Videogiochi > Final Fantasy XIII
Segui la storia  |       
Autore: NihalDellaTerraDelVento    08/11/2016    1 recensioni
Hope è un ragazzo di ventiquattro anni. Ha una vita normale. Ma spesso sogna e vede cose strane, come se fossero ricordi. Forse non è niente, forse è il preludio a qualcosa di più.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hope, Lightning, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Corse.
Corse una distanza che parve infinita, ma il suo cuore martellante era ancora bloccato sul quel dannato marciapiede, a osservare Serah e Nora.
La fuga di Hope, tanto disperata quanto inutile, si stava rivelando un viaggio infruttuoso. Non era Serah il problema, era lui. Quelle visioni, quei flash, presi da sempre sottogamba, improvvisamente erano un macigno, un fardello che lo paralizzava.
Li aveva semplicemente sottovalutati, lo aveva fatto per una vita intera.
Erano solo l’ennesimo gioco di un bambino, un modo per sfuggire alla noia e alimentare la sua fantasia. Da ragazzo, erano una reminiscenza della sua infanzia, qualcosa che gli ricordava i sogni ad occhi aperti e i suoi desideri infantili. E, una volta uomo, non erano nulla, solo un’altra parte di sé. L’abitudine lo aveva portato semplicemente ad ignorarli. E, allora, quelli, con pressante insistenza, aumentarono, come a dire “no, non ignorarci”, come a voler comunicare un messaggio.
Si sentì stupido e piccolo come una formica, schiacciato da quello che aveva nella testa.
E, per una volta, l’università non fu più una priorità. Voleva fuggire. Voleva stare solo.
Le gambe, come indipendenti, lo guidarono, in cerca di luoghi sicuri.
In questo modo arrivò in un vecchio parco giochi.
Era deserto, a quell’ora del mattino, e mal ridotto. Gli anni, inclementi, avevano portato via qualche giostra, testimoniata ora solo da delle macchie di terra sull’erba verde. Hope lo vide con gli occhi dei ricordi esattamente com’era quando lui era solito passare lì i pomeriggi con la sua famiglia.
Si rivide bambino, testardo e capriccioso, desideroso di imparare ad andare da solo in altalena. Aveva trascinato sua madre lì così tante volte per poter imparare, senza mai volere una spinta.
E, ironia della sorte, ora che era adulto e indipendente, avrebbe davvero desiderato una piccola spinta.
Così finì di fuggire. E si sedette in quella stessa altalena, miracolosamente sopravvissuta, nella quale aveva imparato a dondolarsi.
Prese un pacchetto prima di lanciare la borsa per terra e si accese una sigaretta. La prima boccata di fumo fu, paradossalmente, meglio dell’ossigeno. Il sapore acre del tabacco bruciato sulla lingua e la sensazione del fumo aspirato lo resero lucido. Presente a sé stesso. Si incantò a guardare quelle piccole spirali prodotte da lui.

Che cazzo mi sta succedendo?

Difficile capirlo. Il suo timore più grande era di aver perso la sua sanità mentale. Era terrorizzato all’idea di impazzire. Si immaginò rinchiuso da qualche parte, un sorriso ebete in volto, a parlare di draghi e cose simili mentre la sua famiglia, accondiscendente, gli sorrideva.
No, impossibile. Scacciò il pensiero con la mano, quasi come fosse una mosca particolarmente fastidiosa.

Ma, allora, ammesso e non concesso che non sia pazzo, cos’ho?

Era come catturato dal fumo che saliva su. Era come osservare lo sciogliersi dei suo pensieri. E allora, dettato dalla logica, fece una cosa che non voleva assolutamente fare. Ogni piccola cellula del suo corpo gridava il dissenso e aveva una paura fottuta, ma, per una volta fu Hope a cercare le visioni. Ad accoglierle nella sua mente come vecchie amiche. Se voleva vederci chiaro doveva andare a fondo, non c’erano altre alternative.
Si concentrò su sé stesso, i profondi occhi chiari ancora fissi sul fumo.

Galleggiava in un vuoto nero come la pece, i pochi bagliori erano accompagnati dal rintocco di una campana. Un essere mostruoso sovrastava lui e i suoi compagni. Improvvisamente, dei legacci di luce lo afferrarono. Sentiva un terrore sordo. E poi un’altra luce, prima piacevolmente calda, dopo incandescente, si posò sul suo polso. Era marchiato, lo sapeva. Provò un dolore lancinante e dopo il nulla. Cadde, per ritrovarsi accolto da un letto di cristallo.

Era braccato, sentiva il fiato dei suoi aggressori sul collo. Non capiva, come aveva potuto la sua vita distruggersi così? Le sue gambe corte non riuscivano a tenere il passo e quegli uomini erano sempre più vicini. Allora decise di non avere paura. Si girò, arma alla mano, pronto a combattere. Non aveva più nulla da perdere.

Leggeva appunti su appunti mentre faceva calcoli al computer, un modellino, simile ad un piccolo pianeta lo fissava impaziente. Hope era frustato e al limite. Prese gli appunti e li scaraventò giù dalla scrivania.

Il vento gli scompigliava i capelli, una ragazza, una cara amica, lo guardava. Il volto era sfocato, ma intravedeva due codine rosse.
-Mi fai un favore? Continua a sorridere. Sai, vederti sorridere mi rende felice-
Rise di gusto dicendo queste parole, sapeva che la ragazza lo guardava a bocca aperta, e allora scappò via, sempre ridendo, inseguito da lei.


Il luogo dove si trovava era tutto bianco. Era stanco e vecchio come non lo era mai stato, e quello era il posto del suo esilio volontario. Urlò di frustrazione battendo i pugni su un pannello. Tutto il lavoro, tutta la sofferenza di quei mille anni era stata inutile, fine a sé stessa. Dopo fu bianco e lui si addormentò.

La foresta in cui si trovava era strana, aveva un non so che di artificiale. Stava seguendo, docile come un cagnolino, una figura. Era sempre lei, la donna dai capelli rosa. Improvvisamente, trovò il coraggio. Voleva dimostrarle di essere migliorato. Di potercela fare da solo.
-Non si tratta di essere capaci o no- le disse, convinto quanto può esserlo un quattordicenne terrorizzato.
E, per la prima volta, sentì la voce di quella donna. Calda e rassicurante.
-Tieni gli occhi aperti. Io ti copro-


TIENI GLI OCCHI APERTI. IO TI COPRO.

Si… Era vero, lei lo aveva sempre fatto. Inconsapevolmente, quella donna lo aveva protetto in ogni istante della sua vita. Ricordava sensazioni che, era certo, non aveva mai provato nulla sua vita. Ma erano sue. Lo sapeva con assoluta certezza. Ma quella donna… Chi era?
 
-Chi sei?-

Aprì gli occhi a quelle parole. Si accorse che erano uscite dalla sua bocca.
Il sole era alto nel cielo, la sigaretta solo un mozzicone tra le dita. Doveva essere rimasto lì più del previsto.
La testa era come in fiamme e Hope era tramortito. Confuso da ciò che aveva visto.
Sentiva che non erano frutto dei vaneggiamenti di un pazzo.
Non sapeva come, ma quelle cose le aveva vissute.

NO.

Quelle sensazioni le aveva provate.

NO. NO. NO.

E quella donna era reale.

-NO!!- urlò al vuoto.

Non poteva essere vero. Si rifiutava di crederlo. Non importava cosa dicesse l’istinto perché la ragione era dalla sua. Era stato un azzardo, non avrebbe dovuto assecondare quella follia. Lui era Hope Estheim, studente diligente e un ragazzo normale. NORMALE. Quelle visioni non erano lui, non lo rappresentavano né definivano. Erano solo il delirio di un pazzo e avrebbe fatto meglio a dimenticarle.
Con stizza prese la tracolla e andò a casa.
 
Una volta arrivato salutò appena i suoi genitori per poi rinchiudersi in camera sua. Non voleva parlare con nessuno. Si fiondò sul letto, digiuno e ancora vestito, e, senza neanche rendersene conto si addormentò.
Si svegliò urlando. Aveva fatto l’ennesimo sogno! E, non c’era alcun dubbio, era stato il peggiore.
Era quasi abituato a sognare cose assurde, ma quella… Quella andava oltre.
Era puro dolore.
Poche cose, arrivato a quel punto, lo avrebbero potuto stupire o scuotere così nel profondo.
Quel sogno era tra queste.
Vide sua madre.
La sua dolce mamma. Quella che ancora lo abbracciava e gli faceva una torta per merenda. Che lo chiamava “piccolo”, ignorando con insistenza i suoi 180 cm passati.
La vide morire.
La vide cadere per non rialzarsi ma più.
Il dolore che sentì in quel sogno fu indescrivibile, quasi fisico. Così potente che urlò così forte da svegliarsi in preda al terrore.
Nelle sue orecchie ancora una voce che, ora lo sapeva, apparteneva alla donna dai capelli rosa:

-Combattere senza sperare non è vivere. E’ solo un modo per morire.-

Ora era arrivato al limite. Ancora sotto shock si mise una mano tremante sul volto sudato. Tutte le sue cellule erano in subbuglio, come se conservassero l’eco del suo urlo.

-Hope! Che succede? Tutto bene?-

Sua madre lo chiamava da dietro la porta chiusa. Hope, nello stesso istante in cui udì la sua voce, si alzò con un balzò e andò ad aprire la porta. La trovò lì, preoccupata. Gli occhi di lei, gli stessi occhi di Hope, brillavano di preoccupazione. A vederla così, reduce di quell'incubo, l’abbracciò con impeto. Così felice che fosse lì e così sollevato da sentire il suo profumo.

-Si mamma. Non ti preoccupare, è stato solo un incubo idiota.-

La strinse con maggior forza. Nora era palesemente stupita. Suo figlio, così schivo e riservato, la stava davvero abbracciando? No, qui gatta ci cova.

-Ok! Non sono quel tipo di mamma che si lamenta se il figlio decide di abbracciarla, ma lasciamo perdere. Sai che puoi dirmi qualsiasi cosa, vero?-

No, non poteva.

-Si, mamma.-

-Bene. Io sarò per sempre qui per te. Ma adesso smettila con queste effusioni, che mi preoccupi. Piuttosto, la cena è pronta. Ho fatto la torta salata che ti piace tanto. Vieni?-

Guardò sua madre e capì che non poteva. Capire cosa stesse accadendo adesso era una priorità.

-No, mamma. Devo andare da… Da un mio collega. Dobbiamo confrontare degli appunti sulla lezione di oggi. Ma lasciatemene una fetta, domani la mangio.-

E così dicendo si voltò, cercando tra le sue cose. Prima, però, scocco alla madre un bacio sulla guancia. Nora guardò il figlio e alzò un sopracciglio.

-Va bene. Prima un abbraccio e dopo un bacio. Farò finta che sia una cosa normale e mi godrò il momento. Però, seriamente, dovresti mangiare.-

-Tranquilla, ma.-

-Ok..Ok.-

Nora si chiuse la porta alle spalle. Nello stesso istante Hope trovò quello che stava cercando. Un foglietto spiegazzato nella tasca dei pantaloni.
Qualunque problema, qualunque domanda, qualunque dubbio tu abbia”.
Doveva fare qualcosa, doveva sapere. Non avrebbe potuto sopportare un altro sogno del genere. La situazione gli stava sfuggendo dalle le mani. Le visioni erano diventare qualcosa più grande di lui.
Represse tutti i suoi dubbi per la sciocchezza che si stava accingendo a fare.
  Era una follia.
L’ennesima di quel giorno.
Dieci minuti dopo guidava la macchina di suo padre, il GPS l’unica compagnia.
Si ritrovò in una zona periferica, piena di piccole villette con giardino. L’ideale per le famigliole.
Parcheggiò l’auto davanti il numero indicato nel foglietto.
Scese e andò alla porta.
Esitò, per almeno cinque minuti, ma, alla fine trovò il coraggio e suonò.
Gli aprì un omone, altro quasi due metri e con gli occhi chiari scintillanti per la sorpresa.
Hope lo fissò come si fissa un fantasma.

-Ho bisogno di sapere.-




 Note dell'autore: Ho scelto di modificare la fine di questo capitolo. La fine mi stonava troppo. Dopo aver detto categoricamente "NO" Hope aveva bisogno di una forte motivazione per andare da Searh e Snow, quindi ho aggiunto la parte in cui ricorda la morte di Nora, adesso lo trovo molto più sensato. Spero di aggiornare presto coi prossimi capitoli che, devo ammetterlo, stanno aumentando rispetto ai cinque del progetto originale. Allo stesso tempo, però, non voglio dilungarmi troppo, anche se la lunghezza aumenta da capitolo a capitolo ma più scrivo e più cose sento di voler dire.
Alla prossima.
Nihal.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy XIII / Vai alla pagina dell'autore: NihalDellaTerraDelVento