportuna. Soprattutto è la prima volta che scrivo sui Johnlock, non so neanche se sono riuscita a restare nell'IC (spero immensamente di sì). Fatemi sapere in caso! Tra l'altro, l'ultimo pezzo l'ho scritto ascoltanto Doomsday Theme a ripetizione, chi conosce Doctor Who capisce in che stato di angst ho potuto scrivere lol
Ringrazio chiunque abbia letto fino a qui, fatemi sapere che ne pensate e come l'avete trovata, anche se vi ha fatto schifo almeno saprò come migliorarmi.
Un bacio a tutti :*

  
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