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Autore: _NimRod_    12/11/2016    2 recensioni
In piedi nello stretto corridoio centrale del treno, il ragazzo guardò il sedile accanto a sé. La tizia con il taglio alla Semola e gli anfibi si esaminava le unghie smaltate di rosso scuro. Era quasi certo ci fosse un girone speciale dell’Inferno riservato unicamente a coloro che nell’ora di punta occupavano la seduta di fianco alla propria con giacca e borsa, costretti per l’eternità a rimanere scalzi, in piedi su braci ardenti, impossibilitati a sedersi per via delle giacche e delle borse inamovibili che ricoprivano ogni superficie rialzata del girone. Aveva un quarto d’ora scarso di treno davanti, era mattina presto e si moriva di caldo: non aveva per niente voglia di mettersi a sindacare e probabilmente dover discutere per uno stupido sedile per una questione di principio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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 CAPITOLO PRIMO



 

 

“Titti, non va.”

Valentino aprì gli occhi di scatto. La sua sorellina era in piedi accanto al letto con aria imbronciata e stava premendo ripetutamente il dito indice sullo schermo del cellulare del fratello.

Le prese delicatamente il dispositivo dalle piccole mani e sospirò strofinandosi l’occhio destro con la mano libera: “Devi schiacciare il tasto qui di fianco, te l’ho spiegato.”

“Ma l’ho fatto!”

Premette il pulsante laterale un paio di volte e lo schermò continuò a rimanere nero. Il cavo del caricabatterie era staccato dal cellulare, le aveva raccomandato di non toglierlo se lo trovava collegato e voleva giocare, e Ilaria era sempre ubbidiente. Guardò sua sorella, già vestita e con i capelli biondi raccolti in una perfetta coda di cavallo alta. Di solito quando lui usciva per andare in stazione la bambina dormiva ancora.

“Merda!” esclamò scalciando via il piumone e catapultandosi fuori dal letto, cercando di non travolgere la sorellina che si era messa a ridere a crepapelle per la parolaccia appena sentita. Si mise a correre per l’appartamento in cerca della madre: l’orologio della cucina segnava le 07:46. La trovò davanti all’ingresso, intenta a infilarsi gli stivaletti neri.

“La sveglia non ha suonato, ho perso il treno”, disse Valentino con sguardo stralunato. “Perché non mi hai svegliato?”

“Non ricordo ancora quando hai lezione presto, Titti”, rispose sua madre con tono dolce ma con un’ombra di senso di colpa nello sguardo. “Scusami.”

Valentino si grattò la fronte cercando di riorganizzare i pensieri che gli si affastellavano nella mente senza ordine.

“Se porto io la Yaya a scuola, posso usare la macchina?”

“E chi la va a prendere tua sorella oggi pomeriggio?”

L’abitare nel buco del sedere dell’Universo aveva l’effetto collaterale di doversi spostare di almeno dieci chilometri per scorgere la prima struttura scolastica disponibile. La madre lavorava alla pro-loco del paesino, quindi non aveva problemi a muoversi a piedi. La Yaya aveva però bisogno di essere portata e venuta a prendere in macchina.

“La nonna?” rispose Valentino titubante.

La donna esibì un sorriso forzato che la fece sembrare molto più vecchia della sua età, mettendo in mostra delle rughe che nei suoi sorrisi sinceri quasi non si vedevano. Sua madre detestava chiedere favori alla suocera.

“Non puoi chiedere un passaggio a Michele? Non va anche lui all’Università lì?”

“Fa Ingegneria, è da un’altra parte completamente. E poi...” Valentino esitò, cercando di trovare le parole adatte. “Eviterei volentieri, ad essere sinceri.”

Era già abbastanza seccante averlo come vicino di casa, quel rincoglionito. Avevano passato la notte su Whatsapp a rivangare e rinfacciarsi qualsiasi stronzata di un passato recente e non ancora del tutto sepolto. Si erano lasciati di comune accordo per disperazione a causa dei troppi litigi che, anche se non stavano più insieme, non accennavano a diminuire, benché avvenissero esclusivamente per via telematica e non più faccia a faccia. Ogni pretesto era buono, quasi si provocassero apposta pur di mantenere i contatti. Si conoscevano fin da quando erano bambini, erano diventati migliori amici da adolescenti ma avevano deciso di formalizzare la relazione solo due anni prima. Con il senno di poi non era stata la migliore delle idee, conoscersi alla perfezione rendeva complicato un rapporto sentimentale. Non c’era nulla di nuovo da scoprire nell’altra persona, bisognava solo farsi andare bene i lati del carattere piacevoli o comunque gestibili nell’ambito dell’amicizia ma insopportabili in una relazione. Un po’ come l’abitudine di Michele di rispondere ai messaggi dopo ore, di cambiare programma all’improvviso, di scordarsi gli impegni presi, di essere totalmente incapace di organizzarsi, di essere così estroverso con chiunque, di non filtrare quello che gli passava per la testa e gli usciva dalla bocca, di essere un menefreghista compulsivo… Per molti aspetti, Michele era identico al padre di Valentino. Versione edulcorata, beninteso: per quanto fosse scemo, almeno non era uno stronzo.

Con tutta probabilità si era scordato di mettere in carica il cellulare dopo averlo sbattuto sul comodino a faccia in giù in preda all’incazzatura. Valentino avrebbe voluto studiare giapponese, ma aveva rinunciato alle Università di Bologna, di Milano e di Venezia per frequentare nella stessa città di Michele. Venezia sarebbe stata probabilmente troppo dispendiosa, ma Bologna e Milano no. Si erano mollati a lezioni appena iniziate e iscrizioni già chiuse. E invece che il giapponese si era dovuto fare andar bene il russo.

“Va bene, Titti. Chiamo io la nonna. Prendi su tua sorella e ci vediamo stasera. Yaya, oggi ti porta Titti a scuola! Ciao!” concluse alzando il volume della voce sul finale per farsi sentire dalla piccola Ilaria.

“Okay!” esclamò allegra la bambina da qualche angolo della casa.

“Grazie, mammina”, disse il ragazzo dandole un bacio sulla fronte.

“Ah, Titti...” Sua madre si affacciò nuovamente in casa, prima di chiudersi la porta alle spalle. “Su con il morale. Mi raccomando.”

Valentino si strinse nelle spalle e annuì. Si diede una lavata, si vestì velocemente, caricò la sorellina in macchina e partì. Con l’adattatore, attaccò il cellulare all’accendisigari, ma dato l’amperaggio ridicolo di quella cinesata si sarebbe caricato decentemente dopo un secolo. Sua sorella scese dalla macchina e si allontanò salutandolo con la manina dopo avergli mandato un bacio. Era follemente innamorata di lui, da buona sorellina minore.

Ilaria era nata nel momento peggiore e Valentino aveva avuto il terribile sospetto fosse stato un ennesimo e ultimo tentativo da parte dei suoi genitori di ricostruire il loro matrimonio già fallito da anni. Tra tira e molla, non aveva ricordo di suo padre che vivesse in casa con loro per più di un paio di settimane consecutive. Una rischiosa trovata del cazzo da egoisti completi, considerata l’età di sua madre che diventava idiota solo quando suo padre si rifaceva vivo. Nel periodo in cui era stata concepita sua sorella, Valentino aveva approfittato del ricongiungimento apparentemente definitivo dei suoi genitori per informarli del fatto di essere gay. Con tutta probabilità, quella conferma ai sospetti di entrambi aveva dato la possibilità a sua madre di aprire gli occhi e rendersi conto di quanto fosse squallido l’uomo al suo fianco, che invece di prendere atto della cosa o respingerla, aveva cominciato a sfottere ignobilmente il proprio figlio. Fortunatamente, con la nascita di Ilaria, la mamma aveva infine trovato il coraggio di mandare definitivamente a quel paese quella merda di uomo.

Valentino aspettò che Ilaria raggiungesse gli altri bambini, si accese una sigaretta e ripartì. Non aveva mai fatto quella strada in macchina da solo, era sempre stato con Michele per consegnare le scartoffie per l’iscrizione.

Accese il cellulare: dopo l’avvio, comparve la notifica rossa sull’angolo in alto a destra dell’icona di Facebook. Aprì l’applicazione e andò nella sezione per i messaggi privati. L’altro Vale che gli chiedeva se sarebbe andato in università. Non avevano frequenza obbligatoria, ma la partecipazione alle lezioni era caldamente consigliata: un suggerimento sottile che in caso di mancato adempimento si sarebbe ripercosso in sede d’esame. In ogni caso, con quei ragazzi si era subito trovato bene. Per quanto fosse stancante uscire di casa la mattina presto e tornare per ora di cena, era sempre meglio che starsene a casa e piangersi addosso. Fece per rispondergli ma il cellulare si spense. Lo buttò sul sedile del passeggero sbuffando esasperato.

Schiacciò il pulsante dell’autoradio e gli ultimi secondi di La forza della banda lasciarono il posto al riff di chitarra Hai un momento, Dio?. Sua madre alternava Ligabue a Bennato fin da quando lui era bambino e sua sorella non era nemmeno in programma, quindi conosceva a memoria molte delle canzoni dei due cantautori. E, in particolare, “Buon Compleanno Elvis” era uno degli album preferiti della mamma: rimaneva fisso nell’autoradio per settimane intere.

Alzò il volume e abbassò il finestrino: l’aria gelida impregnata dall’umidità dei campi cominciò a scompigliargli i capelli. Valentino cantò a squarciagola dalla prima all’ultima parola della canzone, mentre la campagna scorreva di fianco a lui e l’asfalto della strada scivolava sotto l’automobile. Solo il cielo grigio-latte sembrava rimanere immobile.

 

Riuscì a trovare parcheggio a circa cento metri dall’ingresso del Dipartimento, si svuotò le tasche della giacca di pelle dalle monetine, le ficcò nel parchimetro ed espose sul cruscotto il bigliettino con l’orario. Arrivò correndo davanti alla porta dell’Aula Magna, ma scrutando attraverso la finestrella in plexiglass vide che Grisendi era già intento a blaterare di Linguistica e del suo adorato Saussure. Il Prof era celebre per non gradire i ritardatari, e Valentino stesso, uno dei primi giorni di lezione, aveva assistito a una sua sfuriata ai danni di una ragazza entrata a lezione iniziata. Sospirò tristemente e si avviò a testa bassa verso una rampa di scale che scendeva verso destra e che conduceva all’aula studio. Si sedette all’unico tavolo vuoto e attaccò il cellulare alla presa della corrente: riuscì finalmente ad accendere il dispositivo e rispose all’altro Vale.

Sono arrivato in ritardo. Sono in aula studio.

Lasciò il cellulare in carica e mise la borsa a tracolla sulla sedia per tenersi il posto. Uscì dalla stanza premendo con l’anca il maniglione della porta a vetri e si accese una sigaretta.

Una ragazza del suo anno era seduta a gambe accavallate sul portaombrelli accanto alla porta dalla quale era uscito Valentino: la conosceva di vista perché anche lei faceva russo, ma non si erano mai rivolti la parola. Indossava un cappotto nero lungo, dei jeans attillati e un paio di stivali di pelle marroni che le arrivavano appena sotto il ginocchio. I capelli, legati in una coda bassa e molle, le arrivavano ben oltre metà schiena.

Valentino le sorrise non appena lo guardo di lei incrociò il suo: “Anche tu hai saltato Linguistica, eh?”

Qualsiasi lingua si scegliesse nel piano di studi, Linguistica era in comune a tutti quelli del primo anno.

“Sì, non ne avevo voglia”, rispose la ragazza con aria annoiata. “Valentino, giusto? Ci ho messo un attimo a riconoscerti, oggi non hai quel ciuffo rockabilly. Io sono Eugenia.”

Gli porse la mano destra, con unghie lunghe ma ben curate e pitturate di verde scuro: lui la strinse. Era ghiacciata.

Conosceva il nome della ragazza: la Prof. Mirovna li chiamava sempre per nome di battesimo, storpiandone la pronuncia come nel caso di Valintìno oppure trasformandolo nel corrispettivo russo, come per Yevghyénya.

La frangia biondo cenere tagliata di netto di Eugenia le copriva le sopracciglia, focalizzando forse troppo l’attenzione sul suo naso leggermente aquilino. Nel complesso sembrava ci tenesse al proprio aspetto, tuttavia – dettaglio che Valentino aveva potuto notare già in precedenza – il modo in cui si truccava gli occhi sfumando la matita nera poco accuratamente, la faceva apparire trasandata. Come se non avesse voglia di perdere tempo a truccarsi.

“Tu li hai fatti gli esercizi di russo per oggi?” chiese la ragazza schiacciando la sigaretta che aveva lasciato cadere sul pavè del cortiletto con la punta dello stivale.

“A dire la verità volevo farli ora.”

“Hai voglia di farli insieme?”

“Volentieri”, sorrise Valentino.

   
 
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