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Autore: Helmyra    17/11/2016    2 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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La nebbia aveva voce. Non era il vapore leggero dell'alba, ma un crepitio roboante che si ripeteva, e s'intensificava, laddove essa appariva più fitta. Dorisa faticava a riconoscere i volti tesi, nello sgomento della bufera incipiente. Ognuno correva ai ripari, alcuni soldati imperiali sotto le barricate, altri direttamente nel forte. Poco a poco, l'erba e il suolo arato delle fattorie circostanti vennero ricoperti da uno spesso strato di cenere. C'era chi gemeva crollando a terra, dopo esser stato colpito dai lapilli incendiari che piovevano dalle nuvole nere, infernali.

“Presto, nei sotterranei!” Il comandante impartì l'ordine, seguito dal segnale del corno. L'obbedienza dei sottoposti fu unanime, ma per coloro che erano a Forte Frostmoth come semplici attendenti e manovali, ogni risoluzione era una tappa obbligata verso la fine.

“Andiamo anche noi?” Una ragazza in abiti da cuoca s'aggrappò al braccio di un uomo più in là con gli anni. Spiccavano nell'ombra gli occhi grigi e gli zigomi pronunciati, i solchi resi ancora più profondi da una barba brizzolata, che non vedeva da giorni il filo del rasoio.

“Se l'edificio crollasse, moriremmo come topi in trappola.” Replicò lui, categorico. “I guerrieri vogliono ritirarsi nel sottosuolo, li lasceremo fare. Sono un mago e non comprendo le loro strategie, più che altro... se voglio sopravvivere, preferisco mezzi alternativi.”

Altri membri del gruppo erano impegnati a spargere liquido refrigerante sui mattoni della torre, alternandosi in una staffetta. Un khajiit e un dunmer, invece, avevano le braccia tese verso il soffitto e un alito di ghiaccio risaliva in su, dalle loro mani agli architravi in legno. Ben presto il tetto sarebbe crollato, era inevitabile.

“J'Drasha vuole che Oldis riposi.” Disse il khajiit all'elfo oscuro, entrambi appena promossi al rango di mago specializzato nella gilda. “Pensa lui al tetto, tu va' da mastro Iunius, ha bisogno di aiuto.”

“Ma...”

“Niente ma per J'Drasha.” Lo zittì, con l'unghia davanti al muso e continuando il lavoro con l'altra mano. “Non vedi? Gli altri hanno paura. Togli la paura, in qualsiasi modo, con qualsiasi cosa. Forse potremo andare via da qui.”

Il nome di Oldis e il suo volto sembrarono a Dorisa insolitamente familiari. Sedeva tra una dozzina di persone all'addiaccio sulle scale, ma nessuno sembrò far caso alla sua presenza. Era piombata lì all'improvviso, per chissà quale portento divino. Li studiava con attenzione, uno ad uno... uno scudiero, uno stalliere e una governante imperiali. La cuoca bretone, un argoniano che distillava pozioni con un armamentario da viaggio; due guerrieri nord, forse membri del villaggio Skaal che si ritrovavano lì a commerciare con gli occupanti; una mercante bosmer e infine i maghi, compresi J'Drasha e Oldis, col loro precettore a completare il numero.

“Cosa ci resta da fare?” Chiese Malvedir, abbandonando la merce in un angolo e nascondendo il volto e le lacrime dietro le ginocchia. “La Montagna Rossa si è ribellata, il cielo ci è contro. Anche se fuggissimo da qui, nessuno riuscirebbe a raggiungere le montagne. L'unica cosa che si può fare è sperare di trovare una caverna.”

“L'unica cosa da fare è pregare.” Fece lo scudiero, battendo i pugni contro il muro. “No, non può finire così. Da quando si sono aperti i portali è stato un ciclo di sventure continue. Credevo che i Daedra ci avessero risparmiato, invece tocca subire questo...”

“Dov'è finito il tuo coraggio, Gnaeus?” Tuonò il nord, ritto contro il muro e a braccia conserte. “Facci il favore di mantenere il silenzio, così non sei d'aiuto.”

“Hai ragione.” Il ragazzo si levò per raggiungere mastro Iunius, poi fu il turno di Oldis. “Credo che qui non reggeremo a lungo. Bisognerà trovare una via di fuga verso gli alberi, a nord.”

L'uomo non ebbe da ridire quando gli giunse accanto. Colse il suggerimento implicito e prese a recitare orazioni, con le dita accavallate sopra un intrico di vene pulsanti. Oldis lo imitò, sussurrando invocazioni a Mara, ad Akatosh. Aveva lasciato a casa la futura moglie, a Raven Rock: l'aveva convinta a partire per Solstheim, dopo anni passati insieme a Blacklight, ma non ad unirsi a lui nella fede per il culto dei Nove. Singhiozzi e colpi di tosse interrompevano il flusso mentale di frasi imparate a memoria, lodi che in altri momenti avrebbe pronunciato a cuor leggero, canticchiandole durante la colazione o rimarcandole fermo tra gli sbadigli, quando il sonno era pronto a reclamarlo. Avvertì una fitta al petto, un boato, lo sfavillio della lava rovente sibilare a pochi passi di distanza. Il nero si crepò, i contorni prima sfumati delle nubi vennero alla luce designando una figura altera, sinuosa, una vana allucinazione.

“Sento che c'è speranza.” Una certezza intangibile per mastro Inunius, che dentro di lui acquisiva forza, coerenza. Il mago era ritto in piedi, proprio innanzi l'immagine di un drago spettrale che ruggiva spianando la via tra detriti e fiamme. Oldis non poteva credere ai propri occhi, era lì, a lambire la cima della collina.

“Maestro, avete visto?” L'elfo oscuro puntò il dito in alto, convinto che anch'egli fosse spettatore del portento. Invece, il mago si limitò a sorridere e con una serenità abbacinante gli confermò la presenza di un'entità che soltanto lui era in grado di vedere.

“Lo sento, è qui con noi... ha ascoltato le preghiere. S'è aperta una breccia nel cielo, tra i due crinali, e oltre la collina. Raccogliamo i fagotti con le provviste e partiamo subito, se ci sbrighiamo potremo approfittare del diradarsi della colata e raggiungere in tempo un anfratto nella roccia... roccia millenaria, più dura e resistente di qualsiasi edificio.”

“Sei convinto di quello che stai dicendo?” Fu la risposta di Gnaeus.

“Non ne sono convinto, ne sono sicuro”.

Oldis sapeva di essere privilegiato ad assistere all'apparizione del drago. Aveva squame splendenti, movenze umane: Dorisa provò la stessa beatitudine, lo stesso sbigottimento. Per un attimo, la sua mente si fuse con quella del ragazzo, fu testimone dell'estasi e della gratitudine verso colui che chiamava guida, protettore.

Non un brandello di polvere osò sfiorarli. Inunius e Oldis erano a capo del gruppo di rifugiati, spronati all'azione dallo stesso intento. Dorisa li seguì fino a quando trovarono riparo in una grotta ai piedi del monte, come avrebbero vissuto da lì in poi sarebbe stato favore divino: speravano di trovare animali ancora in vita, carcasse commestibili, o meglio ancora una sorgente interna e pesci d'acqua dolce. La voce di Akatosh era rassicurante, paterna, portava al cuore un messaggio diverso a ognuna di quelle anime.

Oldis, hai creduto in me nonostante il disprezzo e le insidie. I conterranei ti hanno chiamato traditore, gli uomini ti hanno accettato, ma per loro sei sempre stato un forestiero. Eppure ti sono caro e hai continuato a vedere il futuro e il prossimo senza rancore, con una fiducia inscalfibile. Questo è il segno della mia grazia, il tuo premio: continua a donare il massimo a questi miei figli, e io ti donerò giorni ed anni più lunghi. Fallo sempre, non perderti mai nel risentimento. Proteggerò te e la creatura che Elmussa porta in grembo. Anche lei è benedetta e in qualunque momento le sarò vicino, sempre.

Dorisa emise un sospiro e cercò di sfiorare la fronte senza rughe di colui che amava con tutta l'anima. Non aveva più dubbi... ecco cosa era accaduto, quel giorno. Ecco perché aveva ereditato una parte di quel potere.

“Papà...” sorrise, certa del fatto che il suo affetto l'aveva seguita fin lì, che restasse immutato. Si sentì colpevole perché aveva messo tutto in discussione: unendosi a Sanguine stava utilizzando la Voce per i suoi fini. Invece, lui aveva agito per il bene altrui, per Akatosh.

“Adesso tocca a me scegliere.” Disse a se stessa, mentre cominciava a dissolversi in minuscoli atomi, a sparire.

 

“Sapevo che ti avrei trovata qui... fra tutti, questo è il regno a cui sei più affezionata.”

Sanguine si divertì a scostare le foglie che le erano piovute addosso. Riposata accoccolata sulla panca, di fronte ad una tavolata vuota, la stessa che mesi prima pullulava di gozzovigliatori giunti per assistere al primo incontro tra il principe e la prescelta. Da quando si era insediata a Markarth, invece, il boschetto sacro era diventato un'oasi di silenzio, un tempio in cui Dorisa meditava. Riposava in una capanna nascosta nel sottobosco, l'esatta replica del rifugio accogliente in cui lo spiritoso amante l'aveva condotta dopo le numerose peripezie per infondere nuova vita alla Rosa. Le era accanto, sotto un manto di capelli scuri ad avvolgere spine di bronzo. Spine che le ricordavano la natura dell'amore e di ogni altro sentimento: piacere e dolore, bellezza e fatalità.

Scosse la testa, ancora insonnolita. Da giorni riviveva le scene del passato sotto forma di viaggio onirico, ma non avrebbe mai immaginato che con la memoria si potesse risalire allo stato embrionale. Ogni episodio era un passo edificante, insegnamenti pari a quelli del grande Vivec, ormai recluso nei recessi della terra.

“Cosa c'è?” Chiese l'elfa, con la bocca impastata.

“Hai anche il coraggio di domandarmelo? Non ti sei fatta più vedere. Da quando ci hanno... cacciati dalla città, il tuo umore è crollato a picco e anche la lussuria.”

“Non ho voglia di passare la notte a divertirmi... anzi, vorrei che mi lasciassi sola.”

“Diamine, ragazza.” Una mezzaluna candida spuntò tra le pieghe della pelle d'inchiostro. “Se ti avessi voluta scosciata, desiderabile e altera, avrei preferito la statua di Meridia sul monte Kilkreath e non una donna in carne ed ossa.”

“Mi piace Meridia, almeno veste con stile.” Ribatté, chinando di nuovo la testa sul tavolo.

“L'ho vista e ti posso assicurare che le renderesti giustizia, per essere una mortale. Non so quali idee tu abbia, quali scelte rischiarano il futuro. È vero, ci sono cose che un bruto come me non capisce. Sensazioni che mai mi hanno toccato, neanche di sfuggita... la sconfitta è l'inizio della rivalsa. Invece, un essere terreno ha una sensibilità diversa: teme la morte, l'abbandono. Affianco a me sei sempre al sicuro. Spero che ti entri bene in testa, se ti ho scelta è perché sei preziosa”.

“Tanto lo so che mi tieni solo perché ti piacciono i sederi grossi, furfante.” Dorisa si versò una tazza di tè, ormai freddo. Che infamia! I tini erano vuoti, le lucciole a danzare lontane dai festoni e le braci sotto il calderone gelide da un pezzo: quale altro castigo si sarebbe inflitta?

“Di notti bianche ne ho consumate molte, mia cara. Di corpi ne ho visti sfilare un'infinità... ma i cuori, Dorisa. Quanti cuori adoranti un principe che si ritiene divinità può dire di possedere? La merce rara cresce sui rami alti degli alberi. Sono quei frutti succosi toccati dal primo raggio di sole, dolci e polposi. C'è chi si accontenta di tendere la mano, chi di scrollare la pianta, io preferisco arrampicarmi. Volevo il tuo cuore puro, l'ho conquistato. Faresti lo stesso per quel marpione di zio Sanguine, mia cara?”

“Andrei in capo al mondo” sussurrò. Si era voltata di scatto, per poi poggiare una guancia sulla porpora della lunga tunica. Quanto si era sentita sola a Winterhold, prima d'incontrarlo al Focolare Gelato. E quanto la torturava l'incomprensione, il fatto che una tazza fumante – o un libro – erano lì ad attenderla all'ennesimo tentativo di salvataggio finito male. Sì, era ostinata: pensava che bastasse poco per migliorare la vita di qualcuno – qualcuno a cui si sarebbe presto affezionata, tanto da considerarlo amico. Quanto era stupida a pensare di poter aiutare tutti...

“Non è vero.” Le sussurrò lui all'orecchio, solleticandole il collo. “Perché te la prendi a male? Per un elfo saccente e piantagrane, che ricambia i favori con un cumulo di informazioni inutili ben rilegate? Se fosse stato capace di amare davvero quella poveretta mica sarebbe venuto da te! Evita di imputarti le mancanze di chi ti vuole schiacciare a terra, a tutti i costi.”

“Così non cambia nulla,” Gli strinse il collo forte, mentre sfiorava col naso i contorni sbalzati della fibula nera, metallo dell'Oblivion, “altrimenti perché viaggiare, perché vivere se poi tutto deve rimanere uguale?”

“Nonostante i torti subiti sei sempre ottimista, anche se lo Jarl e i suoi cittadini sono come cani fedeli finché c'è una mano che dà loro da mangiare. Vuoi il cambiamento, allora perché sei triste?”

“Cerco di farne a meno ma non riesco.” Dorisa si strinse le spalle tra le mani, nascondendosi tra i petali, nuda quanto un fiore appassito. “Bloccherei questi pensieri se ne fossi capace, direi a me stessa di valere qualcosa...”

“Chi vale davvero non ha bisogno di attaccare l'amor proprio altrui. La pausa di riflessione è durata abbastanza. Dunque che si fa, ricominciamo daccapo?”

Dorisa annuì, incapace di opporgli rifiuto. La cannella e i chiodi di garofano l'avevano inebriata, le fronde degli olmi protetta, ogni schizzo d'acqua vibrava una nota nell'armonia naturale della selva. Eppure, quando si è soli, anche una reggia può sembrare opprimente come una cella.

“La Rosa, tortino alla crema...” Sghignazzò Sanguine, recuperando una bottiglia di vino buono dalla cassa con fare indifferente; mentre il bellissimo manufatto aleggiava a mezz'aria, davanti agli occhi umidi e le labbra dolci e socchiuse che avrebbe presto bagnato. “Non l'hai mai adoperata come si deve. Sai, manchi ai cani di Markarth ora che si parla del drago.”

“Non mi dire che l'odore del sangue continua ad attirarli ovunque vada...”

“Certo.” L'afferrò con una piroetta, esibendosi poi in uno smaccato inchino. “Sei una brava evocatrice, eppure ti ho donato un potere degno di una regina. Un esercito irrefrenabile”.

“Giungerà a rendermi giustizia o a difendere la roccaforte?” Il tappo venne via dalla bottiglia con un ridicolo effetto da fuochi d'artificio. Dorisa lo afferrò al volo, per poi portarselo sotto le nari ed esalare l'aroma di rosa canina e frutti di bosco. “E soprattutto, com'è possibile che un bastone sia capace di evocare un plotone armato fino ai denti?”

“Prova tu stessa.” Raccolse il guanto di sfida. Entrò in comunione con le energie del bosco, immaginò palazzi di basalto e distese lussureggianti, pozze d'acqua sulfurea e caserme dove lo sferragliare di catene e lame era accompagnato da risa, danze e musica. “Eccola qui, la guardia del corpo... ha giurato di proteggerti e non vedeva l'ora di essere convocato”.

Tutto s'aspettava, tranne quella figura curva, inginocchiata e scarna. Un furetto tra le sterpaglie, un piccolo predatore senza prestanza ma con lo sguardo calmo, intelligente.

“Mia signora, aspettavo questo momento.” Il dremora era poco più che un ragazzino, coi capelli lunghi e arruffati. L'armatura appariva fuori misura sui muscoli snelli, l'estremità contundente del mazzafrusto era grande quasi quanto la sua testa. Dorisa era preparata a tutto, ma non ad accoglierlo in modo da non offenderlo. Si limitò a inclinare il capo, a porgergli la mano e a studiarlo con notevole interesse.

“È carino, vero?” Sanguine ignorò ogni reticenza e s'avventò sul ragazzo, finendo di spettinarlo. Prese a ringhiare come un cagnolino che non voleva essere coccolato. “Shamna, prode guerriera e scudo di Dragonstar, ebbe la sfortuna di ostinarsi contro ogni forma di licenziosità che animasse le notti buie, noiose. All'inizio era un fastidio trascurabile: entrava nei postriboli e da comandante delle guardie minacciava di sbatter fuori chiunque macchiasse l'onore di uomini e donne ignari di un tradimento, delle divinità a cui il proprio corpo va consacrato. I nobili non ne volevano sapere di fare carte, perciò decise di recarsi al santuario dove i tenutari dei bordelli pregavano per garantirsi locali pieni e succulenti banchetti. Non ti dico lo scempio! Perciò le mandai Grammok, dalla lingua affilata quanto la spada.”

“E cosa fece?” Dorisa s'accigliò, non sapendo cosa c'entrasse tutto ciò col nuovo arrivato.

“Ovviamente cerco di mediare e fu molto civile, posso assicurartelo. Shamna terminò la sua, ehm, profanazione... ma dentro di lei s'era insinuato il morbo che aveva cercato di combattere. Sentì il peso della colpa, perché aveva appoggiato una causa giusta attraverso la violenza. A chi avrebbe dovuto chiedere scusa, comunque, a un gerarca dremora? Peccato che i suoi occhi neri e tanta rettitudine avessero fatto colpo. Be', quando Shamna tornò al santuario per affrontarlo in un ultimo duello verbale, perse su tutti i fronti. Grammok la sconfisse e di lei non si seppe più nulla.”

“Quindi... Shamna è morta?” Azzardò la sacerdotessa mentre il dremora impallidì, per quanto un volto scuro e non del tutto ricoperto di tatuaggi potesse darlo a vedere.

“Certo che no! Altrimenti come farebbe il mio adorato Sulak ad essere qui?”

“Ah”.

“Non devo mica chiedere il permesso, sono grande abbastanza!” Il dremora, anzi Sulak, scrollò la testa e alzò il mento. “Risparmiatele la storia della mia vita, vecchio, e ditemi se c'è un piano in atto. Non vedo l'ora di infilzare quel drago come un vitello allo spiedo!”

“Calma, calma. A quanto pare hai preso da lei.” Non gradiva che si facesse beffe di lui. Finalmente Dorisa s'alzò dalla panca e gli venne incontro per dargli una pacca sulla spalla. Rimpiangeva di non avere un fratello, altri su cui contare, se non i genitori. Gli scostò un ciuffo dalla fronte e lui la osservò in silenzio. Stai dalla parte del vecchiaccio, vero? Lo dava per scontato, sebbene avesse tutte le ragioni per pensarlo.

“Benvenuto a casa.” Esordì Dorisa per riappacificare gli animi. “Hai tutto il diritto di decidere quando agire, dato che il vecchio ti ha ordinato di proteggermi. Ci saranno sicuramente delle guardie ai bastioni di Markarth e faranno di tutto per evitare che io rientri in città. Quindi ti chiedo... puoi cercare di aggirarle?”

“M'inventerò qualcosa.” Rispose, grattandosi la testa. “Per fortuna abbiamo il fattore sorpresa dalla nostra parte. Ditemi, Signora, perché vi interessa tanto aiutare un branco di idioti che vi ha ostacolato? Non meriterebbero niente, invece ve ne state qui in disparte a pensarci su. Non capisco...”

“Sai, in mezzo a un branco di idioti c'è sempre qualcuno che salveresti. A Markarth vive una ragazza che non merita di rivivere la catastrofe, di vedere ancora un incendio. Per lei sono rimasta e per dimostrare che l'amore non è una debolezza... semmai lo è troppa intransigenza.”

“Ben detto, bocconcino caramellato!” Riusciva sempre a rovinare tutto, a sminuire qualunque affermazione seria. Però non era male... se non ci fosse stato Sanguine a rallegrarla, quante volte avrebbe gettato la spugna? “Potrei mostrarti ciò che intendo per amore proprio qui, adesso...”

“Con me presente e con una uguale a mia madre quando parla?”

“Ah, taci, marmocchio. Cosa ne sai tu?”

“Poco, ma mi basta per intuire che vi state comportando come lo scemo del villaggio o un damerino da strapazzo. Tutte queste smancerie inutili, avete addirittura osato chiamarla bocconcino caramellato... si può essere più stolti di così?”

“Se ti becco!” Urlò il principe dei bagordi, mentre rincorreva il malcapitato ragazzino brandendo la Rosa come un bastone da passeggio in mano ad un anziano collerico. A quanto pare sia il tè che i giorni di ritiro erano agli sgoccioli: poteva contare sul responso di Sanguine e un nuovo aiuto, benché non proprio valido.

Forse così ci si sente. Il pensiero balenò per un attimo, poi volò via col fumo della candela. Non le faceva male, almeno per un po', tornare ad essere una ragazza comune.

 

Elanilde ricordava ancora la scena. Rimaneva un mistero per lei la remissività con cui l'ancella di Sanguine e il giullare avessero affrontato l'ordalia. I due avevano oltrepassato le mura con i Sangue d'Argento e le guardie a urlargli i peggiori insulti. Li avevano accusati di empietà, sacrilegio, persino di aver violato il tempio di Dibella dato che, col favore della notte, qualche ladruncolo vi si era introdotto per trafugare una statuetta antica, ricoperta d'oro e fili di perle. Non molte ragioni erano state fornite al popolo, le si potevano leggere su manifesti diffamatori affissi in ogni angolo della città. Perciò, tutti erano convinti che scacciare la sacerdotessa e rinnegarne i consigli non fosse solo necessario, ma anche la scelta più giusta.

L'unica amica si era così volatilizzata nel nulla e lei aveva ripreso la solita vita in officina. Talvolta si fermava a guardare l'acqua scorrere nei canali lo scroscio era invitante; desiderava tuffarsi e non riemergere. Vedere la luce e rimpiangerne il calore, nell'apatia, nell'assenza di sollecitazioni. Esserci o no avrebbe fatto di poco la differenza.

Il distacco attira, è inevitabile. Cancelmo e il nipote allungavano ogni tanto un'occhiata furtiva, non si sentivano invasi, piuttosto cercavano un modo di coinvolgere il garzone Elanil, per distoglierlo dalla solitudine. Quanto era goffo Aicantar, a cercare di incuriosirla con alcuni frammenti d'iscrizione dwemer e degli ingranaggi di metallo, particolari che un fabbro avrebbe apprezzato, poiché i pezzi provenivano da una di quelle famigerate e mortali balliste. Prese a farlo sempre più spesso e con piacere Elanilde gli concedeva il proprio tempo.

Aveva notato la solidarietà delle persone estranee. Accortezze capaci di migliorarle la giornata, piccoli gesti che qualcuno era incapace di apprezzare.

Ondolemar... senza dubbio era stato lui a esasperare lgmund, a strappargli quel bando, nel fallimento costante di volersi rendere gradevole ai suoi occhi, di essere preferito a coloro che considerava mezzi di realizzazione personale. Più volte le aveva fatto trovare, come monito e sul sacco a pelo, uno degli abiti che aveva preso ad odiare. Stanca, delusa e amareggiata, aveva tirato fuori il coltello e per assicurarsi di non ritrovarli ancora li aveva fatti a brandelli.

La paura la bloccava, la rabbia la spingeva avanti. Moth-Gro Bagol non aveva posto rimostranze quando, il giorno seguente alla malefatta, Elanilde aveva accantonato il lavoro per appropriarsi di una pila di lamine d'acciaio per cominciare a lavorare su un progetto totalmente nuovo.

“Prima le armi, eh? Poi la fuga. Menomale che hai capito.”

Sevan era rimasto nella rocca perché sarebbe stato poco prudente per l'Inquisitore attuare la vendetta fino in fondo. Il legato era alleato dello Jarl, in pace con il Dominio Aldmeri e non dava segni di ostilità. Accusarlo avrebbe significato agire nel momento sbagliato, giacché i minatori al di là delle mura avevano avvistato un drago oltrepassare in volo gli scavi, per poi dirigersi verso le montagne ad est. Difendere Markarth era diventata una priorità, non c'era più tempo da perdere nelle dicerie. Tuttavia, nulla sarebbe accaduto, poiché i cittadini si affidavano alla pietra e a costumanze durate secoli. Prima veniva lo Jarl, poi l'Impero e infine Alinor, come ultima ruota del carro.

Gli armamenti arrivavano da Solitude, degli orchi non c'era da fidarsi: se il drago avesse attaccato, i Thalmor avrebbero difeso da soli la loro postazione. I nodi erano venuti al pettine, un'emergenza aveva svelato le posizioni reali sulla scacchiera. L'inquisitore era in cima ad una torre d'avorio, una torre che tutti desideravano veder crollare.

Elanilde non l'avrebbe seguito. Era stata schiava per una vita intera, le spettava decidere come morire.

L'ira arroventava l'acciaio: cieca, inestinguibile. L'anima della spada acquisiva spessore, veniva fuori in un'assurda semplicità. Pochi ornamenti, solo una facciata lucida su cui specchiarsi e l'elsa guarnita con ossa di cervo. Andava a caccia, di fronte non aveva la preda, bensì il futuro. Poteva lasciarlo scappare o trafiggere l'ultima occasione: nulla senza dolore e cicatrici. Il sangue era il sentiero oltre la montagna, alimento dell'erba, cancrena e sutura.

Si spegneva il sole, s'accendeva un lume. Aveva smesso di contare le ore, di dar retta ai pensieri, si era annullata nella sua ultima speranza. Elanilde era conscia che fosse l'abito a dettare timori, disprezzo e aspettative. Negli abiti risiedeva la coercizione di Ondolemar e un affetto perverso, fatto di quadri già dipinti appesi con foga su pareti nude. Immagini per compensare debolezze, inesperienza.

Gli occhi le lacrimavano, magari era il calore della forgia, la polvere metallica raschiata dalla ruota. E mentre infilava un perno per fissare le guarnizioni sull'impugnatura, immaginava uno stiletto tra le costole, il bavaglio di cuoio per renderlo muto quanto lei. E muta era pure la pelliccia d'orso con cui foderava la giubba, perché la nuova compagna sarebbe stata una valida custode.

Non accade nulla per una vita intera, poi tutto all'improvviso. Le attese sono fatte di attimi persi nel fluire del tempo, ma la vendetta... la vendetta reclama pochi, spontanei gesti.

 

 

Igmund serrò le mascelle, inarcò le ciglia e si erse dopo un profondo respiro. Scese gli scalini, impettito, tenendo le braccia indietro per indicare a Faleen e Raerek di stargli alla larga. L'avrebbe sistemato in fretta, quel dunmer che tornava a palazzo solo per ficcare il naso e sparare sentenze, senza riguardi.

“Mio Jarl, non avevo intenzione di offendervi.” Sevan scrollò la testa, sapeva di aver superato il limite e avrebbe continuato a farlo. “Eppure, se ritenete importante il consiglio di un alleato, è bene che riflettiate su quanto ci tengo a sostenere, da giorni ormai.”

“Vi nego ogni possibilità, Legato.” Biascicò, trattenendosi a fatica da una sfuriata. “Non pronunciatevi più a favore di quella sgualdrina e del suo attendente. Da quando hanno messo piede a Markarth, la moralità latita: gli schiamazzi si sono fatti più rumorosi, il tempio di Dibella ha perso l'immagine venerata dai pellegrini, un cittadino è scomparso e i Thalmor mi si sono scagliati contro perché non è altro che un ricercato. Ah, ci mancava solo il drago a dare il tocco finale. Ciò che chiedo è di poter governare questa città e di mantenerla nella quiete che merita.”

“E non pensate che, da buon nord, sia onorevole prestare ospitalità?” Sevan rincarò la dose. La mano s'avvicinò di sfuggita al pomo della spada. “Questi stranieri hanno moltiplicato gli avventori della Locanda Sangue d'Argento. Nei borghi vicini si elogia Markarth come luogo scelto dall'amore e dalla bellezza... nonostante gli omicidi, i sotterfugi, qualcuno è disposto a vedere il lato buono delle cose. E credo che i mercanti non si siano lamentati troppo quando tutto filava liscio e le tasche grondavano oro.”

“Cosa intendete insinuare?” Gli era a poche spanne di distanza, a sputacchiargli sul naso. L'elfo restò inamovibile, tanto da evitare di pulirsi il viso.

“Non insinuo, espongo semplicemente il mio punto di vista.” Aveva sentito abbastanza, era ora di andar via. “Se avete ritenuto opportuno bandire dei viandanti senza fondamento, allora identificare l'autore dei furti non sarà faticoso, dato che continuano ad avvenire. O è forse meglio servirsi di un capro espiatorio per metter fine a dilemmi irrisolti? La casa abbandonata, ad esempio... non so se mia sorella è morta, se il custode l'ha assassinata o peggio...”

“Ho usato nei vostri confronti fin troppa cortesia... adesso, fuori di qui!”

“Provvedo subito, grazie.” Prima di andare lo ossequiò coi dovuti omaggi. Un inchino con le ginocchia a terra, lento e formale: immaginava innanzi il dovere e l'autorità, non l'ipocrisia attuata per puro guadagno. Ben lieto, Sevan voltò le spalle a Igmund e al suo trono.

“Tenete a mente, però, quali sono i vostri veri alleati, mio Jarl.” Un briciolo di fiducia gli suggeriva che, forse, alla fine il buonsenso avrebbe prevalso. “Si faranno avanti quando sarete in difficoltà, senza pretendere nulla in cambio, neanche la lealtà”.

Aveva fortuna per essere un povero diavolo, con quel cimelio affisso lì in alto, tra drappi di velluto scarlatti. Lo scudo dell'amato padre, che aveva rivisto la luce grazie al sudore altrui.

Doveva essere una prova? Allora Sevan si sentiva provato da tante, troppe situazioni. La guardia armata gli permise riprendere la via della locanda, di sparire per un paio di giorni evitando di piantar grane. Le due facce della politica imperiale, l'intrigo contro l'azione esplicita, bene si accordavano col cinismo di cui era stato oggetto... anche se comprendeva le ragioni, poiché erano le stesse che lo avevano spinto, anni prima, a intraprendere la carriera militare.

Ragioni futili, ma pesanti come macigni.

Il presente e il passato erano fusi in una linea continua, priva di cambiamenti. Continuava a vedere ciò che aveva smarrito nelle piccole cose, risvegliavano in lui spiacevoli connessioni. La stessa permanenza in quella città odiosa, da cui desiderava disintossicarsi, incatenava una parte dell'anima al rimorso. Che fosse vigile o meno, poco contava... l'incubo era un'ombra incombente.

Scattò all'indietro, convinto d'esser inseguito, il presentimento si dimostrò reale. Una figura svelta era venuta fuori dalla fucina, altri non era che il servo dell'Inquisitore, Elanil. Prevedeva quale sarebbe stato il motivo dell'incontro, perciò preferì distanziarsi dal corridoio e raggiungere l'anticamera degli scavi dwemer; sarebbe bastato a non tradirlo, a garantirgli la sicurezza che cercava. L'ininterrotto rombare dell'acqua gli ovattava la voce, quasi quanto il vapore delle cascate sfumava la geometria dei canali.

“Hai le orecchie attente, mi fa piacere.”

Il garzone annuì, com'era solito fare quando ascoltava.

“In caso spettasse anche a me la sorte degli indesiderati... vuoi cogliere l'occasione per dartela a gambe, giusto? Ti manderò un corriere, uno che non desti troppi sospetti, verrà a chiedere delle riparazioni. Hai un'arma o dovrò procurartene una?”

Elanil delineò i contorni del filo, dell'elsa, sembrava che la spada fosse lì o pronta ad esser evocata attraverso l'immaginazione.

“Bene. Avrai dei complici nell'impresa, se ci ripensi... mandalo via con una scusa qualunque. Non preoccuparti: le persone che ti tireranno fuori da qui non verranno dichiarate responsabili. È tutto nelle tue mani, mi affido alla tua prontezza, al tuo coraggio. Può darsi che non ci sarà modo di rivedersi ancora, in tal caso... addio e buona fortuna!”

La storia del ragazzo gli stava a cuore, ma non avrebbe messo a repentaglio la vita di un sottoposto. Aveva imparato a non dare per scontato un gesto amichevole, la presenza di chi si professava compagno. Azura l'aveva visto nello sconforto, poteva testimoniare sull'arroganza infantile e le scelte sbagliate che l'avevano trasformato nell'uomo distaccato con cui scendeva a patti quotidianamente. La vecchia impulsività era la malinconia di qualcuno che aspirava a credere, a fidarsi ancora, nell'incapacità di perdonare se stesso.

“Presto, alle postazioni di vedetta. Hanno avvistato il drago!” Le urla di Faleen avevano interrotto il flusso di memorie, Sevan le corse dietro mentre le guardie si unirono presto al corteo allarmato. Varcati i bastioni della tenuta, ognuno prese la propria strada o cercò un luogo adatto a colpire. Purtroppo, il soldato imperiale scoprì che in una città fortificata verso l'alto una spada non gli era di grande utilità, se non nel corpo a corpo. Indugiò per qualche attimo, poi ebbe un'idea.

Discese le scale in fretta e furia, guidato dal serpeggiare del fumo: trovò Ghorza riparata dietro un pilastro, con l'arco pronto a scoccare e l'apprendista, Tacitus, a reggere la faretra balbettando frasi incomprensibili.

“E non stare lì a frignare, hai detto che te la cavi un po' con la magia. Vedi, qualcosa sai fare... altrimenti queste frecce non avrebbero la punta! Almeno le hai affilate a dovere?”

Il ragazzo ebbe solo la forza di assentire con un cenno. Ghorza riprese a scrutare il cielo, nauseata.

“Lo prendo in prestito.” Nell'emergenza un arco mancante non avrebbe fatto la differenza tra la merce in vendita. Il sole stava per calare, avevano pochi minuti di luce a disposizione: Faleen era di fronte l'ingresso del salone di Vlindrel con Aegis a darle manforte. Sull'altro versante, Bothela e le sacerdotesse di Dibella, di solito sempre a battibeccare sulla condotta dell'alchimista verso la natura, si erano unite contro l'avversario comune. Avvertiva il crepitio delle fiaccole, lo sventolio degli stendardi sulla torre di guardia e il respiro farsi affannato, mentre martoriava la piuma tra le dita.

Strisce ramate permanevano all'orizzonte, e al di là di esso una cortina scura s'infittiva poco a poco. Vennero giù travi e pietrisco dalla muraglia, si susseguirono strilli, passi concitati. Non era lo sprazzo celeste tra i due bastioni a spegnersi tra le nuvole, piuttosto una sagoma spinosa, ad ali e fauci spiegate.

I soldati lungo la passerella saggiarono in pieno la colonna di fuoco che la creatura gli soffiò contro. Accecati dal panico, dal dolore, si dispersero verso i portici e in vie differenti. Le guaritrici in cima non attesero oltre e si diressero in soccorso, mettendo a repentaglio la loro sicurezza. Il drago seminava panico, volando in circolo e puntando le guardie in una cruenta gara di tiro. A tutti spettava la propria dose, quindi Sevan ricambiò con impeto e furia, mentre s'immaginava da funambolo a traballare sulla corda, a cercare un equilibrio o a strappare alla bestia il ruolo di predatore.

Sussultò quando si ritrovò qualcuno alle spalle, era Elanil, attirato dal trambusto e in compagnia di una spada appena forgiata. Gli stava accanto, reggeva uno scudo rettangolare per rendere la sua mira più sicura, l'ansia meno palpabile. Sevan si parò dietro l'insegna di Akatosh, urlando imprecazioni e indenne per una manciata di secondi, da cui era dipesa la sua vendetta. Sopravvivere ad un combattimento è questione di distanze.

L'aveva visto di sfuggita, però era servito a sgomentarlo.

“Questa fottuta bestia non è un drago, Azura sa con che razza di demone abbiamo a che fare!” Scese dagli spalti per scivolare dritto nell'arena, la piazza del mercato era divenuta un ammasso disordinato di roghi, membra maciullate e cadaveri ustionati. Tra il fumo e gli stendardi strappati, i minatori colsero l'occasione di venire allo scoperto e di piantare, su dorso e coda del drago, le punte dei loro picconi. Volarono via, come gocce d'acqua sulla pelliccia bagnata di un orso. Altre guardie, altri cittadini gli si scagliarono contro. Uno straniero rinfoderò la spada d'acciaio e svelse l'ascia dal cinturone. Era un uomo nord d'età indefinita, sul viso portava i segni dei giorni passati in una prigione naturale, le linee del vento, del gelo, degli artigli che quasi gli avevano portato via un pezzo di guancia.

“Hai le ossa contaminate... non è Akatosh a sorreggerti!” Prima una curva, poi un affondo dritto che la creatura schivò, provando ad azzannargli un braccio. Sevan si ritrovò a imitarlo, a non intralciarlo mentre sfidava la bestia a farsi avanti. Un folle, un avventuriero? Era già tanto se non l'aveva ammazzato, impegnato com'era a sostenere il disprezzo millenario delle pupille striate.

“Scansa, a destra!” Il dunmer gli si parò avanti con lo scudo, per scongiurare gli uncini appuntiti sull'estremità delle ali: gli si spezzò dritto di fronte al naso, ma sostenne ancora il moncone attaccato all'impugnatura. Era chiaro che reclamasse la sua carne, che volesse inghiottirlo nel profondo del crepaccio in cui dimorava. I gambali cedevano, aveva abbandonato l'arco e presto si sarebbe difeso solo con la spada. Diamine, si stava dando da fare anche per lo straniero, era ora che pure lui facesse qualcosa...

...e rimase immobile, chino sull'elsa, quando il nord pronunciò minacce in una lingua a lui incomprensibile. La bestia prima ringhiò a zanne scoperte, poi indietreggiò e spiccò il volo, abbandonando la battaglia all'improvviso, così com'era iniziata.

“No... non ci posso credere.” Farfugliò Sevan, conscio delle implicazioni di tale scoperta. “Tu... Sei un Sangue di Drago. E io credevo che lei fosse l'unica!”

Un sussurro che interruppe la breve meditazione del guerriero, con gli occhi fissi ad est, verso le vette sepolte da ghiacciai perenni.

“Conosci chi si fa chiamare Sacerdotessa di Sanguine?” Domandò, andando dritto al sodo e senza convenevoli.

“Sì, e non rivelerò dove si trova. L'hanno scacciata, i bastardi, e adesso ne pagheranno le conseguenze. Ho abbastanza buonsenso per ringraziarti, se sono vivo dipende in parte da te. Ma lei, cosa vorresti farle... ucciderla?”

Non si accorse di aver sibilato, incurante della folla che gli si stava radunando attorno. Una sola ragione lo spingeva a voler proteggere la sorella dunmer, con cui di rado aveva avuto l'opportunità di conversare. Andava al di là della convenienza, somigliava ad un filo invisibile che univa le loro vite. Qualche sprovveduto avrebbe riso, giudicando dalle apparenze: la sacerdotessa, poi, era tanto affabile da invogliarlo ad offrirle più della sua amicizia. E così non era, perché il passato gli impediva di andare avanti. Gli impediva di considerare quella donna una fiamma, anzi, lo spronava alla resa dei conti. Ci contava, serviva il nemico del suo nemico. Aveva consultato mistici ed evocatori, si era offerto di rimanere di stanza a Winterhold per stare a contatto coi maghi in grado di indicargli come liberare Varasa.

Si somigliavano molto e capiva. Capiva cosa volesse dire servire i daedra. Sentirsi benedetti o sporchi; reietti, peccatori. Vestigia di rabbia ed eccessi di ira ancora lo visitavano nello sconforto: metteva in riga i cattivi pensieri, quando ne era in grado. Quando non poteva, afferrava l'ascia e abbatteva abeti e carcasse di horker. Scaricare le proprie responsabilità sul riflesso dell'odiato maestro non lo esimeva dall'ammettere gli errori... eppure, ciò che aveva costruito era andato in frantumi. Un'innocente era stata plagiata perché l'aveva affidata all'uomo sbagliato, aveva valutato le parole di un estraneo più di quelle del suo sangue. Solo la rabbia lo mandava avanti, nel tormento gli dava un motivo per non farla finita.

Lo straniero si strofinò il naso. “Non intendo ucciderla. Qualcuno ci andrà vicino, comunque, se mi precludi di vederla. L'entità che ha attaccato la città non è un drago qualunque... sono stato mandato da chi ne ha avvertito la voce. L'essenza è la stessa, inconfondibile... però, una magia oscura la contamina. Esiste un signore dell'Oblivion che è noto come il Mietitore delle Anime. La sua perversione è tale che, nel delirio, ha tarpato ali nate per librare al vento. Ne hai visto uno, ma potrebbero essercene ancora. Per questo chiedo di vederla, devo evitare che accada.”

“E va bene.” Si risolse il legato. “Il nemico del mio nemico è mio amico, ma non torcerle un capello. Ti farò pagare anche il minimo sfregio, lo prome...”

“Haraldur.” L'altro gli porse la mano. “Non ci saranno conflitti d'interessi. Prima andiamo e meglio è, non vorrei ritrovarmi segugi alle spalle...”

“Lui, dici? Nah, è un pezzo di pane.” Il servo del Thalmor raccolse i pezzi scheggiati dello scudo e li fissò inebetito, sentendosi un peso morto. Piegò leggermente le ginocchia e filò via, prima che si ripetesse la prassi agli occhi di Markarth. Detestava quando la mettevano da parte: Elanilde era persa nel vuoto che i due combattenti lasciarono dietro, estromessa dal calcarne coi propri piedi le impronte. Se era un uomo d'onore, avrebbe mantenuto la promessa; non si sarebbe dimenticato di lei, non l'avrebbe costretta a imputridire dietro un velo di cipria o a consumarsi tra la cenere della fucina. Il presente era a pezzi, ma l'avrebbe ricostruito, riforgiato, con le sue stesse mani.

Guardava avanti, al futuro.



Pensavo che non l'avrei pubblicato più, che ci volesse più tempo. E invece eccolo qui, senza troppe pretese perché così mi dicevo, mentre buttavo giù frasi che non mi piacevano. Scrivi, scrivi per raccontare la storia. Puoi tornare indietro,  l'importante è che vai avanti.

La cosa strana è che sono stati introdotti nuovi personaggi, proprio mentre la storia dovrebbe volgere al termine. Perché? Sentivo che era arrivato il momento. Una nota breve: per questione di realismo, anche “mitologico”, ho preferito che per i dremora fosse possibile scegliere un compagno umano. A dire il vero, ci saranno anche altre “stranezze”, chiamiamole così. Non so se mettere diciture particolari per i fedelissimi del lore, a questo punto, o dire semplicemente che mi sono presa delle libertà. Se avete giocato ESO, forse vi sarà più chiara la tipologia del drago apparso in questo capitolo. Purtroppo, devo ancora correggere alcune frasi nel capitolo precedente. Altre note potrete leggerle nel blog.

A presto, spero. :)

  
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