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Autore: EmyNena    08/11/2016    0 recensioni
Dicono che la vita somigli a un vaso capiente. Ma bisogna comunque prestare attenzione, perché tutto quello che ci si mette dentro, prima o poi, finirà per straripare ed invadere le nostre giornate e i nostri sogni. A questo proposito in molti saggiamente consigliano di riempirlo di emozioni e sentimenti positivi, così che quello che vi sarà restituito sarà un mondo fatto di gioia infinita e colori sgargianti. Io no, io non sono mai stato saggio. Di conseguenza sapete che vi dico? Odiatela questa vita. Odiatela fino a quando vi bruceranno gli occhi per le lacrime che avete versato. Odiatela fino a quando sentirete freddo, e fame, e sete. Poi fermatevi. Respirate e guardate la forza che ha il sole sorgere di nuovo, sopra un mondo fatto di disgrazie. E… lasciate che sia bellissimo.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mi ero dimenticato, di quanto fosse sgradevole il suono della sveglia di prima mattina. Fortuna che non mi ha trovato impreparato. Ho gli occhi aperti fissi sul soffitto già da un paio d’ore, dopo una notte trascorsa priva di sogni. Ho visto nascere il chiarore innocente dell’alba, annunciare l’inizio di un nuovo giorno, mentre filtrava dagli spiragli delle persiane scese sui vetri della finestra accanto al letto, concedendomi il lusso di abituare la vista gradualmente all’aumentare della luce diurna. Così, ho potuto allungare preventivamente la mano sul comodino, per far tacere quel trillare acuto, invasivo, che ha rotto il silenzio della mia camera, prima che diventasse insistente, nel ricordarmi dell’estate ormai finita.
E’ trascorsa e si è conclusa troppo in fretta, come al solito, ed ora eccomi qui, a dare il via alla routine che accompagnerà questo nuovo capitolo della mia vita.

 < Il bagno è mio! > La voce squillante di mia sorella mi frusta le orecchie insolentemente. Sento i suoi passi che si affrettano nel corridoio, per correre in prima base, a conquistare il suo salotto delle meraviglie. Che avranno poi da fare le donne, per ore intere, nel bagno. Me lo sono sempre chiesto, ma non mi sono mai spinto ad indagare abbastanza. Evidentemente mi va bene così. Viviamo in cinque, sotto lo stesso tetto, con un solo bagno, ma abbiamo imparato mutamente a rispettare i nostri spazi, le nostre esigenze, incastrate in una sorta di schema organizzativo che va avanti da sempre.

Mi tiro su pigramente, mettendomi seduto al bordo del letto sfatto, appoggiando le piante dei piedi nudi al pavimento di legno. E’ fresco, ed è una percezione stranamente piacevole da avvertire sulla cute. E’ presto, l’alba non è trascorsa poi da molto. Avverto la tiepida carezza del sole, che filtra dalle linee dritte delle persiane, sul torso nudo, riproducendo sulla pelle ambrata il motivo geometrico delle imposte disegnato dall’ombra. Rimango così, per un pò, a crogiolarmi nel silenzio della mia camera, per dare il tempo al mio cervello di realizzare che il primo giorno di liceo, in questa nuova città, è arrivato, e sta per compiersi.
 
Decido che è ora di muovermi, solo quando butto lo sguardo verso la sveglia che segna le 06:15. Chissà perché la mattina ci lascia l’amara sensazione addosso che il tempo corra più velocemente del dovuto. Che fretta ha? Se tanto poi in quell’istituto dovremmo starci per otto interminabili ore. Rallenta, e che cazzo! Sbuffo al pensiero di dovermi dare una mossa, acciuffando una maglietta a maniche corte lasciata lì in disparte, stropicciata ai piedi del letto, dalla sera prima. La infilo senza troppe cerimonie, sollevandomi poi svogliatamente in piedi. Sento il peso della tuta scendere sulle gambe, spronata dalla forza di gravità, assicurata addosso dall’elastico che mi stringe la vita. Infilo le infradito Havaianas, e lascio la mia stanza scendendo mollemente le scale che portano al piano di sotto, dove le tapparelle sono già interamente sollevate, e la luce del giorno violenta immediatamente il mio sguardo chiaro, costringendomi ad affinarlo infastidito. Dannati occhi sensibili.
 
Mi affaccio a dare un occhiata al salone, dove mio padre è comodamente seduto in poltrona, a leggere il giornale e a bere la sua minuscola tazzina di caffè italiano. L’ho assaggiato una volta e posso assicurare che fà schifo. Fortuna che dicono che è una roba raffinata.
  Ho la voce ancora arrochita dal mutismo notturno, ma me ne accorgo solo quando apro bocca. Mio padre ha 60 anni. Nato e cresciuto qui in Arizona. E’ un uomo alto, non quanto me, ma ce ne sono pochi che vantano ancora il metro e ottanta alla sua età. Ha ancora tutti i capelli in testa, anche se li tiene corti, ma sono brizzolati come la barba curata che porta sul viso. Distrae lo sguardo nocciola dal giornale, per regalarmi un sorriso con cui mi accoglie.
 < Hey buongiorno gnomo! Il pulmino parte fra.. > controlla l’orologio che tiene al polso mancino  < Tre quarti d’ora. Mi raccomando, che l’autista parte e non fa sconti ai ritardatari! > Scuoto la testa, rassegnato, ma mi ha appena regalato il primo sorriso della giornata.
 
Ci tiene ad accompagnarci lui il primo giorno di scuola, e per calarsi egregiamente nella parte ha indossato perfino una camicia bianca con tanto di completo fumé a seguito. Questa decisione è stata occasione dibattito in diverse cene nell’ultima settimana. Io e mia sorella ci trovavamo d’accordo sul fatto che farsi accompagnare dal paparino il primo giorno di scuola, in una città nuova e in un nuovo istituto, non era il massimo, ma lui ci aveva persuaso con l’emozione che gli grondava dagli occhi e la solenne promessa di riservatezza. I patti, infatti, stabilivano che ci avrebbe accompagnato solo fino a un paio d’isolati prima dell’istituto, e poi avremmo proseguito a piedi. E alla fine, entrambi, sia io, sia mia sorella, ci eravamo arresi a quel compromesso.
 
Mi sono spostato in cucina dove mio fratello più piccolo siede a tavola con il viso assorto a leggere la scatola dei cereali. < F-f-fàbb bisogno  gi-g-g-giornaliero. > L’ho distratto con le mie dita che sono corse ad affondare nei suoi capelli morbidi e scuri, a scompigliarglieli affettuosamente. Ha alzato il visetto verso di me e mi ha sorriso. < B-b-buongiorno! > Ha esclamato felice scoprendomi nei suoi profondi occhi verdi.  < Buongiorno nanerottolo! > ho risposto io, con la voce ormai spoglia di sonno, ricambiandone l’entusiasmo.  E’ un ragazzino di 11 anni, per lui la scuola inizierà tra due giorni. Andrà in seconda media, ma si alza presto ogni mattina, e oggi non è stato diverso dagli altri giorni d’estate. Ha una corporatura gracile, un viso dai lineamenti delicati e gli occhi allungati. Gli è sempre piaciuta la fotografia, la musica, lo studio, e per questo è stato sempre vittima di bullismo. Odio la scuola per questo motivo. E’ un’istituzione che dovrebbe proteggerci, istruirci, invece ha portato Dominique a chiudersi in un mutismo depressivo per un intero anno, per poi riscoprirlo balbuziente dopo mesi infiniti di terapia.
 
Mia madre traffica in cucina, con indosso un grembiule bianco che ne fascia i fianchi generosi. E’ una bella donna. Ha 56 anni, di origine portoricana, la pelle mulatta, e i capelli scuri e ribelli, che è riuscita a domare ordinatamente in un morbido chignon sopra la nuca. Davvero poche rughe, per lo più espressive, a segnargli il volto, ma non è tutta farina del suo sacco, sono sicuro che dipenda dalle creme con cui s’impiastriccia la faccia prima di andare a dormire e appena si sveglia. Tutta roba naturale, dice lei. E’ fissata con l’omeopatia e l’erboristeria. Mi affaccio sulla sua spalla, smollandogli il primo bacio del giorno sulla guancia, abbracciandola da dietro. Ha un buon’odore, senza portare alcun tipo di profumo, forse anche quello è merito dei suoi intrugli biologici.
 < Mhh che buon profumino > furbo e ruffiano, faccio per allungare le mano su un pancake ancora in pentola, ma mi arriva una bacchettata del mestolo sulle dita
< Le hai lasciate nel letto le buone maniere stamattina? Fila a tavola > Scopro mio fratello seduto composto, sorridere, e mi accorgo che quella bacchettata ne è valsa la pena riceverla.
< Va bene, va bene mi metto seduto > sollevo le mani all’altezza delle spalle dichiarando la mia resa, e mi metto a sedere. Nell’attesa cerco di intrufolare la mano destra nella scatola di cereali, per raccattarne qualcuno, ma Dominique lo scansa via prendendo le difese di mia madre.
 < N-n-no! A-a-aspett-ta la t-tua > Si impegna a prendere la rincorsa con le sillabe < co co c-c-c-colazione! Qu-questa è m-mia! > Mia madre ci guarda con la coda dell’occhio, e sorride rigirando i pancake nella padella.
< Ruffiano! Ruffiano e cocco di mamma!> mi difendo, guadagnando una linguaccia che contraccambio, che finisce per farci ridere entrambi.
Mia madre arriva a sedare le nostre scaramucce affettuose, mettendosi in mezzo, per servirmi gli strati di pancake ricoperti da grondante e lucido sciroppo d’acero. La mia pancia brontola ricordandomi di avere fame, e io inizio a tagliare senza fretta i bocconi, per placare il mio appetito, deliziandomi della premura con cui mia madre li ha preparati.
Si siede, lei, di fronte a me, accanto a Dominique, e mi ritrovo gli occhi verdi di entrambi, a fissarmi.
< Allora, sei almeno un po’ emozionato? > Indaga.
Mangio con calma, perdo tempo nel rispondere concentrandomi nella cura maniaca con cui assaporo quel ben di dio. Ma i loro occhi mi fanno sentire con il fiato sul collo, quindi scelgo di rispondergli in un’alzata di spalle.
< Non più del dovuto. Avrei preferito che l’estate durasse di più > snocciolo, senza il minimo entusiasmo, anzi, con un velo di disinteresse che porta mia madre a crucciare lo sguardo, prima di distendere il viso in un sorriso amorevole.
 < Sono certa che ti divertirai in questa nuova scuola invece.> E tanto per avvalere la sua tesi prosegue < E mi toccherà staccare il telefono di casa per tutte le ragazzine che telefoneranno per reclamare il cuore che gli avrai spezzato. > Mia madre lascia a Dominique uno sguardo complice, e lui di rimando se la ride, affondando il cucchiaio nella sua tazza di cereali al latte, e riempendosi le guance.
< Si, certo, come no > taglio corto io, scuotendo la testa. Inutile combattere. Due contro uno non vale.
Finisco il mio piatto, mandando giù il tutto con un bicchiere di spremuta d’arancia fresca. Ripongo le stoviglie nel lavandino e arruffo di nuovo i capelli di mio fratello prima di avviarmi di nuovo al piano di sopra.
 
< Liam il bagno è libero! > incrocio Sarah sulle scale. Lei scende per fare colazione, mentre io salgo per lavarmi e vestirmi. Ci diamo il cambio. Oggi mi dà l’impressione di essere cresciuta tanto. Troppo, rispetto a ieri. Come se fossero passati almeno due anni, nel giro di una notte soltanto. Istintivamente porto la mano sul suo ventre, a frenare la sua corsa per raggiungere la cucina e bloccarla li, sulle scale.
 < Che ti sei messa in faccia?  > Ha sollevato il viso verso il mio, e mi ha travolto con il più sornione dei sorrisi.
< E’ solo un po’ di lucidalabbra e un pizzico di ombretto. Non è niente! > La passo in rassegna dalla testa ai piedi vestiti da un paio di sneakers basse. Indossa un paio di shorts troppo corti per i miei gusti, che le lasciano le gambe toniche e lunghe scoperte. Una magliettina aderente, che ne fascia le forme promettenti, e una camicia a quadri con le maniche arrotolate sugli avambracci. Un momento. Corrugo la fronte quando mi accorgo che è di parecchie taglie più grande di lei.
< Ma questa camicia è mia. E quei pantaloncini sono troppo corti. > Brontolo infastidito, acciuffando un lembo del mio indumento che ha sgraffignato molto probabilmente dal mio armadio mentre ero giù a fare colazione. Lei sbuffa, buttando gli occhi al cielo, ed io non capisco perché devo passare dalla parte del torto quando ha un armadio tutto suo pieno di robe da poter indossare. Torna con gli occhi dorati nei miei, sale di un gradino, ed è costretta comunque a mettersi in punta di piedi per raggiungere il mio orecchio.
< Te l’ho rubata. Così porto il tuo odore addosso baby, e puoi stare tranquillo che anche se dovessimo incrociare un altro predatore, ci penserà due volte prima di avvicinarsi > Il solo pensiero mi fa accartocciare la pelle dal nervosismo, cerco i suoi occhi ancora, e stavolta sul viso probabilmente porto i segni di quella frustrazione che mi corrode lo stomaco.
Lei lo capisce, al volo. Si avvicina per lasciarmi un bacio sulla guancia.
< Sta tranquillo, andrà bene! > smuove con entusiasmo, con l’emozione scolpita negli occhi.
< Non sgualcirmela.> rispondo io, come se la questione non mi toccasse minimamente.
Lei sorride, mi conosce fin troppo bene, per concedermi il lusso di pararmi il culo dietro l’impassibilità con cui mi vesto di solito. Scende a fare colazione ed io guadagno il bagno.
 
Appoggio le mani sul bordo del lavandino, e fisso la mia immagine riflessa nello specchio.
Ho lasciato crescere i capelli, che mi arrivano in un taglio asimmetrico fino alle spalle. Ricordano il colore del cioccolato fondente, o del caffè amaro. Il mio viso sta abbandonando i tratti adolescenziali, marcando la linea della mascella più definita rispetto a qualche anno prima. Il naso dritto e le sopracciglia folte. Gli occhi sono dorati come quelli di mia sorella.
Ho sedici anni, ma ne dimostro almeno una ventina. Stamattina mi sembro più grande anch’io. Sarà che sento addosso la responsabilità di esplorare per la prima volta il territorio di quel nuovo istituto, con appresso l’ingombro della preoccupazione per mia sorella. Devo stare attento, che nessuno ci riconosca per quello che siamo davvero. Devo stare attento che non ci siano altri predatori, celati fra gli umani, in cerca di rogne. Devo stare attento che nessun ragazzino si avvicini troppo a Sarah, con la pretesa assurda di reclamare le sue attenzioni di femmina. Santodio sta succedendo troppo in fretta. Sta abbandonando le spoglie di ragazzina innocente. Ha uno sguardo capace di malizia, ormai, ed io fatico ad accettarlo.
Mi spoglio dei miei indumenti, con l’ingombro di quei pensieri nella testa, infilandomi rapidamente sotto la doccia.
 
Dieci minuti dopo sto già indossando le mie jordan bianche, un paio di jeans chiari, consumati sulle ginocchia, una maglietta bianca a fasciarmi il torace, e una felpa grigia schiusa davanti al busto. Raccolgo lo zaino sulla spalla, do un bacio sulla fronte a mia madre e mio fratello, guadagnandomi uno sguardo muto e pregno d’apprensione da parte della prima, e un sorriso sconfinatamente dolce da parte del secondo. Sorrido a entrambi, con affetto, affrettandomi a guadagnare il sedile affianco a mio padre, nell’attesa di mia sorella.
Guardo mio padre sollevando un sopracciglio, automaticamente mi viene da sistemarmi il cappuccio sulla testa, in segno di scherno.  Mio padre mi guarda, e si fa più serio abbassando il tono che si fa più greve.
< Mi raccomando Liam, stalle dietro, lo sai che domina l’istinto a stento. > Sbuffo, come se stessi minimizzando la questione.
< Me lo avete ripetuto tipo mille volte, ho capito. Le starò dietro, tranquilli. > Rispondo seccato. Forse è solo in quel frangente, che mio padre si rende conto di avermi sobbarcato sempre di innumerevoli responsabilità, essendo il più grande dei tre. Sento addosso il suo sguardo crucciato, ma non mi sento in colpa. Non devo badare solo a Sarah, devo impegnarmi soprattutto tenere a freno tutto ciò che sono, e non ho la più pallida idea di come affronterò la nuova classe che mi attende stamattina.
 
Sarah si dedica a salutare con molto più slancio amorevole sia mia madre che mio fratello, facendoci perdere altre cinque minuti buoni. Alla fine si decide a salire in macchina, sui sedili posteriori e ha anche il coraggio di lamentarsi.
pigola sbuffando. E mio padre la rimbotta subito.
Io e mia sorella ci voltiamo di scatto verso di lui, e buona parte del viaggio la impieghiamo a reclamare il nostro diritto di andare a scuola in autobus.
Dopo quell’anno orribile, dove abbiamo patito tutti per il mutismo in cui si era chiuso Dominique, abbiamo deciso di trasferirci in Arizona. Abbiamo atteso la fine del semestre e non appena abbiamo ricevuto la lettera da parte dell’azienda dove lavorava mio padre, che accettava il trasferimento, siamo partiti.
In Arizona ci ha atteso una casa in periferia, dove eravamo consapevoli ancor prima di partire che non avremmo potuto raggiungere la scuola a piedi, come facevamo a Puerto Rico. Mio padre e mia madre hanno dovuto così accettare la condizione che saremmo stati più indipendenti, trascorrendo diverse ore lontani da casa, concedendoci l’autonomia dei mezzi pubblici.
 
Ho trascorso il resto del viaggio in silenzio, estraniandomi nei mei pensieri, che correvano davanti ai miei occhi riflessi nel finestrino della vettura, lasciando mio padre e mia sorella ai loro battibecchi. Un ora e mezza di macchina su per giù, prima di arrivare a destinazione. Come promesso, due isolati prima dell’istituto mio padre accosta con la macchina. Io e mia sorella ci affrettiamo a sganciarci dalle cinture di sicurezze e ad uscire fuori dall’abitacolo prima che nostro padre ci ripensi.
niente, eravamo già fuori, a lasciarci schiaffeggiare il viso dall’aria pungente del mattino.
Mi richiama mio padre costringendomi ad abbassarmi per guardarlo dal finestrino.
< Passa una buona giornata. > Finalmente, si è degnato di augurarmi qualcosa di bello invece delle solite prediche. Lo ringrazio mutamente, con un sorriso sincero, dando un piccolo buffetto sul tettino esterno della macchina, per spronarlo a partire.
 
Mentre avanzavamo verso scuolamia sorella era euforica, io un po’ meno.
< Dai Liam ma non sei neanche un po’ contento di conoscere gente nuova? > s’impegna a trasmettermi il suo entusiasmo, ma io proprio fatico a mentire, specialmente con lei.
Gli rispondo in un’alzata di spalle, mantenendo le mani nelle tasche dei jeans.
< Sono indifferente, agli umani, lo sai. >
Lei si cruccia un attimo, e subito dopo assume un’aria indispettita.
< Non sono tutti infami come quei coglioni. Anche tra quelli della nostra specie ci sono teste di cazzo. Non puoi fare di tutta l’erba un fascio. >
Sapevo a chi si riferiva ai bulletti che avevano preso di mira Dominique, infischiandosene delle conseguenze delle loro azioni. Gli avevano rovinato la vita, forse per sempre, perché nessuno ci aveva assicurato che si sarebbe ripreso dall’assalto dei suoi demoni. Io non sarei mai riuscito a dimenticare, e neanche lontanamente a perdonare quello che gli avevano fatto subire.
< Non parlare in modo così sboccato. > la rimbotto, chiudendo la questione. Lei sospira, e il resto del tragitto lo trascorre con le sopracciglia aggrottate per causa mia.
Lo so, che dovrei essere più tollerante verso gli altri, ma ho troppa rabbia ancora da smaltire, per potermi permettere di abbassare la guardia con chiunque. Dio, quanto sarà lunga questa giornata.
 
Arriviamo presto, in segreteria non c’è ancora nessuno degli studenti, e l’impiegata addetta alle nuove matricole ci accoglie al bancone con un sorriso di circostanza sulle labbra.
< Allora ragazzi, ben venuti, questi sono gli orari delle lezioni con le locazioni delle classi, e queste sono le chiavi dei vostri armadietti, noi siamo qui a vostra disposizione per chiarirvi qualsiasi dubbio. > Ci rifila tutto l’occorrente per renderci autonomi, adempiendo il suo compito. Appena fuori dalla segreteria Sarah nemmeno mi guarda, liquidandomi con una freddissima “Buona giornata”. L’ho fatta incazzare, lo so, ma ora sono troppo teso per occuparmi dei suoi sbalzi ormonali. Scuoto la testa, rassegnato, e infastidito, mi dirigo verso il mio armadietto mentre l’istituto inizia ad affollarsi di ragazzi e ragazze su per giù della mia età, tutti fomentati per l’inizio del nuovo anno scolastico. I corridoi si riempiono di risate e chiacchiericci che mi restano indifferenti.
Un ragazzo alto poco meno di me, ma forse di qualche paio di anni più grande, si dirige verso l’armadietto di fianco al mio. Mi sbrigo a leggere sul foglio che mi è stato recapitato in segreteria, l’aula nella quale devo dirigermi. Lui sistema le sue cose, coperto dall’anta di quel ripostiglio che mi permette solo di osservarne il profilo del pollice sinistro adornato da un anello d’argento a forma di pentagono. E nel richiudere l’armadietto si volta in mia direzione.
non gli do tempo nemmeno di salutarmi, di presentarsi, e di instaurare qualsiasi tipo di conversazione, perché ho chiuso tutto velocemente, e mi sono defilato nel corridoio. Non l’ho nemmeno guardato bene in viso, per non apparire interessato a intrattenermi.
 
Raggiungo l’aula destinata alla lezione di scienze. Un gruppo di ragazze spettegolano attorno ad un banco al centro della classe. Altri ragazzi, invece di disperdono nell’ultima fila, chi seduto, chi in piedi, a raccontarsi dell’estate appena trascorsa. Non bado a nessuno, seppure alcuni dei presenti si voltino a lanciarmi occhiate curiose. Occupo un banco affianco alla grande finestra che domina l’intera parete esterna della classe. Appoggio lo zaino sulla sedia vuota accanto a me, occupandola, così che nessuno possa prendervi posto.
La mia vista spazia, portandomi a cogliere al volo l’avvicinarsi di qualcuno che mi porta a poggiare il gomito sul banco, e la mano a sorreggere il viso, volandomi a guardare fuori dalla finestra in un atteggiamento schivo, facendo demordere chiunque sia, dal chiedermi se il posto accanto a me sia libero. Controllo l’ora sul display del telefono, e accorgendomi che mancano pochi attimi all’inizio della lezione, raccolgo il mio zaino per poter prendere un quaderno sul quale probabilmente fingerò di prendere appunti. Appena sposto lo zaino, dalla sedia al banco, mi ritrovo una ragazza seduta affianco.
Merda. Si è anche già seduta. Vaffanculo.
Ho ceduto, sperando mentalmente che non sia una di quelle ragazzine che parla a manetta, anche se considerando il modo in cui si è avventata, mi ha lasciato dei presupposti spiacevoli.
 
Ma ho avuto tempo di ricredermi, perché una volta che è entrata l’insegnante, non mi ha degnato di uno sguardo, né di una parola, ed è rimasta concentrata sulla lezione. Tanto che mi sono ritrovato spesso a rimirarne il profilo di nascosto, con la coda dell’occhio. Ha la fronte alta, celata dietro una frangetta che arriva fino alle sopracciglia. I capelli castani, lasciati sciolti composti in ciocche ondulate che corrono lungo la schiena. Sembrano morbidi, tanto che avverto l’esigenza di sentirli sotto le dita, ma ovviamente evito. Lo sguardo nocciola, vispo, curioso sottolineato dalla matita scura che si alterna dal quaderno alla professoressa che scrive alla lavagna. Ha un nasino minuto, e una bocca a forma di cuore sporcata da un velo di lucidalabbra. Porta addosso un buon’odore, sa di vaniglia, ma non è stucchevole come tanti profumi che portano le ragazze. Finita la lezione, ci apprestiamo entrambi a sistemare i quaderni nello zaino. Ma prima di alzarsi si volta verso di me tendendo la mano per presentarsi.
< Piacere comunque, mi chiamo Mia > Ha una voce morbida, e il sorriso ad incurvarne le labbra piccole e carnose.
Sposto lo sguardo dalla sua mano protesa, ai suoi occhi solari, prima di afferrare le sue dita
Doso la presa di quella stretta non appena mi accorgo dell’imbarazzo nel suo sguardo. Oddio, forse ho stretto troppo. Sciogliamo la presa entrambi, e io per sollevarla dal rossore di cui gli si sono vestite le guance, distraggo lo sguardo altrove, sollevandomi in piedi per primo.
< Allora ci si vede Mia, buona giornata > zaino in spalla, e mi appresto ad abbandonare l’aula. Con la coda dell’occhio mi accorgo che alcune ragazze gli si avvicinano. Al terzo anno probabilmente conoscerà già tutti in questo istituto.
 
Mi ritrovo fuori nel corridoio dove i ragazzi si muovono per il cambio dell’aula. Il foglio rilasciato dalla segreteria dice che ho un quarto d’ora prima di iniziare Teologia. Consulto in quale aula ha appena finito la lezione mia sorella. La raggiungo, affacciandomi alla sua classe, come sospettavo siede sul banco accanto ad una ragazza della sua età, dall’aria troppo fashion per i miei gusti. Affianco a loro, due ragazzi, in piedi che elargiscono sorrisi ammalianti e io mi domando dove vogliono andare a parare. Sarah mi guarda, mentre la spio appoggiato allo stipite della porta, e sprigiona un sorriso raggiante. Beh? Gli è già passata l’incazzatura? Scende dal banco in un balzo sinuoso, e si avvicina con fare troppo felino.
 
< Che intenzioni hai? > parlo basso quando ormai si è avvicinata tanto, troppo, finendo per appoggiare le labbra sulle mie in un bacio casto, che però ha attirato l’attenzione di tutti i presenti. Odio quando fa così, e lo sa. Un vizio che non si è mai tolta da quando eravamo bambini. Mi prende in contropiede perché non mi piace fare scenate davanti alla gente. La imbruttisco, lasciandogli capire che ce la vedremo, poi, a casa. Ma lei mi spiazza e mi pietrifica sul posto in quelle parole appena sussurrate che mi lascia all’orecchio.
< Portami via da qui, uno di quei due è un Lupo, penso che mi abbia fiutata. > Mi irrigidisco all’istante, spostando gli occhi verso i due tizi. Sento le pupille che si dilatano ferocemente nel cogliere ogni dettaglio di quelle due figure ancora in piedi, e ci metto meno di un attimo, a raggiungere con lo sguardo quell’anello a forma di pentagono sul pollice di uno dei due. E finisco per imbattermi in un paio di occhi azzurri, profondi, spettrali, sotto un taglio corto di capelli scuri e il profilo del viso rifinito da un velo di barba che inizia ad accennarsi lungo la mascella.
Merda. Il lupo, ha l’armadietto accanto al mio.
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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