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Autore: kyon181    21/08/2003    0 recensioni
Lungo monologo interiore di Shinji sulla sua vita: quella che è stata, e che sarà
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shinji Ikari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solo questo

Capitolo 3

Come la pioggia attutita dall’asfalto. Così sono i miei sentimenti.

Sono l’unico uomo al mondo che ha avuto occasione di rientrare nel ventre materno, quattordici anni dopo la nascita.

“Le conseguenze a cui può andare incontro il pilota, nel caso in cui il tasso di sincronia raggiunga percentuali così elevate, sono imponderabili.”

Non volevo più tornare al mondo, quando mi dissolsi nell’entry-plug dello 01. La border-line della mia anima perse i propri contorni, e mi accoccolai al grembo di mia madre, la cui protezione avevo tanto desiderato invano.

Tornare al mondo, significava anche rivivere l’inferno della Nerv: un impegno che mi prendeva la vita, vissuto accanto a persone che penetravano nelle mie giornate, sottraendomi sempre un sogno. La Nerv era un posto governato da emozioni negative. Anche dietro la maschera di mio padre, c’era una persona: colui che aveva amato mia madre. Io non so davvero in che modo lui la amasse. Ma sapevo che la amava tanto: le volte che ci recammo assieme alla tomba di lei, il suo atteggiamento, i suoi gesti e i suoi silenzi mi dicevano la misura del suo interessamento verso mia madre. Eppure c’era qualcosa di strano: era come se, per lui, lei non fosse del tutto morta. Parlava della mamma come se lei potesse in qualche modo tornare a dirci qualcosa, a riempire il silenzio che noi due tenevamo davanti alla sua lapide. Mio padre non appariva rassegnato alla morte di mia madre, anzi era come se cercasse di mostrare un certo grado di controllo della situazione. In seguito avrei capito il senso della sua calma.

Avevo rimosso quello che era successo al laboratorio di Hakone: doveva trattarsi di qualcosa di molto importante. Da quel giorno, mia madre era entrata a far parte della storia degli Evangelion. E mio padre aveva cominciato a lavorare accanto alle macchine chiamate Eva: in questo modo, non faceva altro che stare vicino a mia madre. Credo che mio padre avesse trasformato quella che era stata una tragica fatalità, cioè la morte di mamma, in una possibilità.

Mio padre mi aveva detestato, quando lei morì, così come mi odiò dopo la morte di Ayanami. Dovette pensare che entrambe si erano uccise per me.

“E’ perché voglio che questo bambino abbia un futuro migliore. E’ per questo che partecipo al progetto Eva.”

Mia madre era salita a bordo dell’ Eva per me. Mia madre mi proteggeva dal cuore dell’ Evangelion.

Quando giunsi per la prima volta a Neo-Tokyo 3, la città-fortezza mi accolse con la pioggia. Un triste benvenuto per un ragazzo triste. Immaginavo che sarei dovuto rimanerci a lungo.

E questo mi inquietava, con ogni singola goccia di pioggia cadente. Il mio treno era giunto a destinazione da pochi minuti, ed io restavo sulla piattaforma, indeciso, le mani serrate attorno alle maniglie della mia sacca da viaggio. Io e l’isolamento del binario. Quando a un tratto una voce:

“Alle 12:30 di oggi e` stato dichiarato lo stato di emergenza nelle intere regioni del Kanto e del Chubu, e in particolare nella zona del Tokai. Ripararsi negli appositi rifugi. Ripeto...”

Gli altoparlanti parlavano al vento, nella speranza di generare ansia. Ma l’annuncio non sortì alcun effetto su di me. Più che allo stato di emergenza bandito dalla speaker, prestavo attenzione alla voce sommessa del mio animo che bisbigliava lo stato di necessità.

 

Inserii la scheda telefonica nell’apparecchio a pagamento. Niente. Linea non disponibile.

 

“Lo sapevo. Non sarei dovuto venire.” Riattaccai il ricevitore.

 

Non ebbi il tempo di allarmarmi. Più che altro, vedevo la cosa come una seccatura.

 

Discesi giù per una rampa di scale, finchè mi sedetti su un gradino,

esausto dal viaggio. La pioggia cadeva sottilissima e quasi impercettibile.

Estrassi dal taschino della mia camicia la fotografia della signorina Misato: la ritraeva piegata in avanti, col décolleté in evidenza; sullo sfondo, la sua Alpine Renault, sulla cui fiancata il Maggiore aveva stampigliato un bel bacio, testimoniato dalla traccia del lip stick. Non posso dire che non fossi perplesso di fronte a quell’immagine.

 

Oltre alla decorazione schioccata col rossetto, il Maggiore aveva scritto col pennarello in cima alla foto:

 

 

“Caro Shinji, verrò a prenderti io! Aspettami!”

Per mia ulteriore informazione aveva aggiunto:

“Guarda qui che bel seno!”, tracciando assieme una freccia che puntava dritto allo stesso.

Ammiccante, da quell’immagine mi faceva persino l’occhiolino. Non c’è che dire, aveva sfoderato i suoi migliori argomenti!

Del resto, Misato non mi conosceva. Non può che aver pensato che mostrarsi in quella posa provocante fosse il modo migliore per attirare l’attenzione e la simpatia di un quattordicenne, un maschio adolescente sotto l’effetto della tempesta ormonale.

 

Non che fossi insensibile a certe cose, ma tutta quella spigliatezza, per di più da parte di una sconosciuta, mi imbarazzava. Anche in seguito, durante i primi periodi della mia vita da coinquilino della signorina Misato, certe sue esternazioni non mi convicevano: mi sembrava una ragazza grossolana e rozza, e i suoi atteggiamenti inadeguati.

L’esuberanza non mi era propria: la classificavo come uno degli atteggiamenti passibili di biasimo. Esprimersi con troppa disinvoltura di fronte agli altri, avrebbe potuto indisporli, e in ultima analisi urtare i loro sentimenti. Un’eventualità da evitare. Il taijin kyofusho, la paura di ferire gli altri è una delle fobie tipiche di noi giapponesi.*

 

Ricordo che una volta provai un grande fastidio, al pensiero di aver irritato Asuka. Ero stato il n.1 del tasso sincronia,secondo i riscontri della dottoressa Akagi. E questo aveva ferito l’amor proprio di Asuka. Tornando in automobile dal Quartier Generale della Nerv, la signorina Misato mi parlò con severità.

“Ti preoccupi troppo del giudizio degli altri.”

Era ed è così. Non ci posso far niente. E’ una questione di empatia. Leggo nei sentimenti degli altri, e non riesco a percepire i loro malesseri senza provarli a mia volta. Forse per questo, temo così fortemente di recar loro dispiacere.

 

Ad ogni modo, mentre continuavo a guardare disamoratamente quella istantanea, mi domandai per un attimo se quella ragazza non stesse per caso con mio padre (proprio così!)

Questo mi fece tornare in mente qualcosa di opposto al tono allegro e informale di quell’invito fotografico. Si trattava della lettera che mio papà mi aveva spedito.

La estrassi dal mio borsone da viaggio, frugando tra i vestiti che essa conteneva: durante la ricerca, le mie dita si imbatterono nel mio fedele SDAT, prima di abbrancare finalmente la missiva.

La busta recava il mio indirizzo di Musashino, un sobborgo ad ovest della vecchia Tokyo dove avevo risieduto fino ad allora.

Non vivevo con mio padre da 10 anni: sembrava però fosse giunto il momento di rincontrarci.

Gendo Ikari. Le uniche parole che aveva saputo trovare per quella grande occasione erano state:

 

Vieni. Mi sei di bisogno.

 

 

Avendo sfilato il foglio dalla busta, presi a fissare per un istante proprio quel messaggio secco. Odiavo mio padre.

Ormai avevo preso quel treno. Non avevo potuto fare altrimenti. Ero giunto nella città di Neo-Tokyo 3, la nuova capitale costruita ai piedi del monte Fuji-san. La vecchia Tokyo era stata distrutta dalle mine NN durante i conflitti succeduti alla catastrofe del Second Impact. Nel 2001, le autorità, avendo rinunciato a ricostruirla, misero in cantiere l’edificazione della nuova capitale, eleggendo come ubicazione per essa la zona attorno a Nagano. Nel 2005, infine, si decise l’ultimo e decisivo trasferimento d’autorità della capitale.

 

Quando vi giunsi, la città fortezza, costruita sopra il Geo-Front, la cavità sotterranea in tutto simile a quella rinvenuta sotto l’Antartide dalla sfortunata spedizione Katsuragi, era quasi del tutto stata edificata.

Per quale motivo mio padre mi voleva lì con sé? Di lui, sapevo soltanto che lavorava in un’organizzazione molto importante per la difesa del genere umano.

Seduto sotto la pioggia ero rasegnato, ostaggio di una capitale che mi accoglieva nel suo peggiore assetto. La pioggia come una polvere umida.

Osservavo le gocce cadere come aghi dall’alto dentro una pozzanghera, sul bordo del marciapiede. Con ogni nuova goccia, si sviluppava un fronte d’onda circolare, che si muoveva verso l’esterno della pozzanghera.

 

La serie d’onde concentriche catturò il mio interesse per qualche minuto. I miei occhi bassi, i miei pensieri incerti. La stanchezza che avanzava.

A quell’epoca, non avevo una identità: ero qualcosa di indistinto.

Come l’onda della pozzanghera davanti a me: niente di materiale, solo trasferimento di energia. Da un punto all’altro, dal centro alla periferia. Come la mia attenzione. Come i miei sentimenti.

 

Jibun: ossia quello che conta davvero. Ciò sulla cui base avrei dovuto definirimi. Seduto sui gradini di quella stazione, non avrei saputo dire chi fossi davvero.

In Giappone, per definire il jibun, ognuno tiene conto delle aspettative degli altri. Ma mio padre fino a quel momento era sembrato non attendersi nulla da me. Era come se non esistessi affato per lui: non esistevo per nessuno: non ero nessuno.

Mia madre: pochi bambini nel nostro paese sono abituati a vivere separati dalle madri. A me la mamma era stata sottratta in maniera brutale più di dieci anni prima.

Pensavo. Aspettando ancora un poco mi sarei inzuppato. Ma non importava. Come non importa adesso; mi basta il tempo di aspettare, allora come ora.

 

Tornando a quel giorno, ebbi il tempo di udire il rombo dei caccia sopra la mia testa, e di osservare i missili infrangersi contro il corpo mostruoso di quella COSA.

Certo allora ignoravo che i missili fossero stati scagliati dalle batterie a scomparsa spuntate dal corpo dei palazzi di Neo-Tokyo 3. Come non sapevo nulla della natura degli Angeli, i nostri invasori dai nomi celesti.

E ancor meno immaginavo che di lì a poco avrei preso parte alla guerra contro di essi, mandato da mio padre al macello, per un motivo e uno scopo al di là di ogni mia possibile immaginazione o comprensione.

Di lì a poco, una brusca esplosione-forse lo schianto di un caccia abbattuto dal beam dell’ Angelo- mi atterrì, riducendomi ginocchioni, a cercare di proteggermi il capo con le mani dall’onda d’urto.

Fu in quello stato che mi si presentò dinnanzi l’ Alpine Renault di Misato-san. Con una brusca frenata la vettura si bloccò, e lo sportello anteriore destro venne aperto. Trovai strano che quella donna, invece di gridarmi qualcosa dal finestrino, spalancasse la portiera: potei subito ammirarla in tutto il suo splendore. Ovviamente non fu quello che mi colpì, ma avrebbe dovuto. Con indosso degli occhiali da sole, il giovane Capitano, direttore strategico della sezione operativa della Nerv, era in splendido ritardo.

“Scusami, Shinji! Monta su!”

 

“Sumimasen, Misato-san desu ka?”

 

“Hai! So desu.” Mi sorrise lieve e sbrigativa. Aggirai il veicolo da dietro, e montai a bordo.

 

Presto dovetti ridiscenderne, quando ci appostammo in una zona di campagna, in attesa dello scoppio di una mina NN. Che non fece punto effetto sull’ Angelo, ma in compenso ribaltò la nostra automobile.

Dopo avere aiutato Misato a rimetterla in carreggiata, mi dovetti sorbire le sue lamentele.

 

“Avevo ancora trentatrè rate da pagareee…”** “Per non parlare del mio vestito nuovo…fff!”

“E quelle?” Mi voltai, accennando col capo alle batterie che stavano sul sedile posteriore. “Non mi è sembrato giusto quello che ha fatto…”

Non me ne intendevo molto di automobili. Ma pensavo che sottrarre batterie a un’ auto in sosta non fosse una gran cosa.

Certo, Misato aveva ancora 33 rate da pagare per la modifica che aveva fatto alla sua Renault Alpine A310, rendendola un’automobile elettrica*** ..però, rubare le fonti di energia saccheggiando il veicolo di un malcapitato…

“Tranquillo….Sono un ufficiale! Posso farlo..E’ tutto ok!”

”Sarà…”

“Sei noioso, sai, per avere un così bel faccino!”

Mi ferì. Mi feriscono con poco. E lei se ne accorse. “….Scusami…Sei permaloso proprio come un ometto!”

”Non sarà lei ad essere infantile?”

Lasciamo perdere, avrà pensato Misato.

Infatti cambiò discorso.

Aveva già avvertito la centrale di preparare il convoglio verso il Geo-Front.

“Somigli a tuo padre, sai?”

“…:”

”Non ti sta simpatico, vero?”

Misato doveva conoscere qualcosa della mia storia.

“Conosci qualcosa del suo lavoro?”

“So che fa un lavoro importante per la difesa dell’umanità”. Lo dissi senza orgoglio, e con distacco. Qualunque lavoro facesse, mio padre per me restava un uomo odioso. Il grande assente della mia vita. L’assente colpevole, a differenza di mia madre. Forse, proprio il lavoro era quello che aveva allontanato mio padre da me: senza sapere nulla, o avendo rimosso la verità, la pensavo a quel modo.

 

 

 

 

A furia di nervose sventagliate, il tergicristallo spazzava il parabrezza. Le spazzole frizionavano il vetro, descrivendo un semicerchio di visuale nitida; attorno ad esso, un puzzle di gocce: alcune appese, forse in attesa di uno scivolone, altre già in caduta libera lungo il piano inclinato del lunotto, in preda a una scia d’imprevedibili zig-zag, come lenti barcollanti ubriachi.

Contemporaneamente, lo spannavetri, col suo gettito d’aria che sapeva di phon, dissipava l’alone di condensa sul lato interno del vetro. In fondo all’orizzonte, potevo scorgere le Torri Solari, gli edifici che convogliavano l’energia per gli usi del Geo-Front e dell’intera città.

 

In poco tempo saremmo arrivati all’ingresso del Quartier Generale, e di lì il nastro trasportatore ci avrebbe condotto verso la cavità Antartica.

In mano stringevo il mio documento d’identità, speditomi in busta da mio padre assieme al messaggio di convocazione. Veramente, il messaggio era stato scritto da mio padre tratteggiando alcuni kanji sullo stesso documento d’identità. Successivamente, avevo scarabocchiato le sue parole con una penna rossa, cancellandole con tratti diagonali: in questo modo avrei voluto cancellare la freddezza di mio padre. Poi era venutala rabbia. Avevo persino scarabbocchiato il documento.**** Perciò, quello che tenevo in mano in quel momento era un pezzo di carta “rammendato” con il nastro adesivo trasparente. Attaccato ad esso con una graffetta c’era il mio tesserino di riconoscimento. Mi sarebbe stato indispensabile per accedere alla Nerv. Così, quando la signorina Misato mi chiese di mostrarglielo prima di scendere al Geo-Front, provai un moto di vergogna per quello che avrebbe pensato vedendo il documento ricomposto con lo scotch, e magari leggendo il messaggio segnato coi tratti di penna rossa.

Ma Misato fece finta di niente.

 

Al fine, scendemmo verso il centro della Terra. Verso la mia nuova vita. Verso mio padre, la cui lode e stima avrei voluto disperatamente ottenere, a cui mi legava il dolore per la morte di mamma. Discesi verso un futuro in cui avrei incontrato una ragazza che assomigliava a mia madre…e un’altra ragazza che aveva perso la madre come me.. Un futuro con una donna che avrebbe cercato di farmi da madre..

Un futuro dentro a un riccio, a farmi spazio in un mondo, forse tutto immaginato: il ritratto del mio animo, da cui mi seperava il muro del cuore.

 

 

* Il taijin kyofusho (TKS), altrimenti detto antropofobia, è una condizione propria della cultura giapponese e di altre culture orientali. Il termine, letteralmente, significa disordine (sho) derivato dalla paura (kyofu) delle relazioni sociali (taijin).

Fa parte dei disturbi comportamentali inclusi nella famiglia delle fobie sociali (social anxiety disorder)

Il DSM-IV, un “prontuario” di categorizzazione dei disturbi mentali, mette in luce, relativamente al taijin kyofusho, “una paura intensa, nell’individuo, che il proprio corpo, parti ovvero funzioni di esso, crei imbarazzo o risulti offensivo per le altre persone, attraverso il suo aspetto, odore, ovvero le sue espressioni facciali, o i movimenti”. Altrimenti sono state rilevate come associate al TKS “ansia e tensione straordinariamente intense nei rapporti sociali con gli altri…”

Tipiche manifestazioni del taijin kyofusho sono il rossore, un modo innaturale di indirizzare propri sguardi verso gli altri (es. in capacità di guardare negli occhi l’interlocutore, tendenza a distogliere lo sguardo o a tenerlo basso), il balbettìo, una sudorazione sgradevole.

Molti di questi inconvenienti comportamentali, frutto di ansie nel rapporto con gli altri, mi sembrano calzanti nel caso della personalità di Shinji, per come ci viene presentata in molte scene di Evangelion.

Basti pensare ad esempio alla sua continua tendenza a scusarsi, per timore di ledere la sensibilità altrui.

 

Infine, sarebbe interessante confrontare il concetto di taijin kyofusho con la diagnosi che la dottoressa Akagi fa del comportamento di Shin-chan, in occasione del dialogo che Ritsuko ha con Misato, dopo la fuga del third children nell’episodio 4.

Il dilemma del porcospino ( l’animale che evitava i contatti coi suoi simili per paura di pungere ed essere punto) sembra essere la sintesi del taijin kyofusho e del tipo occidentale di fobia sociale, contemplando sia il timore di ferire gli altri, tipico della cultura giapponese, che quello di venirne feriti, più tipico della nostra.

Nell’occasione, Shinji sarebbe, secondo Ritsuko, vittima dello hedgehog dilemma.

 

Le informazioni sul TSK sono tratte principalmente da:

 

**Forse nel numero 33 c’è un’allusione di Anno agli anni di Nostro Signore? Dal momento che siamo in Evangelion….^____-

 

*** come da Ency di Eva, volume 1, le rate si riferiscono alla modifica del sistema di alimentazione dell’auto: da carburante ad energia elettrica, appunto.

 

**** anche questo particolare viene dagli “Explanation files” dell’ Ency.

  
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