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Autore: Robszeru    02/11/2016    0 recensioni
Il racconto di un viaggio che porterà il protagonista a camminare per un inferno dantesco moderno e rivisitato. Una storia che racchiude segreti e intrighi, e un'avvincente battaglia in forma fantasy contro il male. Il protagonista dopo essere stato derubato del suo amore da una creatura diabolica, si troverà nella selva oscura dove incontrerà proprio Dante. Il sommo poeta lo guiderà nell'inferno per volontà divina, ma la città dolente e l'ardua impresa metterà a dura prova i due viaggiatori. Dante verrà spesso messo alle strette dai suoi stessi segreti e dal vero motivo della missione.
Genere: Fantasy, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dante Alighieri
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti
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Appuntamento all'inferno Capitolo 1. La selva oscura

"Il mondo è caduto, le tenebre hanno preso il sopravvento, il male dell'inferno si rovescerà sulla terra. Catone mi ha tradito, il motivo ancora non lo scorgo ma qualcosa ha causato il suo folle gesto. La distruzione del purgatorio comporterà eventi che non siamo ingrado di prevedere, che non siamo in grado di fronteggiare, e gli uomini sono troppo deboli per capire da che parte schierarsi. Abbiamo bisogno di un'idea, abbiamo bisogno di qualcosa che lui non ha, una vita, solo una vita può sconfiggere la morte, solo un'anima ancora nella sua casa fatta di carne ed ossa, solo un'anima caratterizzata da onore e coraggio. Ciò che è stato è stato, ciò che succederà dipende da noi. Ora, miei angeli, andate e fermate per quanto potete il male nel suo cono di tenebre e oscurità."

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la dritta via era smarrita

Sbaglierei se iniziassi il mio racconto in questo modo, e non per un sol motivo. Ma il motivo che più influenza questo punto del racconto è un fatto temporale, ovvero che io non mi trovo nel mezzo del cammino della mia vita, ben si un decennio prima dell'età a cui si riferisce questo celebre verso. Tuttavia ricordo solo il calar della notte fonda ed io segnato dalla serata, tornavo a casa barcollando. Tanto era il sonno e la stanchezza che crollai per terra senza neanche concepire come successe.

Mi svegliai forse qualche ora dopo. Frastornato e confuso mi guardai le mani, sporche di terreno umido e maleodorante. Alzai il capo verso l'alto e mi accorsi che sopra di me i rami degli alberi s'intrecciavano come a formare un tetto naturale, che mi impediva di scorgere il cielo. Le radici monumentali si piantavano al suolo quasi con violenza, come se quegli alberi fossero aggrappati al terreno viscido e irregolare. La fitta rete di querce nascondeva la profondità di quella foresta putrida e copriva ogni squarcio di luce che per pochi attimi riuscivo a cogliere. Mi sembrava quasi di non riuscire a respirare. Nel silenzio spettrale potevo sentire di tanto in tanto degli strani versi animaleschi, inquietanti e senza una precisa provenienza. Nell'aria era visibile uno strato di umidità che pareva colorarsi di rosso ogni volta che qualche raggio di sole riusciva a penetrare l'intreccio di rami. La puzza nauseabonda di putrefazione mi provocava un certo malessere, così decisi che dovevo trovare il modo di tornare alla luce, alla salvezza.

Cominciai a correre per quanto potevo, cercando di non affondare troppo i passi nel terreno spesso e pesante, e di evitare le grosse radici che sporgevano da quel che pareva un mare nero. Più volte inciampai e il mio viso toccò quel terreno in più occasioni, macchiandosi di paura. Ma non persi la speranza, mi alzavo e ricominciavo a correre, dovevo uscire da quel posto di cui ignoravo l'ingresso e il modo con cui vi entrai. Finalmente dinanzi a me, un fascio di luce mi colpì gli occhi, e prima che potessi perderlo mi fiondai nella direzione in cui nasceva. Più andavo avanti più il fascio cresceva, fino a che non riuscì a vedere una via d'uscita che si colorava della luce del sole. Mi lasciai alle spalle il buio pesto, davanti avevo la salvezza e l'incoronazione della speranza mai persa, e della tenacia.

Appena misi il piede davanti all'ultimo arbusto che mi separava dalla luce, balzò con una velocità sovrannaturale davanti a me una creatura selvaggia, una lince. L'animale con i piedi ben piantati per terra puntava lo sguardo verso di me, la sua postura era quella di un predatore che aveva in trappola la sua preda, e il suo manto era folto e ben pulito pur essendo un animale selvaggio. I colori della bestia erano sorprendentemente vivi, e nei suoi occhi riuscivo quasi a scorgere la sete di sangue. Io caddi per terra tanto era lo spavento, e con l'aiuto delle mani strisciavo indetro un pò alla volta. La creatura mi fissava attenta pronta a tendermi un agguato, ma non mi attaccava, quasi sembrava che stesse cercando di farmi ritornare nella foresta come in realtà stavo già facendo. Appena toccai il terreno viscido con le mani, ne strinsi un pò in un pugno e senza neanche riflettere, glielo lanciai sugli occhi per poi cercare di dileguarmi. La bestia però non ci cascò del tutto e prima che io potessi scappare, mi afferrò il braccio destro con la bocca staccandomi brandelli di carne. La paura era tanta che anche il dolore venne meno, ma la creatura accecata dal terreno non riuscì completamente a fermarmi, e sanguinante scappai da quella delicata situazione.

Cercavo di costeggiare i fianchi della foresta per non perdere la luce seminascosta da una collina, che poggiava le sue pendici sui confini della selva. Spaventato e ferito a un arto, avanzavo a fatica cercando di trovare un posto famigliare che mi permetesse di orientarmi, e di trovare la via di casa. Camminavo con la testa china strigendomi il braccio ferito e fù li che udiì un rumore violento, il ruggito di un leone. Mi nascosi tempestivamente dietro ad un masso e sporsi la testa per cercare la fonte di quel grido di battaglia. Proprio un Leone uscì dalla selva, e la sua maestosità era tale che il suo corpo quasi illuminava la strada su cui poggiava le grandi zampe. Quella reale bestia era così grande, troppo per un normale leone, e la sua criniera lucente non presentava imperfezioni. Un esemplare perfetto. Non sembrava lì per caso, cercava qualcosa, annusava ruggiva anche a basse frequenze, ascoltava la terra con le sue zampe, e manteneva la sua posizione come un soldato pronto a difendere il suo re. Io affannato osservai la scena con stupore, il braccio mi faceva davvero male, sentivo di diventare sempre più debole e la vista di un feroce predatore non mi aiutava.

Un tonfo richiamò la mia attenzione, un grosso arbusto si staccò dalle sue radici, e da sotto una lupa dall'aspetto mal concio e i denti macchiati di sangue, si scagliò con disperazione contro il leone. La situazione mi era ormai chiara. Il leone stava difendendo il suo territorio e attendeva il suo nemico pronto a combattere, mentre la lupa affamata cercava qualcosa da mangiare e si spinse troppo nel territorio del leone stesso. La battaglia tra le due belve fù inevitabile. Le due bestie che avevano dimensioni ben più grandi di quelle a cui noi umani siamo abituati, si scontrarono a suon di graffi e morsi, attimi di tregua utili a studiare l'avversario, e con movimenti ben coordinati si attaccavano. Il suolo sotto di loro soffriva le numerose cadute che capitavano ad entrambe le belve. Nel mezzo di quella lotta sanguinolenta il leone, molto più possente della lupa, l'afferrò per il collo con i suoi denti e la gettò vicino al masso dov'ero nascosto. Le due bestie erano talmente concentrate a battersi tra di loro che non fiutarono la mia presenza. Dovevo mettermi in salvo o lo scontro avrebbe coinvolto anche me con un finale tragico. L'unica mia salvezza sarebbe stata quella di tornare nell'oscurità della selva e allontanarmi il più possibile. Così feci dopo che lo scontro portò le due belve ad allontanarsi un pò, accucciato e in silenzio sgattaiolai dal mio nascondiglio di nuovo nella foresta, sperando che le due bestie non mi notassero.

Ero disperato, spaventato, la mia speranza di ritrovare la strada di casa si riduceva a vista d'occhio e come se non bastasse perdevo sangue. Mi inginocchiai e cascai per terra, ancora. Cominciai a pensare, perchè mi trovavo lì, dov'ero, avrei rivisto ancora i miei cari, i miei amici? Cominciai a crogiolarmi nel mio dolore e chiusi gli occhi sperando che tutto ciò fosse solo un brutto incubo.

Un rumore metallico stuzzicò le mie orecchie, alzai la testa lentamente e guardai di fronte a me. C'era una luce, non una luce solare ma qualcosa di più mistico che in qualche modo provocava quel rumore. La luce si faceva sempre più viva tanto da dovermi coprire gli occhi ancora abituati al buio, e una figura prese forma al centro del raggio. Una figura umana. Neanche quella vista mi tranquillizzò dopo quello che avevo passato, ma mi alzai, sempre tenendomi il braccio dolorante, e mi preparai a ricevere quell'uomo che pareva camminare nella luce. Prima che potessi scoprire l'anatomia del suo viso, lui Parlò "sono sorpreso, ma avrei dovuto aspettarmelo, tante cose sono cambiate, persino questa selva è diventata più faticosa". Mentre farneticava la luce si riduceva e riuscì a vederla, la sua faccia, una fisionomia non nuova ai miei occhi ma che non riuscivo a ricollegare a nessuno che conoscessi di persona. "Chi sei?" gli chiesi, "sono colui che venne prima, colui che descrisse agli uomini le terre dopo il trapasso, colui che da vivo vide la dannazione, la redenzione e la beatificazione, guidato dal massimo poeta corressi il mio destino ma non quello del mondo. Fallimentare fù il mio tentativo al cospetto della volontà divina, ma colui che mi chiamò non si arrese come il sottoscritto, cercò il suo secondo tentativo, e lo trovò. Ora giaci segnato al mio cospetto, ma non temere, sono qui per darti le risposte che cerchi" mi spiegò. Io frastornato gli chiesi ancora "perchè mi trovo qui? Cos'è questo posto?" e lui "tu conosci già la risposta ma non ne hai scorto il motivo, tu sai chi sono, ma non lo realizzi, tu hai appreso la via, ma hai paura. Le risposte che cerchi sono nella tua tasca". Mi guardai attorno ancora una volta, e poi mi toccai la tasca destra, era piena. Ne tirai fuori il contenuto, e scoprì una rosa di spine, i petali emanavano una luce rossastra e le spine piangevano gocce di sangue, come il veleno dal pungiglione di uno scorpione. Improvvisamente tutto mi fù più chiaro. "Non sei un folle e non lo sei mai stato, ma sei stato ingannato. Tuttavia, la tua poca fede non ti ha precluso dall'essere prescelto, l'inganno ai tuoi danni è stato congeniato proprio per la tua sincera umanità e sensibilità" mi disse con tono da maestro, ed io replicai "non ho mai voluto che succedesse, ma non ho avuto scelta, la sofferenza era tanta!" e lui mi rispose "sarà ancor di più se non farai niente per liberarti dall'oscurità".

Riconobbi l'uomo che mi parlava, era Dante Alighieri, e il destino e le mie azioni in qualche modo, mi portarono dove lui mosse i suoi primi passi verso la sua celebre impresa, la selva oscura. Lui era molto più alto di me e i suoi vestiti erano proprio come tutti i dipinti lo ricordano. In qualche modo le sue parole enigmatiche mi portarono a cogliere il significato di tutto quello che mi era accaduto. La rosa che portavo nella mia tasca ne era una prova, e osservandola, tutto mi tornò nella mente come un lampo di luce negli occhi. Mi ero liberato del sentimento più forte che un uomo possa provare, l'amore, e lo avevo riversato in forma di sangue in quella rosa, l'unico oggetto che tenevo in mano quando successe. "E' stato per colpa di una ragazza, soffrivo troppo per lei" dissi io, e prima che potessi continuare il sommo mi interruppe e disse, "non una ragazza ha mai avuto tale potere, poichè solo un essere può nutrirsi di tanta sofferenza e non rigurgitarla. Ciò che ti ha fatto perdere la strada è stato un artifizio diabolico, una creatura infernale, un demone del re dei dannati, che ha preso sembianze umane servendosi di una ragazza e ha corrotto i tuoi sentimenti". La ragazza di cui raccontava Dante e che io prima di lui citai, riuscì ad aprirmi il cuore con la sua dolcezza e con la sua bellezza. La sua chioma rosso splendente era sintomo del potere che risedeva nella sua anima e pian piano, cominciò a nutrirsi del mio amore e della mia energia positiva. Il nome della ragazza era Giorgia. "Aprire il cuore per buttarci dentro il veleno!" esclamò il poeta. L'artifizio di cui parlava Dante una volta compiuto il suo volere, abbandonò il suo ospite inacidendo il suo animo, e il suo aspetto. "Ora nella città dannata pieno di potere risiede, con tutto ciò che di buono ti apparteneva" Disse il sommo rivolgendosi al demone, e continuò "così come il mondo che ha perso i suoi martiri vanamente e ora risiedono tra i dannati sperando che l'umanità risponda ai loro insegnamenti, per rovesciare il giudizio divino" e io gli chiesi "cosa devo fare sommo?", e lui mi rispose posandomi la mano sulla spalla "devi prima salvare te stesso. L'inganno diabolico ti ha oscurato l'anima ma finchè terrai la rosa con te, avrai speranza". Il sommo mi spiegò che nella rosa c'era il mio amore caricato di energia negativa, un sentimento molto forte che può causare sofferenza a chi lo prova, ma che in qualche modo spaventa le creature più ripugnanti. "Se quella rosa dovesse finire nelle luride mani del demone, o del suo creatore in persona, per te non ci sarebbe più nulla da fare, continuerai a vivere dimenticando l'amore, e un'altra divina impresa fallirà" mi spiegò il sommo, "come posso rimediare?" gli chiesi scoraggiato e lui fece un sospiro e cominciò "ancora una volta sentirò i loro lamenti, ancora una volta dovrò assaporare la paura della dannazione, ancora una volta sarò al cospetto delle atrocità di cui si serve la giustizia divina, ancora una volta dovrò guardare negli occhi l'oscurità incarnata in un essere maledetto e dannato dalla mano di Dio in persona, ma che non smette ancor di portare terrore. Ti aiuterò ragazzo, e ti guiderò nella città dolente, ti traccerò la strada nelle viscere dell'inferno, perchè tu possa vedere e toccar con mano la giustizia divina, e quanto questa possa essere spietata ma giusta! Ti mostrerò i nove cerchi della dannazione, inversamente proporzionali tra grandezza e gravità dei peccati, arriveremo nel cerchio più basso e costringerai Lucifero a mostrare il suo demone, così che tu possa mettere fine ai suoi respiri e riprenderti ciò che è tuo!". Io fui per un attimo spaventato e affascinato, ma l'impresa pareva assai ardua, e come la nascita di un campo di grano in una ripresa ad alta velocità, così le domande mi sovrastarono la mente; "sommo, come farò a convincere Lucifero a mostrare il suo demone? Come ucciderò il demone?" e lui che cominciò a mostrarmi la direzione, si voltò ancora verso di me e mi disse con aria speranzosa "Te lo mostrerò", e poi dalla sua veste estraette un libro il quale mi porse con genitilezza, e continuò a dire, "Questo è il tuo diario, nel quale racconterai la tua impresa, e se vorrai potrai scriverci le tue memorie di vita passata". Fui lusingato del dono che il poeta mi avanzò, poichè quel diario simboleggiava l'esortazione del sommo nei miei confronti, a raccontare di un'altra divina impresa, come lui stesso fece a suo tempo. Quasi non mi sentivo degno di questa sorta di staffetta passata proprio tra le mie mani, e mi domandavo se anche Dante prima di me, avesse provato gli stessi sentimenti, la stessa sensazione di non essere pronto per un'avventura simile, non per paura, ma per rispetto a chi ancora in vita merita tale onore. Il fardello del destino dell'umanità, o ciò che di buono era rimasto, ora era nelle mie mani.
Io ero fermo ad ammirare il diario donatomi che aveva la copertina di pelle nera, fino a quando Dante attirò la mia attenzione dicendomi "avanza ragazzo, la strada è lunga!".
Dante mosse i suoi passi nella direzione opposta alla collina dove vi trovai le bestie, ed io diedi uno sguardo indietro un'altra volta, come a voler vedere la luce del sole prima di scendere nell'oscurità, poi seguì il sommo.

Mi affiancai a lui sempre tenendomi il braccio ferito. Dante si fermò, mi strappò la manica destra della felpa e me l'avvolse attorno alla ferita per cercare di fermare il sangue, e disse "la mia guida arrivò prima a prendermi, fui più fortunato" io lo guardai grato e lui continuò "dovrai guarirla se dovrai brandire una spada".

   
 
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