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Autore: JoeyTre    15/11/2016    1 recensioni
Anno 2256. Kate Bennet non è una ragazza come le altre. La sua natura soprannaturale la costringerà a compiere delle scelte difficili, soprattutto nel momento in cui farà i conti con alcuni inquietanti risvolti che la porteranno a rivalutare tutta la sua vita.
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Aprile 2256

Una ciocca dei miei lunghi capelli ramati era fuori posto.
Mi guardai allo specchio un’altra volta, per poi portarla dietro l’orecchio, dove era solita stare. Quella superficie riflettente era sempre stata una cosa curiosa per me. Avrei potuto specchiarmi per ore, e osservare i miei lineamenti perfetti e delicati, la mia pelle chiarissima e i miei occhi verde acqua.
Ero, in verità, davvero molto bella. E di questa bellezza sapevo compiacermi al punto che anche la sola vana e stupida azione dello specchiarmi era una fonte di inesauribile piacere. Quel giorno però, sentivo che era più una sgradevole e nuova sensazione di ansia a farmi cercare conforto in quei piccoli gesti quotidiani. Non ero mai stata così nervosa, ma non volevo che questo mi fermasse. Davanti a me avevo un progetto, un obiettivo molto chiaro, quello per cui mi ero preparata da quando ero solo una bambina.
Potevo farcela.
Era questo quello che mi ripetevo.
Le mie dita sfiorarono il colletto della mia camicetta di lino, nel momento esatto in cui sentii le nocche di mio fratello Alan bussare delicatamente alla porta della mia camera da letto. Sapevo riconoscere il suo tocco leggero, e il battito del suo cuore che aveva un suono particolare. Un soffio, che i dottori avevano diagnosticato quando era ancora un neonato, e che era risultato, per fortuna, uno dei pochissimi difetti cardiaci compatibili con la vita.
“Avanti” dissi ad alta voce, e voltandomi verso la porta per accoglierlo con un largo sorriso.
Alan entrò in fretta nella mia camera, fiondandosi all’interno e chiudendo la porta alle sue spalle.
“Speravo di trovarti qui” disse.
“Che succede?” sentii il mio sorriso spegnersi sul mio volto.
“Kate… è fra tre giorni, vero?” mi chiese.
Annuii, forzando una risata. Ancora una volta, l’ansia aveva sovrastato tutte le altre emozioni. Solo tre giorni mi separavano dal momento che aspettavo da tutta la mia vita.
Alan si avvicinò, prendendomi per mano.
“Non lo fare, Kate. C’è ancora tempo. Se vincerai…”.
“Alan, ne abbiamo già parlato”.
“Lo so, ma tu non vuoi ascoltare. Se vincerai la tua vita cambierà completamente. Ci sarà sempre meno tempo per le cose normali”.
“Cose normali? Parli sempre come se non avessi capito quale sia il mio destino”.
“L’ho capito, Kate. Ed è per questo che sono venuto a parlarti”.
“Proprio quando non ci sono mamma e papà, vero?”.
Odiavo fare certe insinuazioni, ma ancora di più non sopportavo l’idea di litigare con lui. Non eravamo davvero fratelli. Il nostro legame andava oltre quello di sangue. Ma eravamo cresciuti insieme, e lui era l’unico che mi conosceva così bene. C’era stato un tempo in cui le sue parole erano state la verità assoluta per me. Alan era sempre stato il mio fratello maggiore, e mi aveva sempre dato l’esempio, che avevo seguito incondizionatamente. C’era stato un tempo in cui io e lui eravamo inseparabili, e la mia vita era stata normale, quasi piatta, di un’accogliente e monotona routine.
Ma poi qualcosa era cambiata.
Le mie abilità avevano cominciato a manifestarsi. Sentivo cose che gli altri non avrebbero mai potuto sentire. Ero immune quasi a tutto, compreso il dolore. Le mie ferite si rimarginavano più in fretta di quelle di Alan. E a volte, quando ero davvero spaventata, riuscivo a muovere gli oggetti senza toccarli. Ero fuori di me per quello che mi stava accadendo. Credevo di essere un mostro, qualcuno di cui avere paura. Qualcuno che il resto del mondo avrebbe evitato.
Avevo solo tredici anni quando i miei genitori mi dissero la verità. La maggior parte delle mie abilità si erano ormai manifestate, perciò era inutile continuare a mentire.
Io ero un’ibrida.
Il mio corpo non era umano, se non per metà. Ero nata in laboratorio, ero stata progettata, e poi adottata.
I miei genitori avevano aderito ad un programma sperimentale, in cui si erano impegnati ad accudirmi come un’umana, ad accettarmi come una figlia, per poi raccontarmi tutta la verità quando sarebbe arrivato il momento giusto.
Anche Alan era all’oscuro di tutto, e scoprì l’intera faccenda insieme a me. Paradossalmente, il nostro legame si era rafforzato dopo quel giorno. Fino a quando non decisi che avrei partecipato allo Sturm.
“Mamma e papà non c’entrano. Questa è una decisione tua. E la Kate che conosco io non lo farebbe mai”.
“Lo Sturm è una grossa opportunità” decisi di ribattere.
“Mio dio… parli proprio come lei” mi disse in tono sprezzante.
“Alan, lei è tua madre. E ha deciso di essere anche la mia. Perciò scusa se le porto rispetto, e decido per una volta di farla contenta”.
“Andando ad un cazzo di circo mediatico. Così la farai contenta? Cavoli sorellina, dov’è finito il tuo Q.I. elevato? Davvero non arrivi ad una cosa così semplice?” Alan incrociò le braccia, come tutte le volte in cui le sue parole si facevano taglienti.
Lo avevo sentito tante volte infierire contro i nostri genitori. Si era sempre scontrato con i loro modi di fare, con le loro decisioni sempre troppo opportunistiche, per lui false, perché volte ad un ritorno in termini di valenza sociale ed economica.
“Tu non capisci” sentii la mia voce tremare, e inspirai l’aria per calmarmi. Non potevo lasciare che le emozioni mi sovrastassero così.
“Capisco molto bene, invece” Alan allungò una mano per accarezzarmi.
Quel tocco caldo mi era mancato al punto da togliermi il fiato. Lo guardai nei suoi profondi occhi nocciola. Aveva uno sguardo intenso, pieno di apprensione.
“Io lo devo fare. Questa è la mia opportunità”.
“Kate, tu non sei nata per questo. E lo sai. Puoi decidere tu delle tua vita”.
“Lo so. E ho deciso. Lascia che sia libera di farlo”.
Mi allontanai di scatto per interrompere quel contatto. Le nostre spalle si sfiorarono, e io avanzai verso la porta della mia camera. Non mi sarei voltata più indietro, e di questo ne ero sicura.
“Non sei che uno strumento, se accetti di farti trattare così” sentii Alan dirmi queste cose, e posai una mano sulla maniglia della porta, stringendola più forte di quanto fosse necessario.
“Non è solo per il rating, e lo sai” gli dissi.
“Certo che è per il rating. E’ sempre stato tutto solo per quello”.
Non risposi. Credere a ciò che mi aveva detto comportava accettare una realtà che non sarebbe stata di quella semplicità che tanto mi mancava, e che in qualche modo cercavo disperatamente di riportare nella mia vita.
Abbandonai la stanza senza aggiungere altro. Sentii il cuore di Alan accelerare la sua frequenza, mentre l’inconfondibile rumore dell’auto elettrica dei miei che attraversava il vialetto di casa arrivò alle mie orecchie. Probabilmente mio fratello li aveva visti arrivare dalla finestra della mia camera, dove era rimasto.
Scesi le scale e raggiunsi l’automobile, entrando dentro e sedendomi sul sedile posteriore. Una donna dai lunghi capelli biondo cenere e un sorriso pacato si voltò per guardarmi.
Mia madre, Hilary Bennet, aveva un tono di voce quieto e l’aria di avere sempre tutto sotto controllo. Uno stile classico ed elegante l’avvolgeva, insieme alla scia del suo inconfondibile profumo alle rose. Forse uno dei primi veri ricordi che avevo impresso nella mente.
Avevo speso i primi quattro anni della mia vita nel laboratorio della MBI Corporation, la società che aveva dato vita a tutti gli ibridi come me. Ma la cosa strana era che nonostante la mia straordinaria memoria, io non avevo nessun ricordo del mio tempo speso lì.
“Sei pronta, tesoro?” mi chiese mia madre.
Io annuii, incrociando per qualche istante lo sguardo di mio padre attraverso lo specchietto retrovisore. Lui, Greg Wayne, era un uomo d’affari, completamente vittima del suo lavoro che lo costringeva a ritmi disumani, e lo teneva lontano da casa anche per lunghi periodi di tempo. Era stata la prolungata solitudine di mia madre a spingerla verso la scelta di aderire al programma per i nuovi ibridi.
“Desideravo una bambina, una principessa che potesse riempire le mie giornate. Alan è sempre stato un bambino tanto autonomo e solitario. Aveva bisogno di qualcuno”.
Questo era quello che mi aveva sempre raccontato. E io amavo crederle. Tutti amavano adagiarsi sulle solide e splendide verità che lei sapeva raccontare. E questo era ciò che la rendeva così gradevole.
“Sembri nervosa. C’è qualcosa che non va?” continuò lei.
“No. E’ solo che… non sono mai stata alla MBI da quando… da quando ero una bambina”.
“Andrà tutto bene. Ti faranno alcuni test di routine per valutare le tue capacità. Lo sai, senza un punteggio minimo di cinquanta non è possibile partecipare alla competizione. Ma tu sei sempre stata oltre il centoventi, e questo piccola Kate, è il motivo per cui sono convinta che vincerai tu”.
“Assolutamente” incalzò mio padre, “senza contare che il vincitore dell’anno precedente aveva un punteggio di centodiciassette. Questa sarà una passeggiata per te”.
“Sarà così semplice che ti annoierai” aggiunse mia madre.
Forse aveva ragione. Forse Alan aveva dato troppa importanza a quell’evento a cui i miei desideravano tanto che partecipassi. Forse la mia vita non sarebbe cambiata per nulla, nemmeno se avessi portato a casa la vittoria. Insomma, ci sarebbe stata la televisione, qualche giornalista, trenta o quaranta milioni di visualizzazioni sul web, ma quelle persone sarebbero state lontane dalla mia vita. L’avrebbero osservata a debita distanza, attraverso uno schermo, e poi dopo un anno sarei passata di moda, come tutte le cose su internet. Mi cullavo con questi pensieri, mentre l’auto dei miei superava il cancello d’ingresso della sede centrale di una delle società più grandi del mondo. La MBI Corporation. Per certi oscuri e assurdi versi, la mia madre biologica. Un fascio di luce verde colpì i miei occhi, e poi quelli dei miei alle mie spalle. Il computer all’ingresso consentì il nostro accesso, e una donna alta e dalla carnagione scura ci venne ad accogliere. Stringeva tra le mani un pad con tutte le mie informazioni, e ci rivolse un sorriso cordiale, stretta nel suo formale tubino bianco e nero.
“E tu devi essere Kate Bennet. Bentornata”.
“Grazie” mormorai.
“Nostra figlia è qui per l’iscrizione allo Sturm, edizione del 2256” disse mia madre, che fu prontamente interrotta dall’impiegata.
“Certamente. Ci aspettavamo una scelta del genere” ci disse, indicandoci una stanza completamente bianca, con al centro una vasca da bagno piena di una strana gelatina azzurra.
“Gli individui della generazione A6 si contraddistinguono per la loro spiccata competitività. Questo è infatti il primo anno in cui la quasi totalità degli ibridi si è iscritta allo Sturm annuale”.
Io seguii le sue istruzioni, e mi spogliai, adagiandomi all’interno della vasca piena di gelatina. La mia mente iniziò a galoppare, incontrollata. Facevo parte di una generazione con un numero e una lettera. Una serie di ibridi nati nello stesso giorno e di cui erano state selezionate particolari caratteristiche.
“Kate, adesso indurremo nella tua mente una condizione di ipnosi che ci permetterà di fare il test. Il tutto durerà circa cinque minuti. Non avrai alcun ricordo della prova” mi disse la donna, piegandosi verso la vasca su cui era apparsa una piccola tastiera. La vidi digitare un codice di numeri e lettere.
Io annuii, e poi chiusi gli occhi. Era davvero questo il mio destino?
Sentii i passi dell’impiegata che abbandonava la stanza bianca, in cui improvvisamente calò il buio. Era un processo che prevedeva la graduale deprivazione dei sensi, e nonostante la mia mente non avesse alcun ricordo di ciò, era come se il mio corpo si fosse già sottoposto al test diverse volte. Quelle sensazioni erano familiari, e in qualche modo riuscirono a calmarmi. I pensieri però, si facevano sempre più sconnessi.
“Vostra figlia potrebbe gareggiare direttamente per la finale, se aveste un punteggio premium”.
“Lo sappiamo, ma contiamo di arrivarci presto. Il nostro feed è ottimo dopotutto. E lei… beh, Kate è straordinaria”.
Le parole di mia madre si fecero sempre più distanti, finché non arrivò il nulla ad avvolgermi, come non aveva fatto mai prima di allora.
 
 
 
La stessa voce mi risvegliò dopo quello che sembrò essere un tempo lunghissimo.
“Non è possibile... non è possibile”.
“Mi dispiace, signora Bennet. Ma non possiamo fare niente. Il sistema è praticamente infallibile, e non è possibile ripetere il test” spiegò la donna.
Abbandonai la vasca, usando un asciugamano per pulire i residui di gelatina e raggiunsi la stanza accanto.
“Che cosa… è successo?” chiesi.
Guardai mio padre che si passò una mano fra i capelli. Il volto contratto in un’espressione tesa.
“Il sistema ha rilevato un punteggio di settanta. Purtroppo non è possibile ripetere il test” mi spiegò l’impiegata.
“Cosa? Non è possibile” mormorai, mentre la stessa sensazione d’implacabile ansia tornò a martellarmi il petto.
“Kate, non preoccuparti. E’ tutto a posto” disse mia madre, sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori.
“Rivestiti, torna a casa. Prendi la nostra auto. Noi penseremo al resto”.
“Mamma… mi dispiace” sentii la mia voce rompersi in un singhiozzo.
“Shh” mia madre mi abbracciò stretta “calmati… andrà tutto bene, fidati di me”.
Annuii, rivestendomi in fretta e abbandonando l’edificio.
In auto cercai di calmarmi, ma quel numero continuava a tormentarmi, era una ferita fresca, umiliante, che non riuscivo a razionalizzare. Sul computer di bordo davanti a me comparve un segnale rosso. La batteria dell’auto era ormai scarica. Bisognava fare riferimento.
“Dannazione” mormorai a denti stretti. Volevo solo tornare a casa e nascondermi sotto le coperte del mio letto. Per la prima volta in sedici anni stavo provando qualcosa di molto simile al dolore, e questo faceva tremendamente schifo. Se settanta fosse rimasto il mio punteggio, non avrei avuto alcuna speranza di vincere lo Sturm. Forse era addirittura tutta colpa mia. Forse non avrei dovuto ascoltare Alan a così poca distanza dal test che avrebbe deciso del mio futuro. Sentivo che le sue parole avevano cambiato in qualche modo la mia prospettiva, e che questo mi aveva condizionato al punto da ottenere il peggior risultato che avessi mai ottenuto.
Scesi dall’auto e collegai il caricatore per iniziare il rifornimento, che sarebbe durato circa cinque minuti.
“Tu… che fine hai fatto?” una voce mi strappò ai miei pensieri ossessivi.
Mi voltai. Un ragazzo completamente vestito di nero e dai capelli cortissimi e color platino mi guardava dritto negli occhi. Aveva la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi nel tentativo di riconoscermi.
“Scusami, forse ti sei sbagliato. Non so chi tu sia” farfugliai, voltandomi ancora una volta verso l’automobile.
“No, non mi sono sbagliato. Forse sei tu che non vuoi parlarmi”.
Sbuffai.
“Senti, non è un buon momento. Lasciami in pace, per favore. Chiunque tu abbia incontrato, non ero io”.
“Possibile che non ricordi? Diane…”
Il modo in cui il ragazzo pronunciò quel nome a me completamente sconosciuto mi fece sussultare.
Lui allungò una mano per afferrare il mio polso, ma una scossa elettrica potente ci divise ancora prima che la nostra pelle potesse incontrarsi. Repulsione elettrica.
Lo guardai sconvolta, mentre nei suoi occhi si faceva largo la verità sulla mia natura. La nostra natura.
Ero un’ibrida.
Esattamente come lui. 

 
   
 
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