Serie TV > Forever
Segui la storia  |       
Autore: Claire77    08/11/2016    3 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

6
After death

 
 
Il capitano Reece entrò nel proprio ufficio dopo un’ennesima nottata in bianco a leggere rapporti, fare schemi, sintetizzare ipotesi. Da quando Jo era morta, un enorme peso era calato sul suo stomaco e non riusciva più a liberarsene. Continuava a pensare che avrebbe dovuto stare più attenta. Era un suo detective, quello che era stato aggredito in maniera così sprezzante delle leggi. Avrebbe dovuto dare retta a Jo ed Henry, che sin dall’inizio erano persuasi della colpevolezza di Elliott, ed essere più aggressiva nei confronti del senatore. Invece si era lasciata mettere sotto pressione dai superiori, dalla stampa, dalla paura per la propria carriera.
Si sedette alla sua scrivania sorseggiando un sorso del caffè che aveva in mano. Non fece in tempo a far partire i propri pensieri organizzativi per la giornata, che squillò il telefono.
“Capitano Reece”, disse, rispondendo.
“Sono Isaac Monroe”, si presentò la voce dall’altro capo del filo, “Mi scusi se la disturbo a quest’ora, capitano. Volevo solo sapere se c’erano novità”.
Il capitano sospirò.
“Purtroppo no, signor Monroe. Stiamo facendo tutto il possibile, ma… non abbiamo ancora alcun elemento concreto in mano”.
Ci fu qualche secondo di silenzio da parte del signor Monroe.
“Va bene. La ringrazio… mi farà sapere quando avrete risolto il caso, vero?”
“Certamente, signor Monroe. Sarà uno dei primi a saperlo”, lo rassicurò il capitano.
“Grazie. Allora la saluto. A presto”. Il signor Monroe riattaccò e il capitano Reece fece lo stesso. Erano anni che non si sentiva così sfinita. Come se la sua frustrazione per la mancanza di prove non fosse già stata abbastanza, si aggiungevano anche pressioni e telefonate come quella del signor Monroe.
Reece chiuse gli occhi per un istante per raccogliere i pensieri e fece per accendere il computer, quando si accorse che era già acceso. Posò la tazza sulla scrivania, interdetta. La schermata iniziale era accesa e c’era un file sconosciuto che spiccava nel bel mezzo del desktop: un_nuovo_omicidio_per_il_senatore_elliott.mp3. La mano di Reece corse al mouse ma poi esitò, dubbiosa: se si fosse trattato di un virus, di un trojan per craccare la rete della polizia di New York? Come aveva fatto quel file a entrare nel suo computer? Chi era riuscito a bypassare la sua password? Fu tentata di chiamare la sezione informatica e chiederle di analizzare il computer prima di eseguire il file, ma la sua denominazione continuava a lampeggiarle davanti agli occhi: un nuovo omicidio per il senatore Elliott. Senza pensarci troppo, prima di cambiare idea, cliccò sul file e fece partire l’audio.
“Avanti”, disse la voce del senatore Elliott. L’audio era leggermente disturbato, o meglio attutito, come se la fonte della registrazione si fosse trovata sotto a un altro oggetto che ne copriva il microfono. Ma la voce era inconfondibilmente quella di Elliott.
“Dottor Morgan”, continuò la voce con una leggerissima punta di sorpresa, “Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
Il capitano Reece fermò la registrazione, improvvisamente agitata. Un presentimento, un brutto presentimento, si fece strada nel suo petto. Si alzò di scatto e quasi corse alla porta del proprio ufficio:
“Hanson!”, gridò, rivolgendosi al detective che si era appena seduto alla propria scrivania, “Hanson!”
“Capitano…?”, chiese lui confuso, facendo cadere un paio di carte dalla scrivania a causa dell’urgenza del suo tono.
“Vieni qui, subito!”
Hanson ubbidì, perplesso. Reece tornò rapidamente dietro alla propria scrivania e fece ripartire l’audio dall’inizio.
“…. Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
“Dall’ingresso”, rispose Henry con il suo inconfondibile accento inglese.
“Ma che cazzo…?”, borbottò Hanson, e si appoggiò alla scrivania sporgendosi verso il computer.
“… perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”, continuò la voce di Henry.
Sia Reece che Hanson trattennero il fiato, e probabilmente anche il senatore Elliott, perché impiegò qualche secondo prima di rispondere.
“Dottor Morgan, non so a quale gioco lei stia giocando, né che cosa voglia insinuare con la sua domanda. Non ho idea di che cosa lei stia parlando.”
Cristo Santo, pensò il capitano. Appoggiò i gomiti sulla scrivana e strinse le mani a pugno davanti a sé. Che cosa aveva fatto Henry?
“…Che ormai aveva vinto”, stava dicendo Henry. “Lei è un uomo furbo, e intelligente. Per questo sono venuto qui a chiederle, per pura curiosità personale, come mai ha fatto una mossa così stupida come far uccidere la detective Martinez”.
Hanson stava sudando. Si allentò il nodo della cravatta e quasi si sdraiò sulla scrivania, come se avvicinandosi al computer potesse in qualche modo avere controllo su quella conversazione.
“…. sperando che cosa? Che io mi comprometta con qualche affermazione? Come se non sapessi che lei ha un microfono addosso. Senza contare che, ipoteticamente parlando, si tratterebbe di una confessione non valida in tribunale”. Non c’erano volti da studiare, ma il capitano sospettò che quello del senatore stesse diventando terreo. Il suo tono era falsamente tranquillo, quando in realtà stava trasudando rabbia.
“Mi perquisisca pure”, disse Henry.
Alcuni suoni si sostituirono alle due voci: una porta che si chiudeva, il rumore lievissimo di una sedia che veniva spostata, il fruscio di tessuto che strusciava contro tessuto. “È pulito”, disse una terza voce che né Hanson né il capitano riuscirono a identificare. Da dove viene la registrazione, allora?, fece in tempo a pensare Reece prima che le voci ricominciassero a parlare.
“… la mia è una curiosità personale”.
“Confesso che sono stupito… Ma la tolga a me, una curiosità: una volta ottenuta… come possiamo dire? Una volta soddisfatta la sua curiosità, dove crede di andare, esattamente?”
“Probabilmente sotto terra”.
Hanson ebbe uno scatto involontario e per poco non fece cadere per terra la lampada. Si passò una mano sul viso per togliersi il sudore che gli colava lungo la fronte.
“… Un sociopatico narcisista, probabilmente. È dotato di acuta intelligenza, capacità di analisi e di adattamento, ma è anche narcisista, egocentrico, manipolatore, con totale mancanza di empatia. Non riesco a spiegarmi come una personalità come la sua si sia lasciata prendere dalla rabbia così facilmente”.
“Cazzo”, borbottò Hanson, “Oh cazzo”.
“Che diavolo sta blaterando?”, la voce del senatore si alzò di una tacca. Il capitano non si perdeva una sillaba, come ipnotizzata. Stringeva così forte i pugni che le unghie le si erano conficcate nei palmi. “…Non è una prova valida in tribunale”.
“… Immagino che il problema siano i suoi scoppi d’ira, vero? Non sopporta le provocazioni. E Sarah l’aveva provocata, vero?...”
“Quella stupida puttanella”, il tono di voce di Elliott era cambiato così all’improvviso che sia Hanson che il capitano sobbalzarono. Henry lo stava provocando intenzionalmente e lui stava crollando.
“Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”, chiese ancora Henry. La sua voce era incrollabilmente calma, come se stesse parlando del più e del meno. Di fronte a una tale freddezza, il capitano Reece percepì un brivido lungo la schiena.
“Perché quella stronza non avrebbe mai lasciato perdere”, rispose Elliott aggressivo. Hanson trattenne il respiro, e il capitano raddrizzò la schiena, all’erta, per non perdersi neanche una parola: era una confessione. Era un’ammissione bella e buona.
Un silenzio carico di cattivi presagi alleggiò nella stanza, interrotto solo dal brusio di fondo della registrazione.
“Bene, la ringrazio per la sincerità”.
“Sono lieto di essere riuscito a soddisfare la sua curiosità”. Il tono di Elliott non poteva trasudare più pericolo neanche se lo avesse minacciato apertamente di morte.
“… Di solito è Nick che si occupa di queste cose, ma nel suo caso mi sembra giusto farlo personalmente. Si è guadagnato il mio rispetto, con la sua faccia tosta”.
“Quale onore”.
Hanson si allontanò dalla scrivania come a voler scappare da quello che entrambi sapevano sarebbe arrivato.
“…chiederò a Nick di essere più creativo, questa volta”.
Ci fu un momento di silenzio così carico di minaccia che la minaccia stessa sembrò aleggiare dal computer verso di loro.
Bang.
Quel rumore esplose nella stanza e parve aleggiare nell’aria anche per parecchi secondi dopo che si era consumato. Sia Hanson che Reece rimasero immobili, pietrificati. Quello che stavano ascoltando non poteva essere successo davvero.
Bang.
Un secondo sparo li fece sobbalzare come se l’arma fosse stata puntata contro la loro testa. Hanson si portò una mano alla bocca. Il capitano fissò il vuoto, immobile.
“Sbarazzati del corpo”, disse il senatore Elliott, la voce calma e neutra come se avesse detto vai a prendermi un caffè doppio. Si udirono rumori indistinti, qualcosa di pesante che colpiva terra, un mobile che veniva spostato, una porta che si apriva, qualcuno che ansimava. Poi, con uno strano suono metallico che assomigliava all’agganciare di una cornetta del telefono, la registrazione si interruppe. Nello stesso istante, sul desktop del computer si aprì una finestra e delle parole comparvero velocemente: avete 24 ore per l’incriminazione per vie legali, altrimenti questa registrazione verrà spedita a tutti i giornali, siti web e network del pianeta. Il capitano e Hanson ebbero appena il tempo di leggere quella riga di testo che la finestra scomparve con un din.
Un silenzio agghiacciante calò su di loro. Hanson, con gli occhi lucidi, respirava affannosamente come nel tentativo di calmarsi. Il capitano sentiva una gelida furia montare all’interno del suo petto. Lentamente, con le mani appoggiate alla scrivania che le tremavano, si alzò.
“Hanson”, disse, la voce che trasudava rabbia, “Chiama il procuratore legale. Chiama l’FBI. Chiama anche il presidente e il papa, se è necessario, ma…”, si interruppe per controllare il proprio tono, “Voglio un cazzo di mandato di arresto per quel figlio di puttana. ADESSO.”
 
“Il problema è che Elliott ha ragione”, disse il procuratore legale dopo aver ascoltato la registrazione, “Non è una prova valida in tribunale. È una confessione estor…”
“Non me ne frega un cazzo se la prova è valida o no”, lo interruppe il capitano Reece, con un’aggressività tale che il procuratore legale quasi si premette contro lo schienale della sedia per allontanarsi da lei, “Come se fosse la prima volta che una confessione viene estorta o registrata di nascosto. Non mi importa come, ma voglio un mandato di arresto. SUBITO. Quel bastardo ha ucciso due dei miei uomini.”
“Signora Reece, capisco la sua rabbia, ma…”
Capitano Reece”, lo corresse Reece ancora più furibonda, “E tanto per la cronaca, un hacker ha craccato il sistema. Ci ha fatto sapere che se Elliott non verrà arrestato entro ventiquattro ore, provvederà a far avere la registrazione alla stampa. Ora, a lei la scelta”, il tono del capitano si abbassò di qualche tacca, e si fece ancora più minaccioso, “Provocare uno scandalo, mostrando le lacune e l’incompetenza dell’ufficio del procuratore che non ha saputo incriminare un uomo per due omicidi, oppure arrestarlo cercando di mitigare i danni, e dimostrare come la giustizia non faccia sconti per nessuno”.
Il procuratore tenne a freno la lingua di fronte a quello scenario. Se si fosse sparsa la voce che lui aveva agito in maniera negligente nelle sue indagini perché il sospettato era un senatore, la sua carriera sarebbe stata rovinata.
“Le farò avere il mandato al più presto”, concesse alla fine, “Ma ci vorrà qualche ora. Non sarà facile trovare un giudice disposto a firmarlo.”
“Lo trovi e basta”, sibilò Reece, battendo un pugno sul tavolo, “Subito”.
 
Quando il mandato arrivò, il capitano Reece volle eseguirlo personalmente. Hanson era al suo fianco, con le manette già in mano, pronto a usarle. Entrarono dalla porta principale e si recarono direttamente nell’ufficio di Elliott, ignorando le proteste delle guardie di sicurezza, i tentativi di fermarli del personale, e le obiezioni dell’avvocato del senatore che, casualmente, si trovava lì.
“Christopher Elliott”, disse il capitano Reece non appena entrò nell’ufficio, con Elliott già in piedi, indeciso se sfoderare un sorriso di circostanza o affrontarli di petto, “La dichiaro in arresto per l’omicidio di Henry Morgan e Jo Martinez. Ah, e di Sarah Conrad”.
“Che cosa state blaterando?”, gli occhi di Elliott schizzarono fuori dalle orbite, ma nonostante tutto trovò l’arroganza di indirizzare verso di loro un sorriso di sufficienza, “Con quali prove?”
“Una registrazione dell’omicidio del dottor Morgan le è sufficiente?”, ribatté il capitano fissandolo con uno sguardo di ghiaccio, “Detective Hanson, mostri al senatore il mandato e gli legga i suoi diritti”.
“Registrazione?”, ribatté Elliott basito, e in un istante la sua aria di sicurezza scomparve, “State mentendo. Non avete nessuna registrazione. È impossibile.”
“Ha il diritto di rimanere in silenzio”, Hanson intanto si avvicinò al senatore e con rabbia malcelata gli strinse le manette ai polsi, “Qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale…”
“Perché ha fatto perquisire il dottor Morgan prima di confessare?”, il capitano Reece raddrizzò le spalle per poter guardare Elliott dritto negli occhi, “Forse avrebbe dovuto fare meglio i compiti a casa, signor Elliott”, tralasciò appositamente il titolo di senatore per irritarlo, “Il dottor Morgan era uno dei nostri migliori collaboratori. Un tipo astuto. Tirava sempre fuori qualche asso nella manica. Ha fatto male a sottovalutarlo”.
“… gliene sarà dato uno d’ufficio”, concluse Hanson, e senza troppe cerimonie spintonò il senatore fuori dall’ufficio.
“Questo è abuso di potere”, esclamò Elliott mentre lo conducevano lungo il corridoio, “Vi farò causa. A voi e all’intero dipartimento di polizia”.
“Faccia pure”, disse il capitano, sprezzante, “Tanto avrà un sacco di tempo libero, in prigione”.
 
Il capitano Reece si sedette alla sua scrivania, improvvisamente calma dopo settimane di turbamento. Mai, come in quei giorni, si era sentita così offesa e arrabbiata, e mai aveva sofferto così tanto per la perdita dei suoi uomini. Quando avevano trovato tutto quel sangue di Jo, l’immagine della detective, morente o cadavere, le era balenata davanti agli occhi e per qualche istante aveva temuto di perdere il controllo di sé. Avrebbe voluto gettare alle ortiche qualsiasi principio, andare dal signor Elliott e dal suo sorriso di sfida e sparargli un colpo in testa. La soddisfazione, brevissima, che aveva provato quando aveva udito quel nastro con la confessione del senatore era rapidamente precipitata nell’orrore quando aveva sentito quei due spari, e poi quella voce, che ora le era insopportabile anche solo udire: sbarazzatevi del corpo. Il corpo. Aveva detto la stessa cosa, quando aveva fatto uccidere Jo? Quei corpi di cui lui parlava con tanta indifferenza erano state due delle persone più straordinarie che avesse mai conosciuto. Perdere Jo era stata dura, perdere anche Henry era stato come perderla di nuovo. Perché Henry e Jo erano colleghi, partner, una coppia investigativa perfetta, che inconsciamente erano stati registrati nell’immaginario collettivo come una coppia inseparabile. Dopo la morte di Jo, Henry era quello che rimaneva di lei. Anche dopo che aveva dato le dimissioni. Ma adesso che anche Henry era morto… Jo se n’era andata, definitivamente. Tutti e due, non c’erano più.
Il capitano si accorse di avere gli occhi lucidi di dolore e di rabbia. Era abituata all’idea di perdere le persone, era normale, in quel lavoro, ma perderne due così speciali, insieme, per mano di uno stronzo senza scrupoli… l’unica sua consolazione era sapere che quel figlio di puttana aveva avuto quello che si meritava. Grazie a Henry. Se non altro, aveva ottenuto quello che sperava con il proprio sacrificio.
Reece strinse involontariamente i pugni, e respirò a fondo. Henry e Jo sarebbero rimasti per sempre nel suo cuore come due dei migliori agenti con cui aveva mai avuto la fortuna di lavorare. Ma ora era tempo di andare avanti.
Abbassò gli occhi sulla scrivania, e solo allora si accorse della busta bianca appoggiata contro il portapenne. Il capitano la prese, perplessa. Non c’era timbro postale, né il nome del destinatario scritto sul retro.
Dopo aver appurato che, dato il peso e le dimensioni, la busta non poteva contenere nulla di pericoloso, il capitano la aprì. All’interno c’erano un biglietto aereo e un foglio di carta scritto a mano.
Spero solo che con il tempo capirà perché l’ho fatto e trovi la forza di perdonarmi. Sotto, un indirizzo: Skyhall, Dorset, Regno Unito.
Il biglietto aereo era datato per venerdì, due giorni dopo: New York – Londra Heathrow. Il capitano stava cercando di capire chi poteva aver scritto il biglietto e per quale motivo, e come era arrivato sulla sua scrivania, quando Hanson entrò, agitato, nel suo ufficio.
“Capitano, guardi cosa ho trovato sulla scrivania”, e le mostrò una busta bianca, identica alla sua. Il capitano sollevò a sua volta la propria busta e il proprio biglietto.
Skyhall, Dorset, Regno Unito, c’è scritto sul mio biglietto”, lesse Hanson ad alta voce, “Che significa?”
“Non ne ho idea, Hanson. Mi stavo chiedendo la stessa cosa”, il capitano si alzò in piedi, percependo un presentimento a cui non riusciva a dare una forma precisa, “Non ha nessun senso. Da dove arrivano questi biglietti? Non sono stati spediti per posta. E chi sarebbe il mittente? Non abbiamo legami con l’Inghilterra.” Si interruppe, riflettendo che però non era del tutto vero. Avevano un legame con l’Inghilterra.
“Henry è… era… inglese”, disse Hanson, e la voce gli si spezzò quando dovette usare il verbo al passato.
“Non può esserci un collegamento”, ragionò Reece ad alta voce, “È una coincidenza. E che io sappia Henry non ha parenti. O sì?”
“Non saprei”, ammise Hanson, “In effetti, adesso che ci penso, non ne ho idea. Forse Lucas… lui forse sa qualcosa. In fondo lavorava con Henry già da prima.”
“E poi il messaggio”, continuò il capitano, “Spero solo che con il tempo capirà perché l’ho fatto e trovi la forza di perdonarmi. Che significa?”
“Posso?”, chiese Hanson prendendo il biglietto del capitano, “Strano. Il biglietto aereo è uguale, ma il messaggio è diverso. Il mio dice: Mi dispiace molto, ma ho dovuto farlo. Spero che capirai e mi perdonerai.
“Il concetto è lo stesso, ma con parole diverse”, osservò il capitano.
“Capire che cosa? Perdonare chi?”, domandò Hanson a sua volta.
“E poi i pronomi”, proseguì Reece, “Nel tuo messaggio usa il tu, mentre nel mio il lei”.
In quel momento, entrambi furono attraversati dallo stesso pensiero, ma avevano tutti e due troppa paura ad ammettere quella possibilità: sperare sarebbe stato troppo doloroso.
“Jo… il suo corpo…”, disse alla fine Hanson, quasi sottovoce, “Non è mai stato ritrovato…”
“Henry stesso aveva detto che con tutto quel sangue era impossibile che fosse sopravvissuta”, obiettò il capitano, “Se ci fosse stata una possibilità, anche una sola…”
“… neanche il cadavere di Henry è stato ritrovato”, continuò Hanson.
“Hanson, hai sentito anche tu la registrazione”, lo interruppe il capitano, sospirando di stanchezza, “Henry è morto, punto. Purtroppo lo scagnozzo di Elliott deve aver fatto un buon lavoro, per questo non troviamo il cadavere”. Quando disse cadavere percepì una sensazione acida allo stomaco, e si fermò un istante.
“Ma… Jo?”, replicò Hanson, con i suoi occhi che, pian piano, si accendevano di speranza: “Il suo … corpo… ormai non avremmo dovuto trovarlo?”
“Anche quello, purtroppo, sarà stato nascosto bene”, disse il capitano sconsolata.
“Ma allora, questi due messaggi?”, chiese Hanson rileggendoli poi ad alta voce, “Chi li ha scritti, perché? Che cosa ha fatto che deve essere perdonato?”
“Non lo so, Hanson”, ammise Reece con rassegnazione, “Forse è solo uno scherzo”.
“Uno scherzo che include due biglietti aerei da mille dollari l’uno?”, ribatté Hanson.
“Beh…”, stava per dire il capitano, ma Hanson continuò:
“C’è un solo modo per scoprirlo, signora.”
 
Appena scesero dall’aereo furono investiti da un vento così freddo che si sentirono tagliare in due.
“Cazzo”, borbottò Hanson stringendosi nel cappotto, “Non mi lamenterò mai più del freddo di New York”.
Lui e il capitano avevano parlato ben poco nel corso di tutto il viaggio. Tutti e due si erano abbandonati alle proprie riflessioni senza avere il coraggio di condividerle con l’altro, forse perché si vergognavano anche solo di prendere in considerazione che Jo potesse essere ancora viva. Diavolo, erano entrambi poliziotti da anni. Quel tipo di colpo di scena nella realtà non esisteva. Il bene non trionfava sul male. Gli eroi non tornavano in vita alla fine del film. Erano degli sciocchi a coltivare quella speranza. Eppure, eccoli entrambi all’aeroporto di Heathrow, a inseguire una chimera. Con un biglietto aereo pagato da uno sconosciuto (avevano fatto delle ricerche, cercando di rintracciare il compratore, ma i biglietti risultavano pagati in contanti, comprati in un’agenzia di Londra. Come poi fossero arrivati sulle loro scrivanie a New York, era un mistero) e un messaggio anonimo in tasca.
Scovarono un banco informazioni e si misero in fila.
“Salve”, li salutò una giovane ragazza con la coda di cavallo, “Come posso aiutarvi?” Il suo accento era così forte e somigliante a quello di Henry che sia il capitano che Hanson si lanciarono un’occhiata, colpiti dalla stessa somiglianza.
“Ehm… salve”, disse il capitano, “Abbiamo bisogno di informazioni su come raggiungere Dorset.”
“Dorset?”, ripeté la ragazza, “Intendete la contea?”
“Credo di sì”, rispose il capitano, anche se in realtà non ne era sicura.
“Beh, per prima cosa dovete prendere un treno per Londra. Potete prendere una navetta, un treno regionale o la metropolitana. Una volta a Victoria, prendete un treno per Dorchester. Da lì non saprei, dipende da dove dovete andare di preciso”.
“Skyhall”, disse Hanson leggendo il nome dal proprio biglietto.
“È un paese?”, chiese la ragazza, aggrottando le sopracciglia.
“Non ne abbiamo idea”, ammise Hanson, e la ragazza li soppesò per qualche istante, perplessa. Alla fine però prevalse la cortesia e continuò: “In ogni caso, vi stampo un itinerario fino a Dorchester. Sono sicura che da lì qualcuno vi saprà dare indicazioni.” Porse loro un foglio stampato e, una volta ringraziatola, Reece e Hanson si misero alla ricerca di un mezzo per Londra.
Mentre erano sul treno, il capitano rifletté:
“Non credo che riusciremo a raggiungere questo posto oggi. Il viaggio è stato lungo e chissà quante altre ore di treno ci aspettano. Dovremmo trovare una sistemazione per la notte e partire domattina”.
Hanson, che si era appisolato, si riscosse annuendo: “Sì, sono d’accordo. Sono distrutto. Guardo su internet se trovo un paio di stanze”.
Trovò due singole nella zona di Camden (“Cento sterline per una notte? Ma sono pazzi!”, borbottò mentre prenotava), poi, visto che nessuno dei due aveva idea di dove si trovasse Camden, rifecero la fila al banco informazioni della stazione.
“Prendete la Victoria fino a Euston”, rispose loro un vecchio signore con il cappello delle ferrovie, “Poi la Northern fino a Camden Town”.
“Mi scusi, signore, visto che ci siamo, mi saprebbe dire come arrivare nel Dorset?”
“Dorset?”, ripeté il vecchio con lo stesso tono stupito della ragazza in aeroporto, “Prendete il treno per Dorchester. Ce n’è uno ogni ora. Ma perché mai dovete andare nel Dorset?”
“Non lo sappiamo neanche noi”, osservò Hanson ironico. “Ma gli inglesi sono tutti così?”, chiese poi al capitano.
“Così come?”
“Non lo so. Sembrano tutti… scocciati. Irritati. Quasi peggio dei newyorkesi. In confronto Henry è un’esplosione di gioia”. Si interruppe, consapevole di quello che aveva appena detto. “Era”, si corresse a malincuore.
Seguirono le indicazioni che erano state date loro e raggiunsero il loro hotel, dove si sistemarono per la notte dopo aver mangiato un cartoccio del tipico fish and chips (altre otto sterline!) in un pub lì di fronte. Hanson dormì un sonno agitato. C’era qualcosa, in tutta quella storia, che continuava a punzecchiarlo. Come erano state consegnate le lettere? Avevano controllato le telecamere ma nessuno di sospetto si era avvicinato alle loro scrivanie. Tranne Lucas, ma non poteva essere stato lui. Oppure sì? Lucas era cambiato, negli ultimi mesi. Era diventato più serio. E quando Henry e Jo erano… però, insomma, era normale. Era il suo modo di affrontare il dolore. No? Poi, perché i messaggi erano diversi? Chi si poteva rivolgerle a lui dandogli del tu? Cosa doveva perdonare? Nonostante tutti i suoi sforzi, i suoi pensieri tornavano sempre e irrimediabilmente a un solo nome: Jo. Magari si era nascosta. Magari aveva aspettato che Elliott venisse condannato… magari…
Il mattino dopo, lui e il capitano tornarono alla stazione di Victoria, presero il primo treno per Dorchester e arrivarono in una cittadina spazzata da un vento ancora più freddo che a Londra. Il cielo era gravato da nuvole scure e l’aria era satura dell’odore del sale. Erano proprio veri gli stereotipi sul clima inglese.
Chiesero informazioni a un bigliettaio, ma lui scosse la testa, rispondendo loro in un inglese così stretto che fecero fatica a capirlo: “Skyhall? Se è un paese, non so dove sia, mi dispiace.”
“Merda”, disse Hanson, “E adesso che facciamo?”
“Scusate”, una giovane ragazza, la pelle chiara chiazzata di rosso a causa del vento, si avvicinò a loro, “Scusate l’impertinenza, ma ho sentito la vostra conversazione. State cercando un posto chiamato Skyhall?”
“Sì”, annuì Reece, rabbrividendo nel suo cappotto, “Sa per caso dove si trova? Ci salverebbe la vita.”
“Io no”, ammise la ragazza, “Ma mio nonno lo sa sicuramente. Vive qui da sempre e conosce il Dorset come le sue tasche. Se volete chiedere a lui, lo trovate allo Swann”.
“Lo Swann?”, chiese Hanson interrogativo.
“Sì, il pub. In fondo alla strada a destra. Se volete, vi ci accompagno”.
“Grazie”, dissero Hanson e Reece contemporaneamente, “Non sa che favore ci fa”.
“Siete americani?”, chiese loro la ragazza mentre faceva strada verso il pub.
“Sì. Di New York.”, rispose Hanson.
“Che figata! Non sono mai stata a New York”, esclamò la ragazza. “E cosa vi porta nella nostra graziosa contea dimenticata da Dio?”
Reece e Hanson si scambiarono un’occhiata.
“Abbiamo ricevuto un invito”, rispose Reece in maniera neutra.
Quando entrarono nel pub, furono investiti dal piacevole caldo dell’interno, e sostarono per qualche secondo nell’ingresso, cercando di scongelarsi. La ragazza li precedette e raggiunse un signore solcato da rughe chino su una pinta di birra al banco. Stava chiacchierando con il barman, che al loro ingresso li aveva squadrati da cima a fondo con aria perplessa.
“Nonno, questi due signori sono americani”, stava dicendo la ragazza, indicandoli.
“Americani?”, ripeté il barman come se avesse detto che venivano da Marte.
“Stanno cercando un posto che si chiama Skyhall. Tu lo conosci?”
“Skyhall?”, borbottò il vecchio sputando un po’ di saliva e sigaro, “Diamine, se lo conosco!”
“E… sarebbe così gentile da indicarci come arrivarci?”, chiese Reece gentilmente.
Il vecchio la fissò a lungo prima di rispondere.
“È sulla costa”, disse alla fine, “A una cinquantina di miglia da qui.”
“Ma…che cos’è? Un paese?”, azzardò a chiedere Hanson.
“Ci dovete andare e nemmeno sapete cos’è?”, chiese il vecchio ironico. Poi però rispose: “È una mansion. Una residenza. È su quella scogliera da più di trecento anni. Quando ero piccolo ogni tanto ci entravamo di nascosto. È rimasta disabitata per parecchio. Poi mi sembra che qualcuno l’abbia comprata… anche se non ci ho mai visto nessuno.”
“Qualcuno?”, chiese Reece, abbandonando il tono gentile e riprendendo il piglio di poliziotto, “Ha idea di chi?”
Il vecchio non apprezzò quel tono da interrogatorio e rimase a fissarla, senza rispondere.
“Non ha sentito la domanda?”, chiese Hanson ingenuamente. Il vecchio si irritò ancora di più.
“Certo che ho sentito, mica sono sordo. Ma a voi americani cosa importa?”
“Nonno!”, esclamò la nipote, imbarazzata da quel tono scortese.
“Mi scusi se le sono sembrata sgarbata”, Reece si affrettò a correggere il tiro, “Ma abbiamo ricevuto un invito a raggiungere Skyhall, che però non ci forniva alcuna indicazione sul luogo. E visto che non siamo di queste parti, avevamo bisogno di una fonte autorevole a cui chiedere. Ci dispiace se l’abbiamo disturbata”.
Fece per voltarsi e andarsene, ma come previsto quel “fonte autorevole” gettato lì per caso aveva sortito il suo effetto. Il vecchio sorseggiò un po’ della sua birra e continuò a parlare:
“Non so chi l’abbia comprato, ma so quando. Circa 28 anni fa. La signorina qui”, e fece un cenno alla nipote, “Non era ancora nata. Mi sono accorto della vendita perché ho visto del movimento, lì nella proprietà. Per curiosità sono andato a controllare nei registri della contea.”
“E ha scoperto qualcosa?”, chiese Hanson incuriosito.
“No. So che la proprietà è stata data in trust a una amministratrice di Londra, una certa Ellen. Ma il compratore era anonimo, non compariva nel registro”.
Reece si avvicinò di un passo, con un sorriso persuasivo.
“Ma sono certa che un esperto della contea come lei si sia fatto un’idea”, osservò.
“Ci scommetto la testa che è uno della zona, anche se non so chi”, rispose il vecchio, cominciando a provare gusto a snocciolare le sue teorie di fronte a quel pubblico così entusiasta, “Se fosse uno di quei miliardari americani o indiani che comprano le vecchie residenze per farci dei rave party, lo avremmo sicuramente saputo. Come minimo ci sarebbe stata un’invasione della stampa. Invece è stato tutto molto discreto. Chi l’ha comprata ha fatto dei lavori e l’ha rimessa a nuovo, deve averci speso parecchie migliaia di sterline. Secondo me è uno della famiglia. Nessun altro si sarebbe comprato una vecchia casa corrosa dal sale se non per un valore affettivo”.
“Della famiglia?”, chiese il capitano con una strana sensazione allo stomaco.
“I Morgan”, disse il vecchio, “Skyhall è appartenuta ai Morgan fino alla morte del discendente diretto. Poi è passata in mano ai rami cadetti fino all’inizio del XX secolo. Poi la residenza è stata usata come ospedale durante la seconda guerra mondiale e da allora è rimasta disabitata. Fino a che qualcuno non l’ha comprata”.
Al cognome Morgan Hanson e il capitano erano quasi sobbalzati, e si erano lanciati uno sguardo significativo e pieno di domande. Il collegamento che tanto avevano desiderato e temuto si stava delineando davanti ai loro occhi.
“Che lei sappia, c’è ancora qualcuno della famiglia da queste parti, quindi?”, indagò il capitano cercando di mantenere un tono di voce fermo.
“Ufficialmente la famiglia si è estinta”, spiegò il vecchio, “Non c’erano più eredi maschi in grado di portare il cognome. Ma magari qualche erede nato da una donna Morgan esiste ancora. Con un altro cognome, si intende.”
Reece rimase per qualche secondo a ponderare quelle parole.
“Quindi mi sta dicendo… mi sta dicendo che in teoria non dovrebbero esistere uomini con il cognome Morgan, giusto? Perché la famiglia è estinta”
“Sì, è quello che ho detto”, rispose il vecchio, svuotando la sua pinta di birra.
Reece e Hanson si lanciarono un’altra occhiata.
“Quindi lei non conosce… non ha mai sentito parlare di un certo Henry Morgan?”
Henry Morgan?”, il vecchio voltò lo sgabello verso di loro, “Che diamine, certo che sì. Ne giravano di voci sul suo conto”.
Sia Hanson che Reece sentirono il cuore aumentare i battiti.
“Quindi lei lo conosce?”, incalzò Reece.
“E che diamine, signora, mica sono così vecchio”, e lui e il barman si scambiarono un’occhiata e si misero a ridere.
“In che senso?”
“Ma si può sapere da dove vengono tutte queste domande, eh?”, sbottò il vecchio, irritato; poi però vide il loro sguardo acceso di curiosità e continuò, “Henry Morgan era l’ultimo erede diretto della famiglia, prima che la proprietà passasse agli eredi di secondo grado. È morto più di duecento anni fa in circostanze misteriose. Alcuni dicono che morì in un naufragio, altri che fu assassinato e che tentarono di far passare la sua morte per un incidente. Sta di fatto che giravano voci sul fatto che non fosse morto, e che fosse tornato, e che per non so quale motivo era stato rinchiuso in prigione, dove probabilmente morì definitivamente, se non era già morto prima. Insomma, vecchie leggende. Si dice che da allora la casa sia infestata, o spiritata o come si dice, e che il suo fantasma portasse conforto ai feriti durante la seconda guerra mondiale. Molti dei feriti a Skyhall giurano di avere visto un uomo identico a quell’Henry Morgan di cui si può vedere il ritratto appeso nel corridoio, che li curava mentre deliravano. Anch’io l’ho visto, quando ero bambino. Strano che quel ritratto sia rimasto lì nonostante tutti quelli che sono passati per quella casa.”
“Che li curava mentre deliravano?”, ripeté Hanson, inconsciamente colpito da quelle parole.
“Sì. A quanto pare era un dottore, il miglior dottore della contea, a            quanto risulta dai registri”, il vecchio fece un cenno verso il barman, “Ci sono alcuni documenti su quel periodo nel nostro museo di storia, vero Bill?”
“Verissimo”, confermò Bill, “Se volete andarci, sareste i primi turisti della stagione. Anzi, i primi turisti in generale”.
“Lì dovreste trovare un po’ di informazioni sulla famiglia, se siete interessati”, spiegò il vecchio, “Io non sono un esperto, conosco solo le storie più famose delle famiglie della zona. Quella dei Morgan è un po’ la nostra leggenda locale”.
“Storie del genere attirano i turisti”, intervenne il barman, “Soprattutto se ci metti nel mezzo una vecchia dimora, un po’ di nebbia e un cimitero in abbandono. Gli europei vanno pazzi per queste stronzate gotiche”.
Il cervello di Reece stava lavorando freneticamente. C’era qualcosa che le sfuggiva, una qualche evidenza davanti ai suoi occhi che non riusciva a vedere.
“Quindi voi… ehm… non avete mai visto chi abita a Skyhall adesso, vero?”
Sia il vecchio che il barman scossero la testa.
“Io sì”, rispose una voce dal fondo del pub. Tutti si voltarono in quella direzione: una donna anziana, avvolta in un maglione blu, stava bevendo una tazza di thè nel tavolo ad angolo più buio del locale. Il suo volto era in parte in ombra, ma si vedeva che il suo sguardo era fisso davanti a sé.
“Proprio tu, Betty, che sei mezza cieca?”, commentò infatti il vecchio, sottolineando la sua affermazione con uno sputo.
“Sono andata lì insieme a mio nipote”, continuò la signora ignorando il commento del vecchio, “I nuovi proprietari avevano ordinato delle scorte di cibo. Mio figlio gestisce una drogheria”, aggiunse a beneficio degli stranieri.
Reece intervenne: “I nuovi proprietari? Vuol dire che sono più di una persona?”
“Sono sicuramente in due”, affermò la signora, “Se poi ce ne sono altri non ne ho idea.”
“E… li ha visti? Li ha visti bene?”, chiese Hanson sentendo il cuore in gola.
“Ho visto bene solo la signora”, disse la vecchia.
“Per quanto ci possa vedere bene Betty con un occhio accecato”, borbottò il vecchio al bancone.
“Una straniera”, continuò imperterrita Betty, “Una bella donna. È stata lei a ritirare il cibo e a pagare mio nipote. L’uomo invece l’ho visto solo di sfuggita.” La donna si interruppe e sorseggiò un sorso di thè.
“Ah ah Betty”, intervenne il barman, “Lo conosciamo tutti quel tono. Confessa: sei andata a spiare, non è così? Sei una terribile curiosona”.
“Non sono andata a spiare”, ribatté la donna anziana, anche se si mosse leggermente a disagio sulla sua sedia, “Ho solo chiesto un bicchiere d’acqua e andando verso la cucina ho sentito qualcuno suonare il pianoforte. Ho solo gettato un’occhiata all’interno per vedere chi era, tutto qui” Poi la donna si rivolse al barman con un gesto accusatorio: “Perché tu non ti impicci mai degli affari altrui, vero Billy?”
“Perdonateli”, intervenne la ragazza che li aveva accompagnati al pub, abbassando la voce, “Non sanno che altro fare e passano le giornate a punzecchiarsi in questo vecchio pub. In ogni caso, ho capito dov’è Skyhall. Il modo migliore per andarci è in auto, credo.”
“La ringrazio molto, davvero. Non sa quanto ci è stata utile”, le disse il capitano, prima di rivolgersi di nuovo a Betty, “Mi scusi, signora, se insisto, ma l’uomo e la donna che ha visto… li saprebbe descrivere? Sarebbe molto importante.”
La donna rifletté qualche istante, godendosi nel frattempo l’atmosfera di attenzione nei suoi confronti.
“Mediamente alta, magra, capelli scuri, occhi scuri. Sui trenta, trentacinque anni, credo.”
Sia Hanson che il capitano trattennero il respiro di fronte a quella descrizione. Jo. Poteva veramente essere lei?
“… e l’uomo?”, chiese Hanson, la voce leggermente inferma.
“Lui l’ho visto solo di spalle”, ripeté Betty, “Ma era anche lui giovane, con i capelli corti scuri”. Non aggiunse altro, ma il modo in cui aveva terminato la frase lasciava presagire che volesse aggiungere altro, ma si fosse trattenuta.
“Ci nascondi qualcosa, Betty?”, la incalzò il vecchio, “Hai visto anche un fantasma, tanto che c’eri?”
La signora anziana non rispose, ma voltò lentamente il suo sguardo cieco verso il vecchio e il barman.
“Voi ridete”, disse in tono solenne, “Ma io potrei giurare sulla testa di mio nipote, e che Dio mi sia testimone, che quell’uomo era identico al ritratto che si trova all’ingresso. Se non è lui, allora è un suo diretto discendente, perché erano assolutamente identici.”
“Ma non l’avevi visto solo di spalle?”, chiese il barman, ironico.
“Quando mi ha sentito si è voltato. Ho visto di sfuggita il suo profilo. Giuro che era identico.”
“Sì, certo, come no Betty”, bofonchiò il vecchio, “Magari è proprio il vecchio dottore tornato dal regno dei morti per dare una spolverata alla villa di famiglia”.
Hanson e il capitano erano rimasti in silenzio di fronte a quello scambio di battute, ma erano entrambi attraversati dallo stesso pensiero. Fu il capitano a dare voce alla domanda fondamentale: “E l’uomo… l’uomo del ritratto… lo può descrivere?”
“Mmh… un viso particolare. Naso e zigomi pronunciati, capelli scuri. Alto, magro.”
“… occhi verdi?”, suggerì Hanson, quasi trattenendo il fiato.
“Sì. Occhi verdi”.
“Dobbiamo raggiungere Skyhall al più presto”, disse il capitano dopo qualche secondo di silenzio. “Non abbiamo un’auto, come possiamo arrivarci?”
“Senza auto sarà dura”, commentò il vecchio.
“Potete prendere l’autobus fino a St. Mary, però”, suggerì il barman.
“Da lì saranno due miglia a piedi, ma se passate per i campi dovreste accorciare la strada”, osservò il vecchio.
Due miglia a piedi con quel gelo? Hanson si sentì rabbrividire, ma c’era qualcosa, in tutto quello che avevano ascoltato, che gli aveva acceso una fiamma nel petto. Una donna straniera che rispondeva alla descrizione di Jo, insieme a un uomo che rispondeva alla descrizione di Henry. Tutto quel contorno di leggende e fantasmi non lo interessava. L’importante era che davvero c’era la possibilità che Jo fosse ancora viva. E anche Henry, nonostante ciò che avevano udito nella registrazione. E una possibilità era sufficiente.
“Dove lo possiamo prendere questo autobus?”, stava chiedendo Reece.
“Dietro la stazione dei treni”, rispose la ragazza.
“Grazie. Grazie a tutti, davvero.”
“Io non ho ancora capito che ci dovete andare a fare, a Skyhall”, borbottò il vecchio mentre loro si dirigevano verso l’uscita.
“Lo scopriremo quando ci arriveremo”, rispose Hanson con un tono quasi misterioso.
Il freddo li investì di nuovo, ma questa volta lo affrontarono con foga, ansiosi di raggiungere l’autobus che li avrebbe portati verso la verità. L’autista degli autobus li squadrò con la stessa attenzione che il barman aveva riservato loro all’ingresso nel pub. Si capisce che non erano abituati a vedere degli “stranieri”. Non in quella stagione, se non altro.
Il viaggio fu estenuante. L’autobus ondeggiava su strade strette e tortuose spazzate dal vento. La vista, però, era spettacolare. A tratti le curve mostravano una distesa verde che si perdeva in uno strapiombo sull’oceano. In lontananza, all’orizzonte, si scorgevano schizzi di schiuma bianca in contrasto con il cielo grigio piombo. Hanson aveva lo sguardo fisso al di fuori del finestrino, ma il capitano sapeva che non era il panorama ad assorbirlo così tanto.
“Hanson, non crederai a tutte quelle storie sui fantasmi, vero?”, gli chiese alla fine dopo un’ora di viaggio immersi nel silenzio.
“Non so a cosa credere”, ammise Hanson, “Quello che so è che i corpi di Jo e Henry non sono stati ritrovati, e che due persone che corrispondono alla loro descrizione vivono in questa residenza isolata dal mondo, e che entrambi abbiamo ricevuto un biglietto anonimo che ci invitava lì.” Hanson si voltò a guardarla. “Capitano, io non so in che altro modo spiegarmelo. Io credo che Jo abbia finto la sua morte per nascondersi e incastrare Elliott. Henry l’ha aiutata. Quello che non so è come abbiano fatto. Voglio dire, di Jo non abbiamo trovato il corpo, e può essere scappata dalla scena del crimine, anche se c’era tutto quel sangue… magari Henry si è sbagliato, o… se lui era d’accordo… ci ha mentito, o magari Jo è sopravvissuta e basta. Magari le hanno fatto una trasfusione. Voglio dire, è di Doc che stiamo parlando, no? Una volta ha salvato Jo che era sotto minaccia di una pistola facendola andare a sbattere contro una barriera. Se c’è qualcuno che può farlo è lui.” Si interruppe, forse aspettandosi un commento da parte del capitano. Lei però si limitava ad ascoltare, in silenzio. “Però Henry… abbiamo sentito la registrazione. Gli spari. La voce che diceva: sbarazzatevi del corpo. Quante probabilità ci sono che si siano sbarazzati di una persona ancora viva? A meno che Doc…”, si fermò di nuovo, riflettendo, “A meno che Doc non avesse previsto tutto e non avesse preso qualche precauzione. Un giubbotto antiproiettile, per esempio, magari sangue finto, non lo so… sono uno stupido a fare queste ipotesi?”, disse, sospirando.
“No, Hanson, non sei stupido”, rispose il capitano, “La verità è che ci sto pensando anch’io. E più ci penso, più comincio a crederci.”
“Ehm… signori?”, sentirono l’autista rivolgersi a loro, “Mi avevate chiesto di avvisarvi quando saremmo arrivati a St. Mary. Beh, ci siamo. È fra un paio di miglia.”
“Grazie”, rispose il capitano. L’autobus accostò dopo qualche minuto e li lasciò sul ciglio di una strada di campagna, costeggiata da un basso muretto di tufo. Se non fosse stato per un sgangherato cartello con il disegno di un autobus, nessuno si sarebbe accorto che quella era una fermata. Hanson e il capitano si guardarono attorno. Ovunque, c’erano distese di verde percosse dal vento, che ogni tanto mandavano dei bagliori argentati. Sulla sinistra, si scorgeva la linea dell’oceano fondersi con quella del cielo. E oltre, verso nord, stagliata contro il grigio delle nuvole, c’era una casa. Una villa, una mansion, come l’avevano chiamata quelli del posto, o un castello, a seconda dei punti di vista. Solida e squadrata, ma con i lati che si innalzavano in quelle che sembravano delle torri, sembrava un faro a protezione della costa. Anche se erano lontani, riuscivano a scorgere un lungo viale che si allontanava dall’ingresso verso la strada: probabilmente c’era un cancello, ma non potevano vederlo a causa di una curva che tagliava loro la visuale. Se avessero seguito la strada, comunque, ci sarebbero arrivati.
Si incamminarono, ognuno immerso nei propri pensieri tanto da non sentire più il freddo.
Incrociarono una coppia sui quarant’anni con un cane, che disse loro di tagliare per il campo sulla sinistra fino al “muretto” (glielo indicarono, anche se a Hanson e il capitano i muretti sembravano tutti uguali) e poi girare a destra per raggiungere il cancello principale tagliando fuori circa mezzo miglio. Reece e Hanson seguirono il consiglio e si addentrarono per i campi. Il terreno era indurito dal freddo ma l’erba era umida, e ben presto si ritrovarono gli scarponi bagnati. Ogni tanto dei fili di nebbia emergevano dal manto d’erba, e, uniti al sibilare del vento sempre più misto al rombo del mare man mano che si avvicinavano alla scogliera, facevano sì che le storie di fantasmi non sembrassero poi così tanto storie. Hanson rabbrividì, e non solo per il freddo. Lui, nato e cresciuto a New York, che si credeva impermeabile a tutto e che di tutto aveva visto, nella sua vita, si sentiva a disagio in quell’atmosfera da brividi.
Dopo più di quindici minuti di camminata, finalmente arrivarono in vista del cancello d’ingresso: una grossa struttura in ferro, con volute e intarsi che, in cima, si articolavano in una scritta in corsivo. Skyhall. Il cancello era sostenuto da due colonne di pietra, da cui partiva, da entrambi i lati, un muretto di tufo che circondava la proprietà. A causa della conformazione ondulata del terreno la casa era ora leggermente nascosta, se ne scorgeva solo un lato, come se si trovasse in una posizione più bassa rispetto al cancello. Anche da quella distanza, però, riuscivano a scorgere le mura di pietra scolpite, le finestre strette e alte, alcune mosaicate, e angoli ricoperti di muschio e di edera. Sembrava in tutto e per tutto una residenza uscita da un documentario sulla storia inglese.
Quando raggiunsero il cancello, si fermarono per qualche istante, affannati. La camminata attraverso il campo era stata più impegnativa di quanto si aspettassero. Ora che erano così vicini, il cancello, le colonne e il muretto sembravano enormi. Spinsero contro la struttura di ferro, e quella si aprì, senza resistenza, cigolando.
Iniziarono a percorrere la strada d’ingresso. Quella curvò leggermente verso destra, e all’improvviso la residenza si stagliò davanti a loro in tutta la sua imponenza. Uno spiazzo lastricato, a cui si accedeva tramite qualche scalino, si estendeva di fronte alla porta di ingresso. Sulla sinistra, al di là del lato della casa, si scorgevano delle lapidi; sulla destra, invece, ciò che rimaneva di quello che doveva essere stato un labirinto. Ora era completamente secco, e in parte abbattuto, e si riusciva a intravedere la fontana, fredda e asciutta, che si nascondeva al centro. Arrivati di fronte al portone, squadrato e in legno scuro, Hanson e il capitano si fermarono di nuovo, in parte per prendere fiato, in parte per raccogliere i pensieri. Era arrivato il momento. E se… e se quello che avevano sperato si fosse rivelato un’illusione? Se Jo e Henry non fossero c’entrati nulla con tutta quella storia?
Il capitano abbassò lo sguardo sulla lastra di pietra davanti al portone, sospirando. Jo ed Henry dovevano c’entrare per forza, pensò. Hanson aveva ragione: non c’era altro modo per spiegarlo. Mentre stava alzando il braccio verso il portone, notò una scritta incisa nella pietra sotto i suoi piedi: una grossa m in corsivo e, al di sotto, super marum imperamus. M come Morgan? Possibile?
Hanson seguì il suo sguardo, lesse la scritta sottovoce, poi disse, in tono fermo: “Capitano, entriamo e basta.”
Reece annuì e spinse la mano contro il portone. Quello si aprì: era aperto. Un sibilo d’aria s’insinuò all’interno insieme a loro.
Si ritrovarono in un corridoio tappezzato di legno e arazzi, che sfociava in un ampio salone con i soffitti così alti che Reece si ritrovò a bocca aperta suo malgrado, lo sguardo perso verso l’altro. In fondo, di fronte a loro, c’era un imponente camino di pietra bianca, con un fuoco che mandava un piacevole tepore attraverso la stanza. Ai lati del camino, c’erano due porte di legno strette e alte, apparentemente chiuse. Sulla sinistra, c’era una vetrata che dava sul cimitero che avevano intravisto dell’esterno. Sulla destra, una scala di marmo si sviluppava contro la parete, sparendo al piano superiore. Ai piedi della scala, un altro corridoio.
Il capitano e Hanson si diressero lì d’istinto. Il corridoio, più ampio e lungo di quello d’ingresso, era ricoperto di quadri su entrambi i lati, e interrotto a tratti da qualche statua o busto appoggiato su una colonna. Il capitano aveva abbassato lo sguardo sul tappeto che ricopriva il pavimento, quando si accorse che Hanson era immobile, e fissava come imbambolato un punto alla fine del corridoio.
“Hanson?”, gli chiese, allarmata, la mano che si portava rapidamente verso il fianco a prendere la pistola, prima di ricordarsi che la sua pistola d’ordinanza era rimasta a New York.
“Porca puttana”, rispose Hanson, e solo quando seguì la direzione del suo sguardo Reece capì cosa lo aveva sconvolto.
In fondo al corridoio, sopra a un altro camino di pietra, questa volta spento, c’era un ritratto a grandezza umana di un uomo. C’era un ritratto di Henry. O almeno, quello fu il suo primo pensiero, prima di rendersi conto che ciò era impossibile. Perché l’uomo nel ritratto indossava un panciotto viola al di sotto di una giacca nera a doppio petto, pantaloni neri, stivali alti da cavaliere, aveva in mano un bastone da passeggio, aveva al fianco un cane da caccia. Era il ritratto di un gentiluomo ottocentesco. Non poteva essere Henry.
Come in trance, il capitano aveva percorso tutto il corridoio, seguita da Hanson. Arrivata vicino al ritratto, lesse la didascalia incisa sul bordo della cornice: Henry Morgan, 1804. Milleottocento quattro! Ancora una volta, Reece ebbe la sensazione che qualcosa le stesse sfuggendo. C’era qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto vedere, eppure non ci riusciva. Quel ritratto… doveva essere quell’Henry Morgan di cui aveva parlato il vecchio, l’ultimo discendente diretto. Ma se quell’Henry nel ritratto era morto, chi era allora il loro Henry, che tagliava cadaveri in un laboratorio di New York? Se solo…
“Lo sapevo! Cazzo se lo sapevo! Dio ti ringrazio”, sentì esclamare Hanson.
Quando si voltò, il capitano si sentì investire da un’ondata di sollievo.
Sulla sua sinistra si apriva un altro salone, con un altro camino acceso, un pianoforte in un angolo, un divano sulla sinistra, un tavolo di legno al centro, una portafinestra che dava su un balcone di pietra. E sul balcone, con alle spalle le onde grigie dell’oceano, i capelli mossi dal vento, c’era Jo. La loro Jo, in carne e ossa. Viva.
Hanson attraversò il salone e raggiunse Jo sul terrazzo, dove l’abbracciò, con le lacrime agli occhi. Anche Jo aveva gli occhi lucidi, e rispose all’abbraccio con fervore.
“Oh Mike, non sai quanto sono felice che tu sia qui”, disse Jo, sorridendo di felicità, “Non vedevo l’ora che tutta questa storia finisse. Non vedevo l’ora di potervi contattare per dirvi la verità, per farvi sapere che stavo bene… Ti prego, perdonami. So che è stato… è stata dura credere che io…”
“Non dirlo neanche, Jo”, Hanson la interruppe, scuotendo la testa, “Non dirlo neanche, cazzo. È tutto il viaggio che ci scervelliamo. Se lo hai fatto per nasconderti da quel figlio di puttana, e per incastrarlo una volta per tutte, allora hai fatto bene. L’importante è che… l’importante è che tu sia tutta intera”.
“Grazie Hanson”, rispose Jo, piena di gratitudine, “Grazie. Vieni, entriamo. Fa un freddo cane”.
“Puoi dirlo forte, cazzo”.
Jo rientrò nel salone e chiuse la portafinestra alle sue spalle. Solo allora il suo sguardo si fermò sul capitano, che era rimasta immobile all’ingresso.
“Capitano io… mi dispiace. Spero davvero che capisca… ho dovuto farlo. Non c’erano prove, non ce l’avremmo mai fatta per le vie legali, e in più temevo che ci avrebbero riprovato…”
Il capitano alzò una mano per zittirla, e Jo lo fece, in ansia per la sua reazione.
“Jo, io non so ancora che cosa sia successo esattamente”, disse, “Né perché. Quello che so…” e in quel mentre la sua voce si incrinò leggermente, “Quello che so è che sono d’accordo con Hanson. L’importante è che tu sia tutta intera”.
Grazie”, sorrise Jo, e le lacrime fecero di nuovo capolino nei suoi occhi. Poi fece un paio di passi in avanti e, esitante, abbracciò il capitano.
“Volevo dirle”, aggiunse, dopo che il capitano, impacciata, aveva a sua volta risposto all’abbraccio, “Volevo dirle che mi dispiace molto avervi ingannato. Sul serio. Voi siete un po’ la mia famiglia… lei… lei è stata la mia mentore fin dall’inizio, e tu Hanson…”, si rivolse a lui ponendogli una mano sulla spalla, “Tu mi sei sempre stato amico, oltre che collega. Mi sei stato vicino quando è morto Sean. Mi dispiace terribilmente avervi fatto soffrire. Ma ho dovuto scegliere.”
“Scegliere cosa?”, chiese Hanson, “Jo, che cazzo è successo di preciso? Ce lo vuoi spiegare?”
“Adesso vi racconto tutto”, li rassicurò Jo, “Perché non vi sedete? Preparo del thè caldo, che ne dite?”
“Del thè caldo? Mi sembri Henry”, commentò Hanson, prima di capire quello che aveva detto: “Henry!! Dio Santo, me n’ero dimenticato. Henry è qui, no? Sta bene, vero?”
“Sì, sì, sta bene”, Jo sorrise di fronte alla sua preoccupazione, “Certo che è qui. Solo… credo abbia voluto lasciarci un po’ di privacy, quando vi ha visto arrivare. Ora non so dove sia, ma arriverà presto. Questo posto è enorme, sapete? Ci si può vivere in più persone senza mai incontrarsi”.
“Ma cos’è questo posto, esattamente?”, chiese il capitano, nella cui mente continuavano a frullare tutte le informazioni che aveva raccolto al pub.
Jo esitò un istante, quando qualcuno la precedette e rispose al posto suo:
“È casa mia”. 
Il capitano si voltò. Henry era in piedi nella cornice della porta da cui erano entrati. Era vestito come al solito: elegante, con la giacca, la cravatta, il suo immancabile orologio appeso al fianco. Eppure, in quella casa, quel suo modo di vestire, di muoversi e di parlare assumeva un significato nuovo, una sfumatura quasi sinistra. Reece provò ancora una volta la sensazione che qualcosa le stesse sfuggendo, la sensazione che l’uomo che aveva di fronte le fosse un perfetto sconosciuto.
“Doc!”, esclamò Hanson, e senza tanti complimenti lo raggiunse e lo abbracciò con la stessa foga con cui aveva abbracciato Jo. “Lo sapevo, Doc, che c’era dietro il tuo zampino. Ci avrei giurato”.
Henry si separò da Hanson e salutò Reece con un cenno del capo: “Capitano. Benvenuti a Skyhall”, e con un gesto indicò loro il tavolo, invitandoli a sedere.
Reece e Hanson accolsero il suggerimento e si sedettero, e mentre Henry faceva il giro del tavolo per posizionarsi di fianco a Jo, il capitano identificò finalmente la sensazione che aveva provato quando aveva visto Henry: timore. Era intimorita. Perché c’era qualcosa, in lui, che non riusciva a cogliere. E quello che non riusciva a capire la intimoriva.
“Henry, metteresti su del thè? Mi sa che sono congelati”, stava intanto dicendo Jo, sedendosi a sua volta.
“Certo”. Henry si diresse verso il camino e appese una teiera a un gancio di ferro, in modo che pendesse al di sopra delle fiamme. Poi sparì al di là di una porta, e ritornò poco dopo con un vassoio rifornito di tazze, cucchiaini e zucchero.
“Ora capisco perché voi inglesi siete fissati con il thè”, osservò Hanson scherzando, “Con questo clima da cani, ci credo che vi bevete acqua calda tutto il giorno”.
“Clima da cani?”, rispose Henry con lo stesso tono divertito, “Non dire sciocchezze, oggi è una giornata idilliaca. Dovresti vedere quando nevica”. Versò l’acqua, che nel frattempo si era scaldata, nelle loro tazze, poi chiese: “Avete anche fame? Abbiamo dei tramezzini, in cucina”.
“E anche un po’ di quella poltiglia inglese di cui non mi ricordo il nome”, aggiunse Jo.
Henry sorrise nella sua direzione. “Il pudding”, disse.
“Il pudding, giusto”, Jo fece una smorfia, “Non ho ancora capito se mi piace o meno”.
“Ti assicuro che dopo due o tre bicchieri di brandy il sapore non è poi così male”, disse Henry, “Comunque, ne vado a prendere un po’, se avete fame”. E sparì attraverso la stessa porta di prima.
Il capitano era rimasta a osservare la scena, in silenzio. Un’altra sensazione l’aveva colpita: Henry e Jo si comportavano come una coppia sposata. E dopo quel pensiero, un altro fece capolino, con tale forza che Reece si maledì per non esserci arrivata prima: Henry e Jo stavano insieme. Era ovvio. Come aveva potuto non notarlo? Si era lasciata sviare dal proprio pregiudizio, secondo cui Jo aveva una relazione con il signor Monroe. Ma ora era chiaro come la luce del sole che la relazione ce l’aveva con Henry. Sotto il suo naso. Chissà da quanto tempo andava avanti? Si ricordò dell’imbarazzo di Jo quando l’aveva convocata nel suo ufficio, più di otto mesi prima, per proporle la promozione; di come lei avesse sostenuto che quei casi non li aveva risolti da sola, di come avesse risposto vorrei parlarne con… e poi si era corretta. Ovvio. Voleva parlarne con Henry. Doveva ammettere che erano stati assolutamente discreti. Se non fosse stato per un leggero cambiamento, in positivo, nel comportamento di Jo, il capitano non si sarebbe accorta di nulla. In Henry, per esempio, non aveva notato nulla di diverso. Doveva essere un abile dissimulatore. A quel pensiero, il suo disagio nei confronti di Henry si acuì. Sapeva che c’era qualcosa che non andava. Ma non sapeva cosa.
Quando Henry ricomparve, posò davanti a loro un altro vassoio pieno di tramezzini e ciotoline di una specie di budino bianco. Hanson, che continuava a lanciare occhiate a Henry e Jo come per assicurarsi che fossero effettivamente vivi e vegeti, si buttò sul cibo senza farselo dire due volte.
“Che fame. Mmh, buoni questi affari. Che c’è dentro?”
“Ricetta segreta di famiglia”, rispose Jo con un occhiolino a beneficio di Henry.
Alla parola famiglia, il capitano risentì risuonare le parole del vecchio del pub nella propria testa: scommetto che è uno della famiglia. Tutta quella faccenda sulla famiglia Morgan avrebbe avuto bisogno di un chiarimento. Ma ora c’era una spiegazione ben più urgente da spiegare.
“Jo, credo sia il momento di dirci cosa è successo”, disse, e sorseggiò il thè, che era piacevolmente caldo e anche buono, doveva ammetterlo.
“È iniziato tutto quando abbiamo interrogato Elliott la seconda volta”, cominciò Jo, scaldandosi le mani attorno alla tazza di thè, “Ve lo ricordate? Dopo che Henry aveva scoperto che il bambino di Sarah Conrad era il suo”.
Sia Reece che Hanson annuirono.
“Durante quell’interrogatorio, Elliott mi ha apertamente minacciata. Mi ha fatto capire in maniera chiara e tonda che se avessi continuato con l’indagine mi avrebbe rovinato la carriera. Ovviamente io non mi sono lasciata spaventare, anzi. La sua reazione mi aveva confermato che lui era colpevole. Però Henry…”, e lì Jo si interruppe, lanciandogli un’occhiata, perché non poteva certo dire Henry ha guidato l’auto al posto mio e ha scoperto che i freni erano manomessi. Ah, sì, è anche morto nel frattempo.
“… io avevo dei sospetti”, continuò Henry al posto suo, ricambiando la sua occhiata, “E allora ho detto a Jo di non prendere la macchina, e ho… abbiamo… controllato… e abbiamo scoperto che i freni dell’auto erano manomessi”, improvvisò, senza specificare in che modo avevano scoperto la manomissione.
“Porca puttana”, commentò Hanson.
“Ovviamente non c’erano prove che fosse stato Elliott”, proseguì Jo, “Ma era una coincidenza un po’ strana, no? Mi minaccia e nello stesso giorno qualcuno mi manomette i freni. Comunque, da quel momento siamo stati molto attenti”. Jo aveva iniziato inconsciamente a usare il plurale e il capitano si concesse un sorriso tra sé e sé, perché era ancora un’ulteriore conferma del fatto che avesse una relazione con Henry. “Però, come sapete, tutte le prove scomparivano alla velocità della luce. Non c’era nulla con cui incriminarlo. Poi una sera…”, la voce di Jo ebbe un lieve cedimento al ricordo, “Ero appena tornata a casa. Henry mi aveva accompagnata. Lui se n’era appena andato…”, non era del tutto vero, ma Jo stava modificando leggermente le tempistiche della storia per non rivelare che Henry dormiva da lei, anche se ormai non aveva più importanza mantenere nascosta la loro storia, “… quando un corriere ha bussato alla porta. Quei tre uomini hanno fatto irruzione e…”, Jo distolse lo sguardo da loro, fissandolo sul tavolo, “… hanno tentato di uccidermi. Io sono riuscita a prendere la pistola che avevo lasciato sul bancone della cucina, e ho sparato a due di loro, ma il terzo… il terzo ha sparato a me e mi ha piantato due pallottole nel fianco”, istintivamente si portò la mano sulla ferita quasi rimarginata, “Sono caduta a terra e ho perso la pistola, e il tizio mi stava per sparare alla testa… sarei morta se non fosse arrivato Henry”, sospirò, con un sorriso stanco.
“Avevo notato il furgone della FedEx”, spiegò Henry, “E mi sembrava un’ora strana per fare le consegne”.
“Comunque, Henry ha sparatp al terzo tizio”, Jo riacquistò la sua voce ferma, “Mi ha portata via e mi ha operata. Per quella parte della storia dovete chiedere a lui, io non mi ricordo nulla, ero svenuta”.
“Ma come hai fatto a sparare a quel tizio, Doc?”, intervenne Hanson mentre si serviva di un altro sandwich, “Utilizzando la pistola dell’altro?”
“Ehm… non è andata esattamente così”, ammise Henry un po’ imbarazzato, “Diciamo che la scena del crimine che avete visto voi l’avevo leggermente rintoccata… e vi chiedo scusa, ovviamente, per avervi ingannato di proposito. Ma era per proteggere Jo”.
“Hai usato un’altra pistola, vero? E poi l’hai scambiata con quella dell’assalitore”, disse il capitano dopo averci riflettuto per qualche istante.
“Esatto”, confermò Henry con un cenno del capo, “Ho dovuto fare in fretta, Jo stava perdendo molto sangue, doveva essere operata il prima possibile per fermare l’emorragia.”
“Ma perché non ci avete detto nulla, ragazzi?”, chiese Hanson, “Potevamo aiutarvi…”
“Non c’erano prove”, rispose Jo, “Come facevamo a dimostrare che era stato Elliott? Io all’inizio volevo dirvelo, ma… ne ho parlato con Henry, e… abbiamo deciso…” Utilizzò appositamente il plurale per far capire a Henry che non lo biasimava per aver scelto anche per lei, “… che era meglio restare morta. Voglio dire, ci aveva già provato due volte, cosa gli avrebbe impedito di provarci anche una terza?”
“In ospedale Jo sarebbe stata ancora più vulnerabile”, intervenne Henry, “Chiunque poteva procurarsi un camice bianco, entrare e iniettarle qualcosa, o metterle un cuscino sulla faccia. Anche con una sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro. No. Era troppo pericoloso. Era meglio se Elliott continuava a crederla morta”.
“L’ideale sarebbe stato trovare le prove che aveva assoldato quei mercenari”, disse Jo, “Ma come avete visto anche voi, non ce n’erano. Oltre alle vostre indagini, Henry e Lucas hanno fatto i salti mortali per scoprire qualcosa, purtroppo senza risultati.”
“Lucas?!”, esclamò Hanson sgranando gli occhi, “Vuoi dire che anche Lucas è coinvolto??”
Jo si morse il labbro pentendosi di essersi lasciata sfuggire quell’informazione.
“Sono stato io a coinvolgerlo”, Henry riprese il discorso per togliere Jo dall’imbarazzo, “Avevo bisogno di qualcuno che mi coprisse in laboratorio mentre mi occupavo di Jo. E poi… di qualcuno che vi consegnasse il messaggio, senza ricorrere a email o telefonate che potevano essere rintracciate”.
“Allora è stato Lucas a mettere quelle buste sulle nostre scrivanie!”, il capitano scosse la testa come se si ritenesse stupida per non esserci arrivata prima, “E abbiamo anche controllato le telecamere di sorveglianza, eppure non ci aveva nemmeno sfiorato il sospetto che fosse stato lui”.
“Lucas ha fatto solo quello che io gli ho chiesto di fare”, lo difese Henry, “Non ha alcun tipo di responsabilità. Si sentiva in colpa a mentirvi, ma lo ha fatto per mantenere una promessa fatta a me”.
“Io… non lo sto giudicando”, disse Hanson, “Però… diavolo, lo sapevano tutti tranne noi due?”
“No, solo io e Lucas”, lo rassicurò Henry. Evitò di menzionare Abe. Tanto lui non faceva parte del dipartimento, quindi tecnicamente non contava.
“E allora visto che non si poteva incriminare per l’omicidio di Jo, hai deciso di accollargli un altro capo d’accusa?”, lo incalzò il capitano per fargli proseguire il racconto.
“Sì. Ero sicuro che sotto pressione, e con la sicurezza di non essere ascoltato da nessun’altro, avrebbe confessato. Era troppo narcisista per non farlo”, Henry quasi fece una smorfia a ripensare a quell’individuo.
“Ma… la registrazione, allora? Come hai fatto a non morire? Gli spari e tutto?”, chiese Hanson a raffica.
“Trucchi di scena”, mentì Henry, e Jo trattenne involontariamente il fiato, “Il giorno prima mi ero introdotto nel suo ufficio e avevo collocato una microspia nella presa di ventilazione. Poi avevo controllato i cassetti e avevo visto che aveva una pistola, e ho sostituito i proiettili veri con un caricatore a salve”, Henry lo disse con convinzione, sperando che loro ci credessero senza indagare ulteriormente, “Poi un po’ di sangue finto, una pallina da tennis sotto l’ascella per rallentare il battito cardiaco in caso di un controllo… quando mi hanno gettato nel fiume, ho nuotato fino a riva, ho raggiunto Jo e insieme siamo venuti qui”.
“E come ci è arrivata quella registrazione sul mio computer? Come avete fatto a lasciare il paese?”, interrogò il capitano perplessa.
“Ecco…”, esitò Jo lanciando uno sguardo a Henry.
“… questa parte potrebbe essere un tantino illegale”, ammise Henry.
“Perché fino ad adesso era tutto perfettamente nei limiti della legge”, commentò Hanson ironicamente.
“Diciamo che sono ricorso a qualche conoscenza con un lavoro di dubbia reputazione”, rispose alla fine Henry restando sul vago. “Si conoscono tanti falsari, quando si commercia in antiquariato”.
“Vi abbiamo contattati il prima possibile”, aggiunse Jo, “Aspettavamo solo la condanna per essere sicuri che Elliott fosse fuori gioco e non avesse più scagnozzi in giro a eseguire i suoi ordini”.
“Ma…”, il capitano aggrottò le sopracciglia, riflettendo, “Tutta questa storia… mi sembra un azzardo enorme. Soprattutto nel tuo caso, Henry”, senza rendersene conto continuava a dargli del tu, “Voglio dire, se non fosse stato Elliott a spararti? Se fosse stato quell’altro? Se ti avessero buttato da… da, che ne so, il quinto piano? C’erano troppe variabili di rischio…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata fulminea. Ovviamente Hanson e Reece non avevano idea della condizione di Henry, e le obiezioni del capitano erano del tutte legittime.
“Ehm… sono stato fortunato”, disse Henry evasivamente, “Diciamo che ho… scommesso… e sono stato fortunato”.
Troppo fortunato”, commentò il capitano sempre con quell’espressione pensosa.
“Fortunato o non fortunato”, intervenne Hanson, “Sei stato maledettamente geniale, Doc.”
“Posso affermare senza dubbio che se non fosse stato per Henry io non sarei qui”, disse Jo, approfittando del commento di Hanson per sviare il discorso dalle domande del capitano, “Anche se i rimedi che abbiamo adottato possono sembrare estremi. Ma dopo che sono entrati in casa mia… non mi sentivo più al sicuro”. La sua mano si mosse per prendere quella di Henry sul tavolo, ma poi si fermò a metà strada e tornò discretamente indietro. Il capitano però colse quel movimento, a ulteriore conferma dei suoi sospetti. Ancora una volta si diede della stupida per non esserci arrivata prima.
“Jo, saresti dovuta venire da me”, osservò, accantonando per un attimo tutte le domande che le si accavallavano in testa, “Lo sai che avresti potuto contare su di me”.
“Non sarebbe stato giusto”, rispose Jo scuotendo la testa, “Avrei compromesso la sua posizione, la sua carriera… per aiutarmi in un’impresa che probabilmente si sarebbe conclusa male, per entrambi. Non potevo accettarlo. E lo stesso valeva per te, Hanson. Tua moglie, i tuoi figli… Non avrei mai potuto coinvolgervi e chiedervi di aiutarmi.”
“Ma hai coinvolto Henry, però”, il tono del capitano si fece leggermente insidioso. Non riusciva a capire perché Henry e Jo continuassero a nascondere il loro rapporto.
“Sarebbe più corretto dire che io mi sono coinvolto da solo”, intervenne Henry precedendo la risposta di Jo. “Non mi ha chiesto di fare nulla, semmai il contrario”.  E senza esitazione prese e strinse la mano di Jo. Lei rispose alla stretta intrecciando le proprie dita alle sue.
“Henry”, disse il capitano dopo aver osservato quel gesto senza commentarlo, “C’è una cosa che ti devo chiedere. Una cosa che mi frulla in testa da quando siamo arrivati qui”. Henry le fece un cenno del capo per farle capire che stava ascoltando. “Certo”.
“Quando siamo arrivati qui, abbiamo parlato con un tizio in un pub, uno che la zona la conosce bene”, continuò il capitano. Hanson si raddrizzò sulla sedia, incuriosito, capendo dove stava andando a parare il discorso. “Ci ha raccontato un po’ di… leggende, su questo posto. E ha detto che la famiglia Morgan si è ufficialmente estinta”.
Il capitano non staccava gli occhi da Henry, aspettandosi una sua reazione rivelatrice. Lui, invece, era completamente impassibile.
“Quindi quello che ti voglio chiedere”, proseguì Reece, “È se quello che ha detto è vero”.
“Scommetto che avete parlato con il vecchio Nathan, vero?”, rispose Henry con un mezzo sorriso, “Fa lo scorbutico, ma gli piace far vedere che è informato sulla storia locale. Per rispondere alla sua domanda… sì e no”.
“Che significa, sì e no?”, chiese Hanson aggrottando le sopracciglia.
“Significa che sì, la famiglia si è ufficialmente estinta. Ma no, non si è estinta per davvero”. L’espressione di Henry continuava a essere impassibile, mentre Jo stava dando dei segni di nervosismo. Strinse ancora più forte la mano di Henry e gli disse, a bassa voce anche se sapeva che gli altri l’avrebbero sentita: “Non sei obbligato”.
“Non fa differenza a questo punto, non credi?”, le rispose lui guardandola dritto negli occhi per qualche secondo. Il capitano provò ancora quella sensazione di ignoranza, la sensazione che le stesse sfuggendo qualcosa. Qualcosa che, a quanto pareva, Jo sapeva.
“Quindi questo posto è tuo?”, intervenne Hanson.
“Sì”, rispose Henry staccando gli occhi da Jo, “Sì. È mio. L’ho comprato un po’ di anni fa.”
“Ventotto anni fa”, precisò il capitano, “Ventotto anni fa, così ci ha detto quel… Nathan. Epoca in cui tu avresti dovuto avere sì e no dieci anni”.
“Sì”, confermò Henry con un’espressione indecifrabile, “Avrei dovuto”.
“Ma quindi… che stai cercando di dire?”, chiese Hanson appoggiando i gomiti sul tavolo.
“Sto cercando di dire”, disse Henry, e il suo tono divenne leggermente più distaccato, quasi autorevole, un tono che il capitano non gli aveva mai sentito, “Che c’è sempre un fondo di verità, nelle leggende. E che a volte è meglio starne lontano” Si voltò per un secondo verso Jo, poi tornò a guardare Hanson e il capitano, “Ora che sapete che Jo sta bene, e che non avete alcun tipo di responsabilità per quello che è successo, è meglio se tornate a New York, riprendete le vostre vite, e dimenticate quello che avete visto o sentito qui.”
Era stata una risposta talmente elusiva che il capitano sentì di saperne ancor meno di prima. Di nuovo, quel tono, quell’espressione di Henry le risultavano del tutto nuovi: era veramente lo stesso uomo che lavorava per lei a New York?
“Ma quindi tu sei o non sei un Morgan? Il tuo nome è… vero?”, incalzò il capitano assumendo d’istinto il tono degli interrogatori.
“Sì, è vero”, rispose Henry senza sbilanciarsi.
“Ma se l’ultimo discendente diretto è morto più di due secoli fa, com’è possibile?”, intervenne Hanson.
Henry fece una pausa, abbassando lo sguardo per la prima volta. Jo si mosse a disagio sulla sedia. Alla fine Henry riprese a guardarli, e disse, in tono quasi misterioso:
“E chi l’ha detto che l’ultimo discendente diretto è morto?”
Reece si stava stancando di quel gioco di allusioni e di non risposte.
“Quell’uomo nel ritratto”, sbottò, indicando il corridoio, “È un tuo antenato?”
Jo lanciò un’occhiata ad Henry e trattenne visibilmente il fiato. Sembrava in ansia per quella risposta più di quanto non lo fosse Henry.
“No”, rispose Henry, e quel no suonò lapidario come una pietra che cade in acqua.
“Quindi non sei della famiglia”, concluse Reece.
“Non ho detto questo”, ribatté Henry.
“Non ci sto capendo più niente, Doc”, ammise Hanson, “Famiglia o non famiglia, Morgan o non Morgan…”
“Non è necessario che voi capiate”, disse Henry, “L’importante è che sappiate che Jo sta bene. Tutto il resto non conta. Ci sono segreti che è meglio che rimangano tali”. 
“Che tipo di segreti?”, incalzò Reece ignorando il suggerimento di Henry di lasciar perdere.
“Non importa”, fu Jo questa volta a rispondere, “Davvero, non importa. Non fate altre domande, per favore. Non costringeteci a mentire, non sarebbe giusto né per voi né per noi”.
Il capitano si stupì dell’utilizzo di quel plurale. In che cosa erano coinvolti lei ed Henry?
“Jo, tu sei al corrente di questa cosa, qualunque essa sia?”
“Sì”, rispose Jo, stringendo forte la mano di Henry.
Reece esitò per qualche istante. Era la prima volta che vedeva Jo così. La conosceva ormai da anni e l’aveva sempre considerata una sua protetta, una sua favorita. Ne aveva seguito la carriera e l’aveva guidata, rivedendo in lei sé stessa da giovane, quando si era fatta faticosamente strada verso il titolo di capitano a suon di arresti e nottate in bianco. In Jo riscopriva la stessa tenacia, determinazione e intuito che aveva anche lei, quando era detective. Ma ora la Jo che aveva davanti sembrava un’altra persona: aveva preso le parti di Henry, qualunque cosa questo significasse, e non dava segno di voler tornare indietro. La Jo Martinez che conosceva lei era una persona retta e onesta: se stava difendendo Henry, non poteva essere nulla di grave o di immorale. Oppure sì?
“È qualcosa di illegale?”, chiese alla fine il capitano, cercando di mettere ordine nella miriade di dubbi e indizi che le vorticava in testa.
Jo ed Henry si scambiarono uno sguardo sinceramente dubbioso.
“No”, rispose Jo esitando.
“Non proprio”, corresse Henry a sua volta.
“Dipende dai punti di vista… cioè, dipende dagli aspetti considerati”, aggiunse Jo.
“È complicato”, disse ancora Henry.
“Ma niente di criminale”, specificò Jo.
“Illegale ma non criminale?”, chiese Hanson confuso.
“Diciamo che è un’illegalità necessaria ma non voluta”, disse Henry.
Il capitano si appoggiò allo schienale della propria sedia, stanca di tutta quella confusione. Guardò a lungo Jo, la sua mano in quella di Henry, la sua espressione risoluta nel voler tenere segreta qualunque cosa stesse nascondendo, e per la prima volta in vita sua Reece pensò che poteva lasciar perdere. Per affetto verso di loro, poteva lasciar perdere. In fondo, fino a poche ore prima provava solo rabbia e dolore perché credeva fossero morti. Invece erano vivi e stavano bene. Non poteva bastare?
“Se mi garantite che non è nulla di grave, né di criminale, e che posso stare tranquilla, e non siete coinvolti in niente di pericoloso allora… smetterò di fare domande”, disse il capitano, con un sospiro.
Jo sospirò a sua volta di sollievo.
“No, niente di grave”, garantì, “Assolutamente niente di criminale, anzi, semmai il contrario”, aggiunse con un’occhiata a Henry.
“Insomma”, borbottò lui in risposta, “Non esageriamo”.
“Nulla di pericoloso”, continuò Jo, “Solo qualcosa di molto complicato.”
“Va bene”, concesse Reece, “Mi basta sapere che state bene”.
“Anche a me”, annuì Hanson, e Jo ed Henry si scambiarono un’altra occhiata, commossi.
“Che farete adesso?”, chiese Hanson, “Siete ufficialmente morti”.
Jo guardò Henry per qualche secondo prima di rispondere.
“In realtà, non ci abbiamo ancora pensato”, disse, “Aspettavamo la condanna di Elliott. Poi volevamo metterci in contatto con voi… e adesso… non lo so. Ci penseremo”.
“Ma questo significa che non… non ci rivedremo più?”, Hanson sembrava affranto di fronte a quella prospettiva.
“Beh, non negli Stati Uniti, no”, rispose Henry.
“Però ci possiamo tenere in contatto”, aggiunse Jo, “Vi faremo sapere dove ci troveremo e… potrete venire a trovarci quando volete. Probabilmente resteremo qui in Europa… qui in Inghilterra, anche… magari in un posto più caldo, eh?”, scherzò rivolta a Henry.
“L’Inghilterra non è nota per il clima caldo”, rispose Henry ironicamente, “Sud della Francia, che ne dici?”
“Non parlo francese”, obiettò Jo.
“Lo parlo io”, ribatté Henry.
“Se andate nel sud della Francia”, intervenne Hanson dopo aver osservato, divertito, quello scambio di battute, “Mi raccomando, procuratevi una casa con una bella stanza degli ospiti, perché è sicuro che vi vengo a trovare.”
“Visto che non sei mai stata in Europa, Jo, magari possiamo fare un giro delle capitali…”, suggerì Henry, “Poi potrai scegliere la città che ti piace di più”.
Nonostante la sua promessa di non fare più domande, il capitano Reece non poteva fare a meno di chiedersi come Henry e Jo avrebbero finanziato tutti quei progetti di viaggio di cui stavano parlando. Anche i biglietti aerei con cui erano arrivati in Inghilterra… li aveva pagati Henry? Da dove proveniva tutto quel denaro?
“Ma…”, domandò prima di riuscire a trattenersi, “Ma come farete a mantenervi? A pagare i viaggi, a trovarvi un lavoro? Jo, tu sei prima di tutto una poliziotta.”
Jo sembrò ancora una volta a disagio.
“Ehm… pensavo di… insomma, magari potremmo aprire un’agenzia investigativa privata”, rispose Jo, “E fino ad allora… Henry ha qualche risparmio da parte”, aggiunse, vaga.
“Io posso pur sempre lavorare in ospedale”, disse poi Henry, “Prima di passare a medicina legale lavoravo in pronto soccorso.”
“Davvero, Doc? Non lo sapevo”, Hanson spalancò gli occhi, stupito. “Non eri tipo un becchino?”
Per la prima volta il capitano scorse una nota di disagio sul viso di Henry.
“Sì… ecco… prima di quello lavoravo al pronto soccorso”.
“Tra le altre cose”, borbottò Jo con un mezzo sorriso.
In quel momento gli occhi di Hanson si spalancarono ancora di più, e il detective proruppe in una esclamazione del tutto inaspettata:
“Ma porca puttana! Ci sono arrivato adesso!”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata perplessa prima di rivolgersi a Hanson:
“Arrivato… a cosa?”, chiese Henry con una leggerissima punta di ansia nella voce che non sfuggì al capitano Reece.
“Che voi due andata a letto insieme! Figli di puttana, e non mi avete detto niente!” Vedendo l’espressione di Henry e il rossore sulle guance di Jo, scoppiò a ridere. “Me l’avete fatta sotto il naso”, sghignazzò, “Che bastardi!”
“Beh ecco noi…”, cominciò Jo guardando Henry in cerca di aiuto, che intervenne:
“… non era nostra intenzione, solo non volevamo…”
“… non volevamo creare situazioni imbarazzanti”, concluse Jo.
“C’è da dire che non vi manca il talento della discrezione”, disse Hanson sempre ridendo tra sé e sé, “E io che ci lavoravo fianco a fianco ogni giorno. Però forse ci sarei dovuto arrivare… arrivavate insieme, andavate via insieme, e le serate in laboratorio… E lei, capitano, l’aveva capito?”
“No”, ammise il capitano, divertita, nonostante tutto, dalla reazione imbarazzata di Henry e Jo, “L’ho capito anch’io solo oggi”.
“L’idea originale era semplicemente dimostrarvi che potevamo lavorare insieme senza problemi”, si affrettò a spiegare Jo, “Ma poi i giorni sono diventati settimane, le settimane mesi, e sembrava non ci fosse mai il momento buono per dirlo…”
“Aspetta, aspetta”, la interruppe Hanson, “Le settimane sono diventate mesi? Da quanto tempo va avanti?”
“Quattordici mesi”, rispose Henry.
“Più di un anno”, rispose Jo contemporaneamente.
Più di un anno?”, Hanson strabuzzò gli occhi, “Più di un anno? E io non mi sono accorto di niente!”
“Ehm… siamo stati discreti”, disse Jo con ancora un po’ di rossore sulle guance.
“C’è qualche altra sorpresa, visto che siamo in tema?”, chiese Hanson facendo roteare la propria tazzina vuota sul piattino, “E, non avrei mai pensato di dirlo, Doc, ma si potrebbe avere dell’altro thè?”
“Certo”, Henry fu evidentemente grato di quella interruzione e si alzò, portandosi dietro la teiera, “Un solo giorno di vento e nebbia, e sei già diventato un inglese”. Sparì dietro alla stessa porta che aveva già utilizzato, e quando ricomparve rimise la teiera a scaldare sulla fiamma del camino.
“Volete fermarvi per la notte qui? Di stanze ce ne sono in abbondanza”.
“Per essere di ritorno a New York entro lunedì dobbiamo partire domattina”, rispose il capitano, “Quindi no, sarà meglio che torniamo a Londra, entro stasera.”
Henry annuì e si premurò di riempire sia la tazza di Hanson che del capitano con l’acqua che si era appena scaldata.
“Vi posso accompagnare in macchina fino a Dorchester, se volete”, propose Henry, “O potete prenderla voi, una macchina, e lasciarla poi in paese, poi la recupero. Se non avete problemi a guidare dal lato sbagliato della strada… che per noi sarebbe quello giusto”.
“A vostro rischio e pericolo”, commentò Jo sogghignando, “Henry alla guida di un’auto è un pericolo pubblico”.
“Questo non è vero”, ribatté Henry fintamente indignato, “Non ho mai imparato a guidare dal vostro lato della macchina, ma dal nostro lato della macchina me la cavo benissimo”.
“E poi hai la patente scaduta”, aggiunse Jo.
“Questo…”, cominciò a ribattere Henry, prima di correggersi, “Sì, ok, questo è vero.”
“L’autobus andrà benissimo”, disse Hanson sorseggiando il suo thè, “Sempre che ci sia”.
“Sì, c’è…”, confermò Henry, e con un gesto che gli avevano visto fare molte volte afferrò il suo orologio e lo aprì per verificare l’ora, “Fra mezz’ora”.
“Allora sarà meglio muoversi”, disse il capitano controvoglia, “Se vogliamo raggiungere la fermata tra mezz’ora”.
Ci fu qualche secondo di silenzio di fronte alla prospettiva di separarsi.
“Sicuri che dovete andare?”, chiese Jo, e nonostante tutto la sua voce vacillò, “Ci mancherete”.
“Anche tu, Jo”, sospirò Hanson, “Ma ci vediamo in Provenza, eh? Io ci vengo di corsa, appena vi siete sistemati”.
“Contaci”, disse Jo, e a malincuore si alzò per accompagnare Hanson e il capitano all’ingresso. Quando entrarono in corridoio, i loro sguardi furono di nuovo inevitabilmente attratti dal ritratto sopra al camino. Nonostante la promessa di smetterla con le domande, i loro occhi lampeggiavano di punti interrogativi. Henry li sorpassò e li precedette per fare loro strada verso l’ingresso, ma quando vide che non lo stavano seguendo, immobili com’erano a fissare quel ritratto, tornò indietro di qualche passo, le mani nelle tasche.
“Sì, in effetti quel ritratto non è un granché”, commentò misteriosamente, “Non mi è mai piaciuto.” Poi si voltò e continuò a percorrere il corridoio. Hanson e il capitano si scambiarono un’occhiata perplessa ma poi decisero di non dire nulla, e s’incamminarono a loro volta, seguiti da Jo che chiudeva il corteo.
Aperta la porta di ingresso, furono investiti da una ventata di aria gelida.
“Sicuri di non volere un passaggio?”, chiese Henry vedendoli rabbrividire. “Non sono così pessimo alla guida come dice Jo”.
“Grazie, ma camminare ci farà bene”, rispose il capitano, con uno sguardo di intesa in direzione di Hanson, “Abbiamo molte cose su cui riflettere”.
“Allora… addio”, Hanson aprì lievemente le braccia e i suoi occhi si inumidirono di tristezza.
“No, Hanson”, lo corresse Jo abbracciandolo, “Arrivederci”.
Dopo che furono spariti lungo la strada che portava al cancello, Jo si voltò verso Henry, chiudendosi la porta alle spalle.
“In effetti, Henry”, disse, posandogli le mani sulle braccia, “Che cosa faremo, ora? Non ne abbiamo mai parlato”.
“Sbaglio, detective, o avevi un viaggio in sospeso a Parigi?”, replicò lui circondandole la vita con le braccia.
“Sì, hai ragione. Stavo aspettando l’uomo giusto con cui andarci.” Jo si strinse a lui e appoggiò la testa sul suo petto, “Sai, una volta qualcuno mi ha detto che a Parigi ci si può perdere solo con una persona speciale”.
“E l’hai trovata, la persona speciale?”
Jo alzò lo sguardo eloquentemente verso di lui.
“Allora facciamo le valigie, detective Martinez?”
“Sì, facciamo le valigie, dottor Morgan”. 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Forever / Vai alla pagina dell'autore: Claire77