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Autore: PawsOfFire    10/11/2016    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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“Come si sente, Herr Faust?”
“Determinato, assolutamente. Questo incarico è favolosamente ambizioso, ma il futuro del Reich è al sicuro nelle mie mani”
Non ricordavo come fossi finito in questo posto. Credo fosse una specie di comizio gigantesco come quelli che si vedono al cinema. A quanto pare il pezzo forte sono io, semisepolto sotto una marea di mostrine e rispetto reverenziale.
Il pubblico era esploso in un boato d’approvazione, un’ovazione unanime nei confronti di colui che, indubbiamente, era il migliore soldato del fronte orientale.
“La sua genia è talmente preziosa che sarebbe un peccato se svanisse con una eventuale e prematura morte al fronte. Dunque, è necessario che presti regolare servizio negli speciali reparti nascite.” *
Mostrai il mio sorriso migliore, salutando alcune dolci fanciulle con fare lascivo.
Mi divoravano con gli occhi, le golosone. Mettetevi in coda, carissime. C’è un po’ di Bastian per tutte voi…
“Sono lusingato, Herr. Questo lavoro non necessita paga. Per me è un onore, sono soltanto un piccolo ed umile servo della Nazione...ed ora mi scusi, ho molto lavoro da fare”
Ci congedammo con un’affabile stretta di mano, prima di allontanarmi verso l’orda di insaziabili fanciulle che allungavano la mano verso di me con la speranza di toccarmi come una specie di feticcio portafortuna.
Con movimento seducente mi sfilai gli occhiali da carrista, lasciando scoperti i miei profondissimi occhi azzurri. Toccate dal mio sguardo uhm...penetrante, alcune svennero in preda ad un’estasi quasi divina.
Avidissime, le delicate pulzelle mi saltarono addosso ferocemente, riducendomi a brandelli i vestiti e straziandomi la carne con le dita.
Baci, graffi e morsi vennero lasciati sulla mia pelle in pegno d’amore. Ferite sempre più profonde ed io, incapace di reagire, annaspavo in una dolce e lieta estasi, sempre più profonda, culminando infine in un dolce piacere…
“Herr Faust”
“Vi prego, dolci signore, mettetevi in fila, non siate ingorde...”
“Herr Faust, sono il Dottor Biermann, si svegli.”
“Si metta in fila anche lei, il buon Bastian non discrimina nessuno...”
“Se non fosse sotto anestesia potrei denunciarla per queste parole, con buona grazia di tutti”
Avevo gli occhi pesanti. Aprendoli, un fascio di luce mi investì, costringendomi a chiuderli nuovamente.
Sollevai un braccio, indolenzito. Aiutandomi con l’altra mano riuscivo a distinguere i contorni delle figure...
“Cosa...cosa mi è successo?”
“È stato ferito, Herr. Se non fosse stato per i suoi uomini probabilmente sarebbe morto…E va bene, morto no, ma sarebbe potuta andare molto diversamente, si fidi.”
 “Mi dica una cosa, dottore.”
“Cosa?”
“Dove sono le fanciulle?”
“Quali fanciulle?”
“Quelle fanciulle, le ragazze del progetto nascite. Erano centinaia e mi desideravano intensamente...” mugolai, rigirandomi sul lettino alla ricerca di una posizione migliore.
Nonostante la mia temperanza d’acciaio, quel giorno, avevo uno spasmodico bisogno di loro.
Oppure una doccia fredda, nonostante preferissi caldamente la prima opzione...
“Deve aver fatto un bellissimo sogno, a quanto pare. Se lo goda finché può. Ora, con permesso, devo andare a controllare gli altri pazienti. C’è un tale che ha perso tre dita durante un’esplosione ed io non vedo l’ora di levargli tutta la mano...con permesso...”
Così il dottor Biermann mi abbandonò, seguendo a grandi falcate due deliziose infermiere che trasportavano su una barella un pover’uomo con una vistosa fasciatura alla mano.
Tastai il mio, di braccio. Con un singulto, immediatamente mollai la presa. Quel dannato traditore doveva avermi sparato.
Ah! Che mira disgustosa, il traditore! Poteva uccidermi facilmente...invece tutto ciò che era riuscito a fare era una strisciata di proiettile...nonostante fossi fermo…
 
 
Chiamai i miei sottoposti. Circondando il mio capezzale come un lebbroso in procinto di morire, gli uomini posarono i cappelli ai piedi del letto, chinando la testa in un rispetto riverenziale.
“Capitano...” Klaus si fece avanti, tossendo rumorosamente. Batté un paio di volte le mani sul petto, come se stesse soffocando.
Poi parlò.
“Il fuggiasco...il traditore...non so come sia potuto succedere, sono desolato...”
A questo punto fui io a tossire e lo feci il più forte possibile, come se volessi rigurgitare i miei polmoni e, possibilmente, tutto ciò di cui era composto il mio corpo.
I miei uomini fecero qualche passo indietro, scambiandosi sguardi colmi di preoccupazione. Da lontano, il dottor Biermann mi lanciò un’occhiata soddisfatta, facendo scintillare un paio di enormi forbici metalliche.
“Sto bene, sto bene” Precisai, schiarendo la voce.
“Siete voi ad essere malati. Era esattamente dietro di me e non avete osato fermarlo...nemmeno un misero tentativo”
“In realtà, Herr, il cane ci ha provato ma...”
Il cane! Mi alzai in piedi, mugolando sommessamente. Tom cercò di sostenermi, appoggiando tutte le cinque dita sulla ferita. Grugnii per il dolore e persi l’equilibrio. Caddi stupidamente sul lettino, aiutato da quella manica di imbecilli che sembravano più propensi a peggiorare il mio soggiorno in infermeria anziché agevolarlo.
“Dov’è Fiete?”
“Fuori, non lo hanno lasciato entrare.”
Sono felice che stia bene. È un dolce cucciolo di circa dieci chili, coraggioso come un leone.
“Gli ha strappato la mostrina, Herr. Ora sappiamo chi sia”
“Lo sapevamo già”
“Ma ne ora abbiamo la certezza”
“Anche prima ne avevamo la certezza”
“Ma ora siamo più certi della certezza”
“...Andatevene” Implorai, facendo sprofondare la testa nel cuscino e socchiudendo gli occhi.
Si congedarono con tono sollevato, sparendo dalla mia vista in un colpo d’occhio.
 
 
Odiavo quel posto. l’ospedale... la puzza di sangue e disinfettante mi dava la nausea, letteralmente. Stranamente non c’erano sono molti feriti, così il dottor Biermann poteva passare le giornate diviso tra le infermiere ed i suoi amati soldi.
L’armata corazzata non perdona, niente come un carro armato può trasformarsi in una vera e propria trappola mortale. Chi viene colpito spesso vi rimane, ahimè.
Era tardo pomeriggio e, ancora in convalescenza, non trovai niente di meglio da fare che scrivere una lettera a mio fratello...dovevo assolutamente raccontandogli di quanto desiderassi farmi crescere i baffi a manubrio per fare la caricatura di Guglielmo secondo. Concentratissimo, stavo colmando la lettera di vanterie quando udii un forte vociare. Infermiere e dottori sciamavano a fiumi tra le stanze, sistemando lettini ed imprecando a gran voce. Qualcuno urlava, altri piangevano. Di sfuggita vidi questo soldato abbandonato nella sua branda che strillava come un disperato. Avrà avuto sì e no vent’anni e chiamava a gran forza la sua famiglia, in preda a deliri febbricitanti. Le gambe erano state tranciate di netto e non c’era posto per operare. Persi alcuni battiti quando lo riconobbi.
Era un ragazzetto di poco conto, una nuova leva. Si era presentato a me tempo fa con un enorme sorriso ed un saluto riverenziale e per questo gli avevo permesso di godere della mia compagnia.
Non ricordavo come si chiamasse, né la sua provenienza.
Cosa serve, adesso?
Quando un chirurgo si liberò oramai era troppo tardi. Le infermiere avevano tentato il miracolo ma non c’era più posto per lui. Spirò in un lago di sangue mentre l’equipe tentava l’impossibile.
Succedeva tutti i giorni, era oramai normale. C’è una specie di disgustoso appagamento nel pensare che sia successo a lui e non a me. Stracciai la lettera e mi rigirai sul fianco, osservando il muro bianco e marcio fin quando il sonno non ebbe la meglio su di me.
 
 ╬
 
Passarono i giorni.
Tempi quieti in cui non successe nulla, se non l’allungamento miracoloso delle vite di molti soldati che, finalmente, ebbero tempo di riposare.
Avevamo diversi passatempi: alcuni giocavano a carte, altri bevevano ed altri ancora giocavano a carte bevendo. Io, modestamente, facevo parte dell’ultimo gruppo.
Prima di finire i soldi e creare un giro di strozzinaggio tra camerati, decidemmo di organizzare un torneo di calcetto. Si sarebbe tenuto domenica, in modo tale da avere tutta la settimana per allenarci.
Raccolsi il guanto di sfida con determinazione. Essendo il capitano delle “furie nere” sottoposi i miei uomini ad un rigido allenamento: anticipando la sveglia di un’ora iniziavamo l’allenamento con una corsa di circa dieci chilometri, proseguendo con alcuni semplici esercizi. Cento piegamenti sulle gambe e cento sulle braccia una volta al giorno per sette giorni sarebbero stati sufficienti per garantire la vittoria. Facevamo tutto in gran segreto, nascondendoci nei boschi fitti, lontani da sguardi indiscreti di eventuali concorrenti desiderosi di strapparci la nostra preannunciata e meritata vittoria.
Io, ovviamente, non avevo bisogno di questo allenamento. D’altronde sono il loro capitano, sia nel gioco che nella vita reale. So decidere cosa sia meglio per me e, soprattutto, per loro.
Martin, nel tempo libero, adorava costruire cose. Sotto mio suggerimento aveva creato un pallone speciale per i nostri allenamenti top-secret, un sasso di circa cinque chili completamente levigato che rotolava meravigliosamente. Ci accingemmo dunque a pregustarci un allenamento vero in una terra piana e battuta, l’ideale per una partita di calcio.
Quando diedi il calcio d’inizio, però, la palla rotolò pigramente per qualche metro. prima di schizzare in aria con un lapillo, sollevando una nuvola di terra ed erba.
Eravamo finiti in un campo minato.
Nessuno cercò di riprendersi la palla.
Arrivò il sabato. Una bellissima giornata di sole, oltretutto. Come al solito ci svegliammo di buona ora per andare ad allenarci tra i campi d’erba e terra battuta, dove l’ultima neve stentava a sciogliersi.
Al nostro ritorno la brutta notizia: non ci sarebbe stato nessun torneo di calcetto domenica.
Maik trovò estremamente divertente il fatto che avremmo dovuto riempire di calci i russi e non uno stupido pallone.
Io, a sua differenza, non lo trovai così divertente. Feci notare al Generale che non potevamo essere inclusi nella missione perché avevamo la nostra personalissima da seguire. Lui mi rise in faccia e, congedandomi con una pacca sulle spalle, mi disse di fare l’uomo e di tirare fuori le palle.
Ora, io ho una paura fottuta di quell’uomo. Più di ogni singolo stalinista presente da qui alla Siberia. Ingoiai qualche pasticca giusto per rilassare un po’ i nervi. Forse per questo presi un po’ troppo alla lettera le sue parole e, per punizione, venni cacciato in prima linea per questo gesto che considerò estremamente irrispettoso.
Non imparai la lezione nemmeno questa volta.
 
 
Marciammo in colonna, cigolando rumorosamente tra le scie lasciate dai nostri compagni. Ironia della sorte, aveva ripreso a nevicare. All’alba scendevano i soffici e minuscoli cristalli, sospinti da un rivolo di gelido vento, prima di trasformarsi in una vera tempesta dopo mezzogiorno, rallentando nettamente il nostro cammino. Ci fermammo.
I miei sottoposti sembravano piuttosto tranquilli, a modo loro. C’era chi come Tom fremeva per poter entrare a buon merito nella storia e chi, come Maik, aspirava semplicemente ad ampliare la sua collezione di cimeli russi. Aveva notato, con feroce disappunto, che tra i suoi macabri cimeli mancava un paio di occhiali da carrista russi. Avrebbe saccheggiato ogni T-34 che avremmo incontrato pur di poterne ottenere un paio.
Martin e Klaus parlavano di diserzione, raccontandosi truci storie di carri armati dati alle fiamme e degli uomini arsi vivi al loro interno come in un toro di Falaride moderno.
Io non avevo esattamente idea su come pensarla. Avevo preso un po’ di roba ed ero stordito come una campana, con tanto di tintinnio alle orecchie tonante come il duomo di Monaco.
“Ehi, Weisz”
“Capitano qui è Tom Weisz che le parla”
“Lo so, sono stato io a contattarla”
“Vede qualcosa all’orizzonte?”
“No, ma senta: sa qual è il colmo per un graduato? Avere come fratello minore un Maggiore! Eh, che ne pensa, Weisz? Weiz?”
Quel bastardo aveva interrotto la comunicazione. La riattivai.
“Ed il colmo per per un crociato? Cosa fanno tre russi al bar?”
Questa volta mi mandò a quel paese talmente forte che non ebbi bisogno delle cuffie per sentirlo.
“Adesso la smetta con le sue stronzate! Sono occupato, io!”
“Weisz, è il Capitano Bastian Faust che le parla”
Il cielo era diventato tragicamente terso.
Sopra ogni grigiore un piccolo puntino ronzava chiassosamente sulle nostre teste. Planò leggiadro, sganciando una bomba a pochi chilometri di distanza.
Una, due, tre. La squadriglia mancò il ponte e risalì virando in cielo, rimettendosi in formazione.
“Prega che l’aviazione russa non ci veda. C’è un’intera squadriglia di bombardieri sulle nostre teste che potrebbe mandare a puttane la nostra armata corazzata”







Note:
*Una visione personale del capitano riguardo il progetto Lebensborn 
   
 
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