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Autore: FRAMAR    13/11/2016    25 recensioni
Un ragazzo rapito, un ragazzo trovato da un uomo che si innamora di lui soprattutto perché il ragazzo non ha niente, né storia, né nome: ha perso la memoria, lui lo chiama Angelo, è felice di tenerlo con sè, nella sua casa a Napoli. Una storia dolce e tenera, nello scenario intenso di Napoli e della costa e dei paesi intorno. Una storia drammatica, perché il ragazzo non ricorda nulla e nessuno. Un romanzo vero, pieno di amore, di colore, di suspense, di dramma.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 3


 
Tornavo stanco per il pranzo e la cena e dormivo contento di non pensare. Dopo il terzo giorno, il mio girovagare non fu più solitario: un delizioso svedese mi fece compagnia. Biondo, dalla pelle rosata. Gli occhi grigi e un incedere da gazzella. Mi seguiva dappertutto, anche a letto, e fu più facile non pensare. Ci capivamo a gesti, a parole smozzicate e con sorrisi. Era dolce e arrendevole di carattere,  morbido e tenero nell’amore. Era un impiegato in vacanza e al suo paese, si era appena lasciato dal suo compagno. Fi-ni-to, diceva, sillabando e ridendo, forse perché era felice di essere libero. Anche io avrei voluto sillabare fi-ni-to, ma non potevo ancora, perché lì, in un angolo della mia mente, c’era sempre quel dolore che avrei voluto cancellare.

La proprietaria della pensione mi chiese dopo sei giorni: “Che cosa ha deciso? Resta?”.

Esitai, contai mentalmente il denaro rimastomi e dissi: “Vado via martedì”.

Mi ero concesso altri tre giorni e quando seppi che lo svedese, si tratteneva fino a quando c’ero io, ne fui contento.

Furono i giorni più pazzi della mia vita: cantai a tutto volume una canzone napoletana fra le mura del teatro greco, feci il bagno in un mare ancora freddo, ballai in una movimentata  sfilata di costumi e strumenti musicali regionali, salii su uno degli ippocampi che adornano la fontana di piazza Duomo e percorsi tutto il corso Umberto I su un carretto siciliano, venuto per il raduno dei carretti antichi.

Venne il martedì mattina: baciai il mio bel svedesino , promisi di scrivergli e di andare in Svezia, pagai il conto e salii in auto. Lui mi salutò agitando la mano e disse: “Ritornerò”.

Il viaggio lo feci tutto d’un fiato, fermandomi solo una volta per uno spuntino ed era notte quando arrivai a Napoli.

Stavo aprendo il negozio, allorché il fioraio mi chiamò con un cenno della mano e con un’aria complice: “E’ venuto ieri”.

“Chi?”

“Lui, il ragazzo che stava con te. Visto da vicino somiglia sempre di più a quel Sandro Fucile”.

Il battito del cuore lo sentii in gola.

“Che cosa voleva?”.

“Te. Ha detto che non ti aveva trovato nemmeno a casa”.

“Stai scherzando?”.

“No, tanto è vero che non scherzo, che ti ha lasciato questo”, disse il fioraio, e mi posò in mano un fogliettino grosso quanto una noce.

Lo strinsi nel pugno e ringraziai.

“Ehi, ma si può sapere chi è?”, chiese il fioraio, ma io ero già lontano per poter rispondere.

Ebbi la forza di servire il primo cliente e poi aprii il cartoccetto: in una velina c’era il bracciale portafortuna che io gli avevo regalato. Che cosa significava? L’addio definitivo dopo aver ricordato tutto o una promessa di ritorno? Certamente l’addio e la giusta conclusione di una storia malsana. Ficcai il bracciale nella tasca della giacca e continuai il mio lavoro, guardando sempre la strada, anche  nell’intervallo per la chiusura, restai lì con la serranda centrale abbassata e le due laterali delle vetrine alzate, attraverso le quali potevo vedere la via. Una speranza folle la mia. Come poteva, lui, tornato fra la sua gente e nella sua casa, aver nostalgia di me e delle mie povere cose?

Era buio quando chiusi il negozio. Mi avviai a piedi entrai in un bar e presi un caffè e mangiai un dolce, poi ripresi a camminare.  Mi alzai il bavero del giaccone e continuai ad andare senza una meta precisa sotto una pioggerellina fitta e sottile. Mi trovai davanti al portone del palazzo di Sandro e capii che, inconsciamente, avevo desiderato  di arrivarci. Al quinto piano abitava lui. Il balcone della sua camera da letto era quello centrale, come avevano detto i giornali. Alzando il viso me lo bagnai tutto e malinconicamente constatai di essere  un buffo uomo che rincorreva  un assurdo e impossibile amore. Mi allontanai e presi un pullman che mi riportò alla mia auto.

Dormii male e fumai moltissimo. Mi svegliai con la testa pesante e gli occhi che mi bruciavano. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, ma con chi? Tutti i miei amici erano al paese e seppure li avessi cercati non mi avrebbero potuto aiutare, perché gente semplice o retoricamente  attaccata a quei princìpi millenari che stabilivano il preciso confine  fra quello che sta bene e quello che non sta bene e non si fa.  Zio Ciccio  mi avrebbe ascoltato, fumando la pipa e sputando a terra di tanto in tanto,  e poi avrebbe detto: “Non è per te quella è gente diversa, viziata e tu sei un bravo ragazzo. Scordatelo. E poi scusa hai detto che è un uomo? Ma sei impazzito?  Ci vuoi fare svergognare e prenderci in giro da tutti”. Silvano, il barista, avrebbe ascoltato con occhi maliziosi e infine avrebbe steso i baffetti setosi su un sorrisetto furbo, dicendo: Beato te! Te ne sei visto bene”. Gennaro, il mio compagno dello scopone, giocato nei lunghi pomeriggi invernali ad un tavolo del bar in piazza  mentre fuori c’era vento e pioggia e i vetri si rigavano grigiastri, avrebbe ascoltato con meraviglia, sgranando gli occhi e arricciando la fronte. E avrebbe detto: “E’ molto bello! Io l’ho visto sui giornali. Vedrai, tornerà, tornerà, tornerà”, e avrebbe continuato a ripeterlo per impossessarsi e far suo quel sogno. A mia madre no, a lei non potevo dirlo, si sarebbe spaventata tanto per me, innamorato e infelice.

Sentii squillare il cellulare e sperai che fosse Sandro e invece era Lidia.

“Ciao Armando sei tu?”.

“Si, dimmi.”

“Tua madre non sta bene, stanotte volevano portarla in ospedale, ma non ha voluto. Per convincerla c’è bisogno di te”.

“Il dottore che ha detto?”.

“Ha avuti un ictus cerebrale e deve essere ricoverata”.

“Arrivo stamani, ciao”.

A casa trovai tanta gente e Lidia e il vecchio dottore dagli occhi bovini e la voce baritonale, che disse: “Devi portarla a Napoli, là sarà curata a dovere”.

Mia madre, che non poteva parlare, perché aveva le labbra un po’ storte e tirate, si fece vestire da tante mani amiche, a cenni pretese il  suo scialle e sorrise, con gli occhi, quando io la sollevai in braccio per portarla in auto.

“Veniamo con te”, disse Lidia, indicando il fratello Tonino.

Durante il viaggio mamma si addormentò ed era tanto bianca in volto che pareva morta. Tonino parlava degli studi, del suo avvenire, di tante cose e pareva  stessimo facendo un viaggio di piacere se non fosse stato per qualche lamento della povera mamma e la voce querula di Lidia.

Arrivammo in ospedale e mamma se ne andò nella barella spinta da un’infermiera per un corridoio lungo  io la salutai con la mano, finché scomparve nell’ascensore.

“Oggi iniziamo gli accertamenti. Per le visite domani a mezzogiorno”, disse un dottore.

“Ed io non potrei starle vicino?”, gli chiese Lidia.

“Per ora no, se ci sarà bisogno, vedremo”.

In strada Lidia disse: “Noi rimaniamo qui. Come fai tu solo fra il negozio e l’ospedale? Veniamo Tonino ed io a casa tua, finché questa brutta malattia non finisce”.

Dieci giorni durò.

 

   
 
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